È Andrea Simoncini, docente di Diritto costituzionale all’Università di Firenze, a introdurre l’incontro “La vita: esigenza di felicità. Testimonianze”, nel quale ci prepariamo ad ascoltare la neonatologa Elvira Parravicini, assistente di Clinica pediatrica alla Columbia University di New York, e il professore di diritto Orlando Carter Snead, direttore del Center for Ethics and Culture della Notredame University. Simoncini interpella il pubblico: “Qual è il valore della vita umana? Oggi l’idea prevalente è che il valore della vita sia misurabile. La misura di valutazione della persona è la misura delle sue capacità. La nostra esperienza umana sente sufficiente questa definizione? L’esperienza umana dice che nessun uomo, al fondo, accetta di essere misurabile”.
Con Elvira Parravicini siamo condotti ad osservare il valore della vita nel momento del suo inizio. Lei è diventata neonatologa “per salvare la vita ai neonati in difficoltà”. Si adoperava nelle diagnosi prenatali per curare i piccoli feti, ove possibile, o per cure precoci alla loro nascita. Ma la mentalità iniziò a cambiare, le diagnosi prenatali non servivano più per aiutare nella cura bensì per eliminare i bambini in difficoltà. Così la neonatologa smise di andare alle riunioni tra colleghi dove si sentiva sempre più afflitta. Due anni dopo fu invitata a rientravi: “Questi bambini soffrono, soffrirò con loro”, decise, e tornò. Presentavano quel giorno il caso di due mamme in attesa di bambini con gravi patologie. Le madri però non volevano abortire. L’equipe era nel panico. “Dissi: datele a me, facciamo comfort care. Non sapevo nemmeno quello che stavo dicendo”.
Sullo schermo appare una foto: una neonata minuscola che tiene in mano un dito della mamma che però è enorme, troppo grande per essere stretto, quindi la manina vi è posata delicatamente sopra. La bambina pesava appena 360 grammi, tornò a casa al raggiungimento dei tre chili di peso. “La famiglia mi chiese se volevo essere la sua madrina di battesimo. Mi sentivo molto collegata al suo destino”. Rianimando un’altra piccola paziente, Simona, “ho capito che tutta la mia scienza non mi aiutava a farla stare in vita se non ci fosse stato un Altro. Essere medico significa usare tutto di sé in termini di professionalità per un Altro che decide le ore e i minuti”.
La comfort care non è stare fermi perché non c’è più niente da fare e limitarsi a consolare pazienti e genitori. “Non è vero che non c’è più niente da fare – sostiene – il neonato ha bisogno di essere accolto, tenuto caldo, non deve soffrire la sete e la fame, non deve sentire il dolore”. Appare una foto: una mamma sorridente con in braccio una neonata e due bimbetti più grandi accanto, chiaramente i fratelli. Il più grande alza una mano in segno di esultanza, sorride trionfante; l’altro è completamente rapito dal nuovo arrivo. La cosa incredibile è che tutti sapevano che la piccolina sarebbe vissuta per poche ore. La ricercatrice racconta di una bimba che ha vissuto appena dodici ore. “Quando i genitori sono andati via ho detto: ‘Mi dispiace per la bambina’ e la mamma: ‘Non dica così. Noi siamo stati felici – ha usato la parola felici – insieme’”.
Al momento di spiegare ai genitori l’esito della diagnosi prenatale la Parravicini non dà opzioni come l’aborto, ma fa una proposta ragionevole, quella di un’assistenza terapeutica. “Chiedo: è un
maschio, una femmina, avete deciso il nome? Così sentono che io lo aspetto e si scatena una competizione affettiva perché ci sono genitori che non concepiscono che ci sia qualcuno che ami il loro bambino più di loro stessi”.
Accadono casi sorprendenti, come quello di Alessandra: era nata di 800 grammi, un’infezione le aveva distrutto l’intestino. I chirurghi avevano decretato: non c’è più niente da fare. Alessandra sorride dalle foto: il suo primo compleanno, lei che dà da mangiare alla propria bambola.
“Dico ai genitori: io seguo il tuo bambino, ci dirà lui dove andare. È bello che i genitori siano in pace e fieri che il loro bambino guidi i dottori. Percepisco l’abisso tra quello che vorrei fare e quello che posso fare. Il senso di impotenza va bene, perché lascia spazio al Mistero che interviene e chiarisce”. Le resta una domanda: perché questi bambini hanno una vita così breve e non possono godere di ciò che godiamo noi? “Non ho ancora trovato la risposta compiuta. Però un fatto mi ha chiarito molto. Una coppia di teenagers aspettava due gemelline siamesi. Erano unite al torace, inoperabili. In sala parto c’era un’atmosfera bruttissima, gli ostetrici che si lamentavano, giudicando quel parto una pazzia, tutti con la macchina fotografica a riprendere il parto inusuale. Nascono. Il padre mi chiede di tenerle in braccio. Vede che fanno dei sospiri e dice: ‘Il vostro papà è qua, non vi preoccupate’. Mi guardo intorno: la sala parto è completamente cambiata. Tutti piangono, si commuovono, vanno ad abbracciare questi genitori bambini, mettono via le macchine fotografiche. Chiedo al papà: ‘Vuole che le battezzi?’ Lui accetta, mi ringrazia, inizio da quella di destra, pronuncio il nome e il papà mi corregge: è l’altra! Erano gemelle siamesi identiche: lo sguardo di 1questo ragazzino è quello con cui Dio guarda ciascuno di noi, irripetibile. Il senso di ingiustizia c’è per la loro vita così breve, ma un Altro le ha volute: la loro breve comparsa in sala parto ha cambiato tutti”.
Per Elvira Parravicini la vita è data, e non saremo certo noi a deciderne la durata. Dello stesso parere è Orlando Carter Snead, già Segretario generale del Consiglio per la bioetica durante la presidenza Bush. Nella sua esposizione ha chiarito chi sia il neonato dal punto di vista morale, umano, giuridico. “Al momento della nascita ha una personalità giuridica completa davanti alla legge. Può ereditare proprietà. Esercitare diritti. Gode di protezione grazie al diritto penale”. Dal neonato impariamo – prosegue lo studioso – che arriviamo nel mondo e siamo subito in rapporto con gli altri. Questo estraneo misterioso ha legami di parentela. Ha legami con nonni, genitori, e generazioni future. “Non veniamo al mondo slegati dalla comunità umana, ma connessi ad altri. Riconosciamo in noi stessi, quando incontriamo un neonato, il dovere di proteggerlo, farlo crescere, non per quello che può fare per noi, ma per dirgli ciò che è, membro della famiglia dell’uomo”.
L’identità del neonato sollecita a pensare ad altre persone che hanno difficoltà cognitive. “È incoerente non estendere lo stesso tipo di preoccupazione anche a loro, elementi più vulnerabili della famiglia umana”, afferma Carter Snead. E aggiunge: “Il neonato è tra due infiniti. Si estende a ritroso nel tempo arrivando fino ai primi nostri antenati e si protende nel tempo verso il futuro verso quelle generazioni di esseri umani che devono ancora nascere. È un qualcuno di concreto, a immagine e somiglianza di Dio”.
Conclude Simoncini: “Ripensando alla foto con tutta la famiglia intorno alla bambina che avrebbe vissuto quattro ore mi chiedo: ‘Come si fa a essere così felici per una bambina che tra quattro ore non ci sarà più?’. La risposta è: ‘Non so ma è accaduto’. Io non so come si faccia a essere contenti ma accade. Oggi si impedisce di vedere che accade ciò che si vede in quella foto. Occorre educare uomini capaci di andare in questa direzione con il diritto, la politica, i protocolli medici”.
(D.T.)
Rimini, 24 agosto 2012