Sette minuti di applausi ininterrotti, liberi o ritmati, boatos e ovazioni da stadio, per Julian Carron e per don Giussani. Oltre 7 mila persone, in un Auditorium pieno all’inverosimile, e altre migliaia fuori e nelle sale accanto hanno risposto così alla sfida alla loro libertà mossa da Carron e attraverso lui dal fondatore di Cl. “L’omaggio più bello che possiamo offrire a don Giussani in questo primo Meeting senza di lui – aveva appena concluso il professore spagnolo, presidente della Fraternità di Cl e docente di Introduzione alla teologia alla Cattolica di Milano – è quello di essere testimoni per tutti quelli che ci incontrano che l’unica possibilità di libertà reale è il riconoscimento del Mistero presente. Grazie, ancora una volta, don Giussani”. Una definizione di libertà a cui Carron era giunto attraverso un ragionamento serrato, fatto in compagnia di grandi autori: i “suoi” spagnoli Cervantes, Jimenez, Alberti e Zambrano, poi Leopardi e Pavese, Bernanos, Peguy e Camus. Un ragionamento che, secondo l’insegnamento di don Giussani, aveva preso le mosse non da definizioni astratte ma “dal guardare l’esperienza”. E l’esperienza, secondo Carron, insegna che la libertà non è assenza di legami, come pure vorrebbe il gaio nichilismo moderno privo di inquietudine, secondo la definizione di Del Noce, ma soddisfazione del proprio desiderio all’interno di un rapporto. Per farlo capire, il teologo spagnolo ha fatto ricorso alla parabola del Figliuol prodigo, “che taglia i legami con il padre, con la casa dove era amato, convinto di potersela cavare da solo, senza casa né vera appartenenza”. Ma la realtà lo sveglia dal sogno e così “si trova senza un padre ma con un padrone”. E allora torna a casa, “perché la noia è diventata la sua compagnia e il suo destino non importa a nessuno”. Sotto le macerie, però, è rimasto intatto il suo cuore con la nostalgia della libertà. “Torna a casa – spiega Carron – e riconosce che l’unica vera libertà è quella filiale”. Nella parabola c’è anche un altro figlio, rimasto a fare il suo dovere, che si scandalizza per l’accoglienza tributata al “pentito”. “È uno che vive in casa come un servo – commenta Carron – senza la gioia di essere figlio. Il suo formalismo non mantiene della libertà più che il nome”.
Ma la libertà è un legame dentro cui si vuol soddisfare un desiderio infinito, “più grande dello stesso infinito universo” (Leopardi), di cui le soddisfazioni contingenti, anche grandi, non sono che anticipi, incapaci, però, di darci completa soddisfazione: “Ho vinto il premio Strega, e allora?”, si chiedeva Pavese. È la realtà, come una bella donna, che desta questo desiderio e attrae e mette in moto la libertà, “perché noi non possiamo pensarci al di fuori del reale”. “Perché decidiamo di aderire o non a questa provocazione? – si è chiesto Carron – In base alla corrispondenza che il reale realizza con le esigenze del mio cuore”. “La mia libertà – scriveva Jimenez – consiste nel prendere della vita ciò che mi sembra meglio per me e per tutti”. E questo è un giudizio ‘velocissimo’ di cui oggi non si è più capaci, come denunciava Bernanos, quando parlava di “anemia spirituale dell’Europa”.
Ma fermarsi solo a questo aspetto, alla possibilità di scelta, “vuol dire rinunciare al compimento della libertà – ha continuato Carron – perché la capacità di scelta ha come scopo ultimo quello di vincolarmi a ciò che mi compie, all’infinito che cerco nei singoli piaceri, al Tu che mi chiama attraverso l’attrattiva delle cose”. Quel ‘Tu’, quel ‘Mistero’, quell’’Infinito’ che mi ha creato con questo desiderio e con “il quale sono in rapporto diretto”.
Scrive don Giussani, che “ciò a cui l’uomo tende è trascendente. Così la coscienza di sé percepisce l’esistenza di qualcosa di altro, di Dio come Mistero, come l’estremo limite a cui l’uomo tende”. “È questo – aggiunge Carron – che impedisce che l’uomo sia ridotto ai suoi antecedenti biologici, psicologici, sociologici… È per questo che l’io può sempre emergere al di sopra delle circostanze, dei propri sentimenti e stati d’animo”. Perciò la libertà, come non si è mai stancato di insegnare, in piena ortodossia, don Giussani, “è adesione all’Essere, al Mistero che ci fa. Perché o si dipende da Dio oppure si è schiavi di ogni circostanza”. Infatti, seguendo l’istinto e il capriccio, “prevale l’asfissia – avverte Carron – il sentirsi stretti ovunque, aspettando di scappare”.
Ma cosa fa la differenza, rispetto a tante altre posizioni “religiose”? Cosa rende storicamente possibile la libertà? “Il fatto che il Mistero, come la persona amata, sveli il suo volto e si faccia incontrare”, ha risposto Carron. “Con Gesù – ha proseguito – il Mistero è diventato una presenza affettivamente attraente per ogni uomo. Come successe a Giovanni e Andrea, i primi che lo incontrarono e gli rimasero attaccati per tutta la loro vita, trovando il centuplo, cioè un compimento senza paragone”. Quell’avvenimento, quell’incontro permane ancora oggi nella Chiesa. Carron ha ancora citato don Giussani: “La presenza del Dio fatto uomo si rivela attraverso questi uomini cambiati. Il segno adeguato di questo cambiamento è questa capacità di unità, impossibile agli uomini, che si chiama, con un nome intero, Chiesa”, un luogo dove la libertà è possibile per chiunque: non assenza di legami ma appartenenza vissuta. “Per questo, oggi, il Cristianesimo – ha messo in guardia Carron – non può proporsi come moralismo, spiritualismo, discorso bensì, come raccomandava don Giussani ‘come esperienza di un incontro con persone che hanno già incontrato Cristo e la cui vita, per questo, è già cambiata’ ”. Come è successo ad una signora sofferente di Parkinson che, ricoverata con una compagna di malattia, ha superato il fastidio e lo scandalo di quella presenza ricordando quanto le diceva don Giussani, secondo cui “in ogni circostanza è il Mistero che ci si fa incontro”. Così lei, per l’altra, è stata occasione di conforto e aiuto, al punto che i medici le si rivolgevano per deciderne la terapia. “Non sono stata brava io – ha scritto la signora a don Carron – ma è per la Presenza di un Altro che la sofferenza può essere sostenuta e diventare vivibile”.
“Ecco la libertà in atto – ha concluso il sacerdote – non un io incastrato nell’ingranaggio delle circostanze, ma un io che trova nel riconoscimento del Mistero dentro le circostanze la possibilità della libertà reale”.D.B.
22 agosto 2005