Rimini, 20 agosto 2024 – Alle 17:00, nell’Auditorium isybank D3 della Fiera di Rimini, si è svolto il convegno “La cura della vita”, organizzato con il sostegno di Tracce. Il dibattito ha visto la partecipazione di esperti di primo piano nel campo della medicina palliativa e del supporto alle famiglie: Franca Benini, responsabile del Centro Regionale Veneto di Terapia del Dolore e Cure Palliative Pediatriche di Padova; Davide De Santis, presidente dell’associazione La Mongolfiera ODV; e Cristiano Ferrario, docente di oncologia alla McGill University di Montreal. A introdurre e moderare l’incontro è stato Marco Maltoni, direttore dell’Unità di Cure Palliative della Romagna e presidente dell’associazione Sul Sentiero di Cicely – Per le Cure Palliative APS, che ha aperto la discussione riflettendo sulla centralità del dolore e della cura nella vita umana, mettendo in luce la necessità di un approccio alla cura che vada oltre la dimensione puramente clinica.
«Il dolore è una realtà scandalosa e misteriosa», ha esordito Maltoni, «una presenza che nessuno sceglie volontariamente ma che può irrompere nella vita in modo improvviso o progressivo, sfidando la capacità di resistenza e comprensione dell’essere umano. Il dolore è stringente, mette alle strette, può annichilire, far chiudere in sè stessi, far disperare». Soprattutto il dolore innocente, che colpisce i bambini, può suscitare le domande più profonde sull’esistenza e sul significato della vita. Tuttavia, ha aggiunto, «il dolore può anche diventare un’opportunità per interrogarsi sull’essenziale e intraprendere un cammino personale che porta dall’inaccettabilità della dipendenza a un’accettazione, e perfino a un’offerta della propria condizione».
Maltoni ha spiegato che la cura della vita implica un rapporto reciproco tra chi si prende cura e chi è curato, un dinamismo umano che richiede una visione dell’uomo come essere relazionale. Questo tipo di cura non può essere svolto in solitudine, ma richiede il sostegno di una comunità, un «allargamento della tribù» che permetta di affrontare insieme il cammino della sofferenza e della cura.
Franca Benini: la sfida della cura palliativa pediatrica
Benini, pioniera delle cure palliative pediatriche in Italia, ha condiviso la sua esperienza nel gestire il dolore e la sofferenza dei bambini affetti da malattie incurabili. «Mi occupo di bambini e delle loro famiglie. È un lavoro strano, ma per me molto bello, che mi ha permesso di conoscere tantissime storie», ha esordito, raccontando come la sua esperienza sia iniziata per caso, nell’impatto con la vita di Sara, una bambina nata prematura negli anni ’80, quando la neonatologia era molto diversa rispetto a oggi. Sara, sopravvissuta contro ogni previsione, è cresciuta con gravi disabilità, portando Benini a riflettere sulla necessità di accompagnare non solo il momento della nascita, ma tutto il percorso di vita dei bambini con malattie croniche e incurabili: «Non è sufficiente tirare fuori un bambino dalla sala parto, bisogna esserci nel periodo che seguirà la dimissione dall’ospedale, esserci nonostante tutto. La cura palliativa deve concentrarsi su ciò che la malattia non toglie: la vita, con tutte le sue potenzialità e opportunità».
Una cura palliativa che necessita di un tempo che, sebbene limitato, può essere vissuto intensamente e con consapevolezza. «Il tempo è preziosissimo, è quello che ti resta ed è il ricordo più bello», ha detto, riportando le parole di una madre che, nonostante la perdita del figlio, aveva potuto godere del tempo passato con lui, grazie alla preparazione ricevuta dal team di cure palliative. Benini ha anche parlato del valore della relazione nella cura, spiegando come il dialogo continuo con i bambini e le loro famiglie permetta di costruire una speranza anche nel limite invalicabile della malattia. «La disperazione è infettiva, ma anche la speranza lo è», ha aggiunto, «la cura palliativa non solo cambia la vita dei pazienti, ma anche quella dei professionisti che vi si dedicano».
Davide De Santis: la forza della comunità e il valore dell’amicizia
Il presidente dell’associazione La Mongolfiera ODV, nata nel 2011 in Emilia Romagna per sostenere le famiglie con figli disabili, ha offerto una prospettiva personale sulla “compagnia alla disabilità”, sottolineando come sia necessario condividere con qualche amico le domande che inevitabilmente sorgono. «La sofferenza non ha una fine per queste famiglie. Tutti si chiedono: perché proprio noi?», ha riflettuto De Santis, spiegando come l’associazione sia nata dalla necessità di rispondere a questa domanda di senso. La sua storia nasce dalle difficoltà incontrate con la nascita delle due figlie gemelle, una delle quali con gravi complicazioni. In quel momento l’amicizia e la solidarietà degli amici sono state fondamentali per affrontare la situazione drammatica: «Le mie figlie non sono più solo nostre, sono anche di tutti i nostri amici. La condivisione delle difficoltà ha trasformato la sofferenza in un’occasione di crescita e maturazione».
La Mongolfiera, oggi, non offre supporto solo economico alle famiglie con figli disabili, ma è loro compagna soprattutto dal punto di vista umano, affiancando a ciascuna di esse un volontario che le accompagna nel cammino quotidiano. «La vera sfida è sostenere questa domanda di senso», ha ripreso De Santis, sottolineando come la forza della comunità e dell’amicizia possano fare la differenza nella vita delle persone.
Cristiano Ferrario: il significato della cura in oncologia
Ferrario, attualmente operativo a Montreal, ha raccontato la sua esperienza a tu per tu con pazienti oncologici in un contesto multiculturale come quello canadese. Il professore ha parlato dell’importanza di affrontare la malattia non solo dal punto di vista medico, ma anche da quello umano: «Il bisogno di significato è lo stesso, indipendentemente dalla gravità della malattia o dalla possibilità di guarigione». Tra gli elementi più ricorrenti, «la perdita del controllo della realtà è uno degli aspetti più difficili da accettare per i pazienti oncologici». Ferrario ha condiviso la sua esperienza con una paziente che, di fronte a una diagnosi di tumore, aveva perso ogni interesse per la vita, tanto da considerare l’eutanasia come l’unica via di uscita. Tuttavia, attraverso un percorso di cura e di relazione, questa paziente ha trovato un nuovo senso nella sua esistenza, riscoprendo il valore della speranza e del desiderio di vivere.
Ferrario ha discusso il ruolo della cura come risposta al bisogno di essere visti e riconosciuti, raccontando come, attraverso il rapporto con i suoi pazienti, abbia imparato a vedere la malattia come un’opportunità di crescita e di scoperta reciproca. «Perché l’altro ti interessi devi riconoscere che ha qualcosa da dire a te, che tu sei nella posizione di bisogno di essere sorpreso tutti i giorni. La cura non è solo un atto tecnico, ma un incontro tra persone, in cui entrambi, medico e paziente, possono crescere e imparare l’uno dall’altro». Ferrario ha concluso il suo intervento raccontando come «la cura palliativa, in un contesto come quello canadese, dove l’eutanasia è legale, può rappresentare una risposta alternativa al desiderio di controllo assoluto, offrendo ai pazienti la possibilità di essere accompagnati con dignità e rispetto fino alla fine della loro vita».
«La cura della vita ha bisogno di speranza», che ha concluso Maltoni, non è un’astrazione, ma qualcosa che ha bisogno di essere incarnato e vissuto nella relazione con l’altro: «Non è solo un obiettivo da raggiungere, ma un processo continuo che coinvolge il paziente, la famiglia e i professionisti della cura in un cammino condiviso».