JOB O LA TORTURA DA PARTE DEGLI AMICI

Press Meeting

Nel buio della sala all’improvviso appare una luce e risuona una voce. È la voce di Dio. Così si apre lo spettacolo Job o la tortura degli amici, tratto dall’omonimo testo di Fabrice Hadjadj e portato in scena per la prima volta in Italia nello spazio teatrale D2 alle 19.45 dal Teatro degli Incamminati, per la regia di Andrea Carabelli, nella traduzione di Fabrizio Sini.
Job è una rivisitazione moderna della storia biblica di Giobbe, dedicata al tema del dolore e della gioia. Il Dio che compare non è lontano, ma intimo e familiare. Hadjadj non vuole narrare la lotta eterna tra il Bene e il Male, ma la tenerezza, la rabbia e la gioia del protagonista. Per questo motivo il dialogo della seconda scena tra Dio e Satana diventa un battibecco tra vecchi nemici, a tratti ironico, non uno scontro tra due titani. Ben riuscita è la scelta di far parlare Satana attraverso una vecchia radio. Le battute che si scambiano ricordano vagamente Le lettere di Berlicche di C.S. Lewis, ma qui non abbiamo due diavoli, bensì Satana che ingiuria Dio. L’ultima battuta introduce il tema dello spettacolo “Che c’è dunque di peggio dei suoi nemici?” “I suoi amici…”
La terza scena si svolge in una sala di ospedale, con Job, interpretato da Roberto Trifirò, che si interroga sul senso della sua esistenza: “Perché non mi dai congedo tirando la catena, addio piccolo Giobbe, sulla giostra dello scarico?” Come il personaggio biblico, Job viene tentato dai suoi amici, tutti sapientemente interpretati da Andrea Maria Carabelli. Essi sono l’ultima carta che Satana usa per mettere alla prova il protagonista. L’ultima tentazione è infine rappresentata dalla giovane infermiera, all’apparenza un angelo nel suo candido vestito bianco, interpretata dalla cantante lirica Dina Perekhodko. Ma neppure la bellezza e la freschezza della giovane riescono a far cadere Giobbe nell’abisso del peccato, così Satana è costretto a intervenire in prima persona nelle spoglie di un ragazzino.
Il dolore però non è l’ultima parola sul mondo. “Come potrebbe il male farci tanto male se non avessimo prima udito la promessa del bene? Come potrebbe la morte di un bambino essere per noi così mostruosa se non avessimo prima gustato la meraviglia della sua vita?” Tutto il male del mondo non riesce a scalfire la certezza di Giobbe, per questo è la gioia la protagonista del monologo finale, una gioia che non elimina il dolore, anzi riapre nuovamente la ferita.
Lo spettacolo si chiude con un’ovazione da parte del pubblico, che per ben tre volte saluta applaudendo la compagnia di attori e lo stesso Hadjadj.

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