Camillo Fornasieri, direttore del Centro culturale di Milano, presenta i due libri della serata: quello di Luigi Ballerini, medico, psicoanalista e soprattutto padre dal titolo “E adesso cosa faccio? Ripensare al rapporto tra genitori e figli” e quello di Valerio Capasa “Un’esigenza permanente – alla riscoperta di Cesare Pavese”.
Il primo testo non contiene ricette per l’uso, infatti fin da subito l’autore chiarisce che nasce dalla sua personale esperienza, dal rapporto con persone che dapprima lo hanno aiutato, poi sono divenute amiche ed infine hanno destato il suo interesse, quell’interesse che lo ha portato a fare la sua professione.
Non ci sono ricette per l’uso, anzi le difficoltà diventano occasione per riprendere, rivedere, rimettere al centro l’io e lo stesso rapporto tra i genitori. “Il figlio non è un problema da risolvere”, ha affermato Ballerini, “è semplicemente alterità. Il dato è evidente, è un altro. Lo si è generato, ma è portatore di pensieri, sensazioni sue proprie”. Il bambino pensa e stimarlo come pensatore significa riconoscere che è portatore di desideri. “Questo significa che anche nel capriccio, non sempre da domare, il genitore deve chiedersi: che cosa mi sta dicendo? Cosa sta succedendo?”
Il porsi di una tale domanda spalanca il mondo. Il figlio non è visto più come negativo, perché non è “come lo voglio io” – per inciso i figli non sopportano di non essere stimati e amati dai loro genitori – a lui viene dato un credito e questo gli permette di crescere come uomo e cioè di diventare grande non solo in senso biologico.
Di fronte alla difficoltà che l’alterità pone sempre più in evidenza quando il bambino diventa ragazzo, è semplice chiudere affermando “è un ribelle, un reattivo”. Amare il figlio invece significa, afferma l’autore, “guardare con simpatia la fatica che fa nel crescere, accompagnarlo nel cammino che deve compiere per diventare grande”, perché come dice Giussani citato da Fornasieri, non c’è un problema da risolvere, ma la risoluzione del problema sta nel notare tutti i fattori in gioco. Si tratta quindi di imparare uno sguardo sull’altro che fa crescere sia chi guarda sia chi è guardato.
L’autore di “Un’esigenza permanente” Valerio Capasa introduce il volume affermando che per incontrare Pavese occorre fare due premesse di metodo. Da un lato ogni libro è fatto per il lettore, il quale deve far fatica per imparare le parole di un altro e quindi esercitare la necessaria pazienza. in secondo luogo le parole degli altri “pescano in una zona già nostra: impariamo solo le parole che entrano nella nostra esperienza”. Pavese, osserva Capasa, ci colpisce per la sua umanità e l’esigenza che essa manifesta e questo emerge in ogni sua pagina.
Le sue parole sono pietre lanciate sopra ognuno di noi. Tutti noi ci riconosciamo ad esempio in una frase come questa: “Bada bene, tutti lo cercano uno che scrive, tutti gli vogliono parlare, tutti vogliono poter dire domani:’So come sei fatto’, ma nessuno gli fa credito di un giorno di simpatia totale, da uomo a uomo”. Basta che sostituiate la vostra professione con quella di scrittore, ha commentato l’autore.
Pavese non si è suicidato perché non è riuscito nella vita, ma al contrario ha sperimentato l’inconsistenza della fama così come esprime questa frase: “Tornato da Roma, da un pezzo. A Roma, apoteosi. E con questo?” Il cuore dell’uomo, il cuore di Pavese è riuscito a parlare della nostra umanità come pochi. Italo Calvino che lavorava con lui alla casa editrice Einaudi un giorno gli disse: “Si dice che tu tieni un diario come i ragazzini”, invece Pavese in quel diario ha scritto cose che riguardano tutti noi. Per Capasa lo scrittore piemontese rilancia a ciascuno di noi le questioni esistenziali che lui ha vissuto e riportato nelle sue opere. Solo se le sue domande diventano compagnia per ognuno, possiamo dire di aver trovato un amico.
(M.L.A., A.S.)
Rimini, 21 agosto 2012