Una breve introduzione di Camillo Fornasieri, direttore del Centro culturale di Milano, alla presentazione di “La congiura delle torri” del giovane insegnante Francesco Fadigati, ambientato nella Bergamo del basso Medioevo. Una genesi curiosa ha portato questo libro alla stampa. “Scusa, ma alla metà del XII secolo, nelle case dei nobili, alle finestre, c’erano i vetri?”. Questa è una delle numerose domande che l’autore ha rivolto a Maria Teresa Brolis, medievista.
E al caffè letterario la prima a intervenire è proprio la consulente di Fadigati. Dopo il racconto della sua esperienza di storica e “dell’esigenza storiografica” che pervade la sua ricerca, arriva al suo legame con l’autore. “La mia esperienza di studio mi fa guardare al romanzo storico come veicolo di conoscenza e di attrattiva: il problema è che io non so scrivere romanzi storici”. L’incontro tra i due nel 2005 è stata la miccia dell’opera. “Dopo aver letto un suo breve racconto su Matilde di Canossa ho capito che aveva la stoffa dello scrittore e gli ho proposto di lavorare insieme ad un romanzo ambientato nel medioevo”. Così dopo un intenso lavoro, durato sei anni, il libro ha visto la sua prima stampa. “Mi sorprende come l’arte sapeva far fiorire i fatti storici narrati da me”.
“Qui c’è una buona storia che mi è piaciuta. Spero piaccia anche a te”. Sulle parole di Tolkien Edoardo Rialti, docente di Letteratura italiana e inglese all’Istituto teologico di Assisi e visiting professor alla Olswa University, commenta il romanzo. “Un romanzo di ideali, ma non idealizzato. I personaggi dicono più di quel che dicono. I dettagli chiaro-scuri hanno campo”. Ma non è solo il contenuto da stimare. “È pregevole anche come è raccontato. Anche le similitudini servono da cassa di risonanza del mondo in cui è ambientato”. Chiude l’autore, che prima racconta di sé e dell’incontro con la docente. “Quando ho iniziato a insegnare mi sono chiesto se la vita mi stava chiedendo di smettere di scrivere”. Poi a una cena Brolis racconta a Fadigati la storia di Gregorio, un vescovo del medioevo che dice sì alla chiamata nella sua vita, e lo accompagna, nella luce del crepuscolo, davanti al monastero in cui visse il personaggio. “Son tornato a casa e ho scritto sette pagine di getto. Le prime del mio romanzo. Più vivo, più le cose mi colpiscono, più mi sento di dover raccontare l’impatto con esse. Adesso la cosa di cui sono più grato è di avere scoperto che per me lo scrivere è la strada privilegiata nel rapporto di cui parliamo in questi giorni”.
La riscoperta dell’opera di Gilbert Keith Chesterton ad opera di Ubaldo Casotto prende le mosse dalla lezione di Javier Prades dei giorni scorsi. “Il teologo spagnolo ci ricordava che ora tocca a ciascuno di noi meravigliarci di fronte all’enigma che siamo”. Le parole di Prades “sarebbero piaciute a Chesterton”. Casotto parte dallo stupore di quel “qualcosa” di cui rimaneva colpito sempre lo scrittore inglese, “senza il quale rimarrebbe solo la confusione del nulla presente”. Ma per vedere le cose come fosse la prima volta “bisogna essere o molto felici o molto tristi, bisogna essere bambini”, scriveva Chesterton.
Il giornalista racconta che questo sguardo nuovo permetteva allo scrittore di meravigliarsi di qualsiasi uomo “perché avrebbe potuto non esserci”. Tutto il contrario della riduzione di cui parlava Prades a proposito dell’uomo moderno, che considera la persona come “un mucchio di neuroni”. Concludono Annalisa Teggi, saggista e traduttrice, e Paolo Morganti, curatore e traduttore della collana chestertoniana, rispettivamente in rappresentanza delle edizioni Lindau e Morganti, che presentano le ultime opere uscite sull’autore.
(D.O.)
Rimini, 23 agosto 2012