Invito alla lettura

Press Meeting

Padre Pino Puglisi, sacerdote ucciso dalla mafia il 15 settembre 1993, nel giorno del suo 56esimo compleanno, su ordine dei boss Graviano è il protagonista del volume di monsignor Vincenzo Bertolone, che è stato anche il postulatore della sua causa di beatificazione. “Padre Pino Puglisi beato. Profeta e Martire” (San Paolo 2013, pp. 210), scritto dall’Arcivescovo di Catanzaro-Squillace e presentato all’eni Caffè Letterario, è una biografia spirituale e umana del prete di Brancaccio, ucciso in odio alla fede.
Come ebbe a dire Gianni Baget Bozzo, ricordato da Pennisi, “in questa morte leggiamo la morte di un prete per il suo ministero”. D’altra parte don Pino con parole chiare amava dire ai ragazzi e alle famiglie cui predicava: “Noi abbiamo un Padre nostro, non abbiamo bisogno di padrini!”. Se la mafia è “l’anti-corpo mistico di Cristo”, come affermato dal cardinal Pappalardo, appare allora evidente l’inconciliabilità di quest’associazione criminale con la Chiesa cattolica. Don Pino, con umiltà e mitezza, ha saputo attirare tanti giovani a Cristo, sottraendoli alla criminalità organizzata. Eppure – come evidenziato da monsignor Bertolone – egli non è stato un “prete contro, ma semplicemente un prete”. È stato ucciso per la sua fedele volontà di servire il Signore. Perciò è morto col sorriso sulle labbra, “che significa perdono per i suoi uccisori, ma anche speranza”, come detto da Pennisi.
Dunque don Pino è stato “non solo credente e non solo credibile, ma credibile perché coerente, perché è andato fino in fondo”. Ecco il significato profondo della sua morte e della sua stessa vita, “un monumento alla libertà”. Come affermò lo stesso postulatore della sua causa di beatificazione: “Il giorno dell’omicidio Palermo pianse, oggi è nella gioia perché da quel sangue è nato un popolo nuovo”.

L’ultima opera di Aleksandr Solženicyn, “L’uomo nuovo” (Jaca Book 2013, pp. 128), è stata presentata da Sergio Rapetti, traduttore letterario e consulente editoriale, e da Giovanna Parravicini della Fondazione Russia Cristiana. L’introduzione, affidata ancora una volta a Camillo Fornasieri, direttore del Centro Culturale di Milano, ha rilevato la capacità dello scrittore russo di cogliere “la piega dell’umano nel dolore”.
I tre racconti qui pubblicati ci riportano negli anni Venti e Trenta del Novecento. I protagonisti sono i giovani sul cui entusiasmo e dedizione dovrebbe edificarsi il Mondo nuovo e l’Uomo nuovo preconizzati dalla Dottrina e dalla Propaganda. Ma la vicenda del professore severo e dell’allievo negato per gli studi e però carrierista nel nuovo assetto politico-poliziesco, che riuscirà a indurre il docente a venir meno al suo dovere educativo, fino a farsi delatore dei colleghi e amici; o quella delle due Nasten’ka, che narra, per la prima, quanto sia distruttivo d’ogni valore il cieco conformismo cui ci si adatta per il quieto vivere e i vantaggi materiali, e per l’altra Nasten’ka, l’eroismo e l’abnegazione di un’insegnante di lettere che cerca invano di fecondare di contenuti morali ed eterni le nuove forme di vita e cultura: continuerà su questa strada anche se sa di essere votata alla sconfitta.
E uno sconfitto senza speranza è il ragazzo contadino figlio di kulaki deportati che rivolge al «grande scrittore», dal campo di lavoro forzato dove sta morendo di fame, un grido d’aiuto. Lo scrittore di regime, «ingegnere di anime» senz’anima, si limita ad apprezzare della lettera la freschezza e novità della parlata popolare e si ripromette di utilizzarla quale «trovata linguistica» nel suo lavoro. Il motivo centrale dei racconti è il valore delle scelte che in momenti cruciali ogni uomo e donna concreti sono chiamati a compiere: esso non è mai irrilevante per la loro vita e ha importanza anche per la vita e il destino della propria comunità e del proprio Paese. L’esigenza di vivere secondo verità e coscienza, la sentano o meno i personaggi di questi racconti, è sempre presente anche se sottesa. I loro drammi – suggerisce in questi suoi ultimi «annali» il poderoso Cronachista del secolo russo – sono universali.
Solženicyn, attraverso questi racconti (e non solo), è – secondo Rapetti – davvero “il catalizzatore ufficiale della memoria politica del suo paese, che mostra il ‘dopo’ di ciò che considera una vera catastrofe antropologica”. Il titolo della sua opera è volutamente ambivalente, perché “l’uomo nuovo” è – come ben sottolineato dalla Parravicini – “sia il progetto del regime sovietico, sia quello che può rinascere dalle macerie dell’ideologia comunista. Raccontando queste storie di vittime, anche estreme, ci fa vedere che quest’umanità nuova è possibile, anzi è la nostra speranza”. La sua vicenda esistenziale di prigioniero nei gulag è infatti “un esempio vivente che tutto si gioca nell’io, nell’umiltà che dice di non poter non essere fedele alla verità del proprio cuore”.

(C.R., F.Pi.)

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