Investire in Italia: le ragioni di un impegno

Press Meeting

“Perché impegnarsi per investire in Italia, dove non è facile?” si chiede Raffaello Vignali, presidente della Cdo e moderatore dell’incontro che vede come relatori: Pietro Navarro, docente di economia politica presso l’Università degli Studi di Messina, Benoit Lheureux, presidente e amministratore delegato di Auchan Spa, Francesco Valli, amministratore delegato della British American Tabacco (BAT), Luca Ferrarini, del Gruppo Ferrarini –Vismara, Gian Paolo Sassi, presidente INPS, Paolo Emilio Signorini, direttore CIPE e Maurizio Sacconi, sottosegretario al Ministero del Lavoro e Politiche Sociali.
Vignali, nell’introdurre gli ospiti, individua 2 ragioni di questa difficoltà ad investire: troppe regole e nessun controllo, ciò produce incertezza e costi; un sistema fiscale che premia la rendita piuttosto che gli investimenti. Questo a fronte di un’Italia in cui c’è “una migliore qualità della vita rispetto ad altri Paesi, e la ricerca, checché ne dicano i giornali, è molto buona”.
Navarro spiega come esistano 2 correnti di pensiero circa le condizioni favorevoli allo sviluppo: “Una vede la regolamentazione dello Stato come un’attività a vantaggio del consumatore e a garanzia della qualità del servizio”, “l’altra sostiene che la regolamentazione pubblica sia dannosa per le imprese che già sono in grado di autoregolamentarsi”. Con l’ausilio di alcuni grafici, Navarro mostra come ad un aumento dell’autoregolamentazione delle imprese, corrisponda un aumento della concorrenza; a scelte pubbliche più vincolanti, minori garanzie democratiche; ad un aumento degli adempimenti burocratici, un aumento del sommerso e dei livelli di corruzione. Conclude Navarro: “Il nostro Paese produce troppe regole e le applica male. Ho sentito Aznar dire che la libertà e la sussidiarietà sono gli antidoti allo statalismo. Credo che questa sia la strada”. Tocca a Lheureux sfatare il mito degli investimenti stranieri visti come tentativi di colonizzazione: “ All’Auchan, il 95% dei prodotti che vendiamo in Italia sono italiani; l’80% dei prodotti col nostro marchio sono italiani; più del 75% degli utili italiani vengono reinvestiti in Italia; 24mila dipendenti sono italiani, 15 francesi e 2 spagnoli”. Sottolinea Lheureux che “lo sviluppo nel nostro settore implica maggiore occupazione per i giovani italiani”, infatti “mi permetto di informarvi che quando apre un nostro impianto vengono assunte dalle 30 alle 60 persone”. “E’ vero che l’Italia è cara – afferma Lheureux, che cita espressamente il costo dei treni e dei trasporti, i carichi fiscali ed in particolare l’Irap e le interminabili cause che si trascinano per anni impegnando tempo e risorse – ma come imprenditori abbiamo il dovere di far crescere questo Paese. Il governo e le istituzioni devono amare di più e sostenere le imprese e aiutarci su aspetti come la tassazione”. Sempre a proposito dei “lacci e laccioli burocratici”, interviene Francesco Valli: “ Non è stato per il sistema Paese che abbiamo investito in Italia, ma per un’opportunità economica. La BAT non voleva investire qui”. “Si fermano progetti perché manca la firma di una sigla sindacale locale – esemplifica Valli – voi capite quanto sia difficile per i manager italiani spiegare queste cose alle imprese straniere che vogliono investire da noi”. Anche se, aggiunge sempre Valli, “dobbiamo dare atto alla maggioranza della bontà della legge Biagi: a dimostrazione che quando le riforme si vogliono fare si fanno, nonostante tutto”. Lo sostiene anche Sassi quando dichiara che “a parte tutti gli aspetti negativi detti, va ricordato che in questi ultimi anni l’occupazione in Italia è cresciuta, nonostante il trend negativo in tutta Europa. Questo grazie a 2 grandi riforme del mercato del lavoro: la Treu e la Biagi”. Tale visione positiva è supportata dai dati forniti da Signorini: dal ’96 al 2004 il Pil è cresciuto dell’1,4%, e la pressione fiscale è scesa dal 44,5% del Pil nel 1997, al 41,7 nell’anno scorso.
Sacconi individua i “fattori frenanti”nel “pensiero debole” degli anni ‘70, in particolare in “un crogiolo di culture ostili all’impresa, che ha creato un contesto ed un clima che costituiscono un freno ed un handicap”. Allora, qual è lo scatto che può permettere all’Italia di crescere? Questa è la domanda che pone Ferrarini: “Nel dopoguerra i nostri padri erano privi di qualunque cosa, mancava tutto, tranne la voglia di crescere e di fare. Noi crediamo nell’Italia? Se guardiamo il telegiornale sentiamo parlare solo di tragedie, così mi chiedo: ma non succede mai nulla di buono in questo Paese? Dobbiamo cambiare il clima e fare leva sul primo motore dell’uomo: la prospettiva. Quando abbiamo comprato la Vismara, che era in forte crisi, abbiamo innanzitutto chiesto a chi produceva la mortadella, a chi la distribuiva, cosa avessero intenzione di fare, se innanzitutto loro avevano delle prospettive, altrimenti avremmo solo potuto chiudere”. Conclude Vignali: “Il vero investimento è il capitale umano, la capacità delle persone di essere protagoniste positive della realtà”.

M.F.

Rimini, 24 agosto 2005