Pier Paolo Bellini, docente di sociologia della musica, letteratura e arte all’Università degli Studi del Molise, ha espresso innanzitutto il proprio disagio di fronte ai canti di montagna: in essi infatti “l’aspetto analitico e armonico non è l’elemento più importante”, lo è l“espressione in quanto tale del canto.” Questi canti “parlano di tutte le cose con profondo e commovente rispetto: percepisco in questo una religiosità naturale, pur non esplicita”, che riconosce che “la realtà è qualcosa di ultimamente misterioso.” Inoltre il canto di montagna è “inevitabilmente passionale”: sono proprio rispetto e passione ciò che occorre per “salvare il grande patrimonio di questi canti.”
Angelo Foletto, storico della musica e giornalista, ha riconosciuto che “le poche cose sane e sagge” che sono alla base del coro della SAT restituiscono un’“immagine affettuosa, piena e ricca di quello che noi non siamo più.” Per esempio, senza la SAT avremmo avuto della Grande Guerra solo un’immagine retorica: “dietro a questi canti c’è sempre una storia. Le voci bianche dei fratelli Pedrotti sono state il registratore del canto popolare italiano: il tutto è poi lentamente cresciuto, in maniera istintiva ma acuta.” Foletto ha apprezzato soprattutto “la funzione di ricercata spontaneità e la testimonianza resa al fatto che cantare insieme è bello e fa bene.” La consapevolezza di avere un patrimonio forte “è stata indirizzata verso l’idea di condividerlo, non di catalogarlo”: così è stato “inventato dal nulla un repertorio popolare alpino”, senza il quale non si sarebbe potuta formare una “coscienza nazionale civile” (secondo l’espressione di Umberto Eco).
Annibale Salsa, presidente del CAI, ha individuato nella SAT “l’eccellenza della coralità alpina italiana”, rappresentativa “della nostra tradizione di andare in montagna per conoscerla e viverla nella sua dimensione sociale e comunitaria, e non per conseguire delle performance sportive.” Il canto assume qui una “dimensione metafisica, che va oltre la parola; esso è innanzitutto autoreferenziale: si canta per chi canta, non per chi ascolta.” Un altro merito della SAT è il grande lavoro di ricerca svolto: esso ha contribuito all’“umanizzazione” della montagna, tornata a essere “un grande contenitore culturale.” È impressionante poi il coinvolgimento dei giovani. Il “bisogno di comunità, immanente alla condizione dell’uomo, viene espresso attraverso il canto corale: occorre dunque recuperarlo come conferimento di senso, di un senso che la modernità aveva cancellato.”
Mauro Pedrotti, direttore del coro SAT di Trento, ha sottolineato l’“irripetibilità” di quest’esperienza, ripercorrendo brevemente le tappe principali della storia dei fratelli Pedrotti, così come sono illustrate nella mostra ospitata dal Meeting. “Non possiamo inventarci niente, anzi abbiamo una grande responsabilità: portare avanti con umiltà e onestà quello che gli altri hanno creato.” Il direttore ha poi spiegato come oggi il coro sia “più duttile” rispetto agli inizi, quando “i mostri sacri andavano a orecchio”, ma abbia anche “maggiore bisogno di guida: la nostra è una spontaneità ricercata. Ciascuno dei (pochi) direttori che si sono succeduti nel corso della storia del coro ha dato il proprio contributo originale; le canzoni sono sempre le stesse perché sono quelle che fanno parte della nostra storia: e allora perché non andare avanti a ripeterle?” Tanto più che musicisti del calibro di Luigi Pigarelli, Arturo Benedetti Michelangeli, Antonio Pedrotti, Renato Dionisi, cui il coro sta via via dedicando diverse monografie, hanno riconosciuto che “dietro questi canti c’è qualcosa di musicalmente e culturalmente valido.”
Pedrotti ha infine espresso la propria gratitudine verso i curatori della mostra, che si sono “innamorati di questa storia”, e si è dichiarato “a disposizione, dal punto di vista sia tecnico che umano”, di qualunque coro che chiedesse di continuare l’amicizia nata in questi giorni.