IERI SERA IN SCENA LA PRIMA ITALIANA DI PIERRE E MOHAMED
STORIA DI DUE UOMINI CHE SI GUARDANO INTERAMENTE
Rimini, 22 agosto – Un solo attore, due personaggi. L’accompagnamento musicale con lo hang, strumento percussivo di origine svizzera dalle variegate sonorità. Una scena divisa in due parti immaginarie, pochissimi oggetti, quelli che caratterizzano la sacralità di due religioni: da un lato il pane, il vino e l’acqua, dall’altro il Corano. Un allestimento essenziale per dare tutto il rilievo alle parole. È la cornice in cui si è svolta ieri sera la prima italiana di Pierre e Mohamed, monologo teatrale tratto da un libro di Adrien Candiard, che narra la storia vera dell’amicizia fra Pierre Claverie, vescovo cattolico di Orano, in Algeria, e un ragazzo ventunenne musulmano, Mohamed Bouchikhi, uccisi insieme nel 1996. Lorenzo Bassotto, che ha alternato l’interpretazione di entrambi i personaggi, ha tessuto, attraverso le parole dei due protagonisti, la narrazione di una vicenda drammatica, dalla quale emerge come nota ultima la speranza. Non solo una storia di dialogo interreligioso e interculturale; innanzitutto, la storia di un rapporto, di un’amicizia, perché – come afferma il personaggio del vescovo Pierre – «l’amicizia viene prima del dialogo».
I momenti di maggior efficacia sono stati quelli in cui l’attore ha dato vita alle attese, alle paure e ai desideri del giovane Mohamed, restituendo la curiosità e il fascino che brillavano nello sguardo di questo semplice ragazzo qualunque verso la strana figura di questo vescovo a cui si ritrova a fare da autista per guadagnare qualche soldo e mantenere la famiglia, rimasta orfana di padre. Pierre, ai suoi occhi, ha qualcosa di incomprensibile: non vuole convertire nessuno al cristianesimo né convertirsi lui stesso all’Islam; ma, soprattutto, decide “inspiegabilmente” di restare a vivere in Algeria – lui che avrebbe potuto tornare in Francia in ogni momento – nonostante la pericolosità e la povertà del luogo. Addirittura, anche quando i rischi per la sua stessa incolumità diventano concreti e crescenti il vescovo non cambia posizione.
Di fronte a chi gli va ripetendo che dovrebbe stare in guardia, che dovrebbe diffidare di quel cristiano che sicuramente cercherà di sfoggiare tutta la sua cultura per convincerlo ad abbandonare la fede dei suoi genitori, Mohamed si trova, con semplicità, ad essere leale con la propria capacità di giudizio: ciò che lui vede è totalmente diverso da ciò che gli raccontano. Rimane colpito dalla totale mancanza di pretese di Pierre verso di lui; egli è sempre pronto a parlargli di Gesù, ma solo se Mohamed gli domanda qualcosa. È questa libertà autentica, questo sguardo integrale verso la sua persona ciò che conquista il giovane ragazzo.
Quando capisce che la condivisione della quotidianità col vescovo espone anche lui al rischio della vita, Mohamed si trova nuovamente ad aderire, con rinnovata semplicità, a ciò che sente vero, pur cosciente del dolore che provocherebbe alla madre se anche lui, dopo il marito, dovesse non tornare.
Tra tanti aspetti, uno in particolare colpisce in questa storia vera di crescita e di fedeltà: la capacità di Mohamed, appena divenuto capofamiglia in seguito alla morte del padre, appena quindi divenuto adulto – anche se solo sedicenne –, di decidere che cosa conta nella sua vita, per che cosa spenderla, a cosa donarla, e la capacità di farlo senza esitazioni. Ma non per un malinteso eroismo, che non tutti abbiamo; per il semplice e tenace desiderio di affermare che cosa rende felici, che cosa riempie di significato il tessuto della vita, di ogni giornata. «Forse che fine della vita è vivere?»
(T.G.)
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