Il 4 luglio di quest’anno al Cern di Ginevra è stato dato l’annuncio della scoperta del bosone di Higgs. Una scoperta che vuole rispondere a una domanda che l’uomo da sempre si pone: di che cosa è fatta la materia? Per approfondire l’argomento sono stati chiamati al Meeting due personaggi che hanno fatto del Cern il proprio laboratorio: Sergio Bertolucci, direttore della ricerca e punto di riferimento dell’attività scientifica del Cern, e Lucio Rossi, responsabile dei magneti superconduttori che sono gli elementi fondamentali di LHC (Large Hadron Collider, in italiano Grande Collisore di adroni), gioielli costati 1200 milioni di euro, pari al 50 per cento del budget globale del progetto. Introduce Marco Bersanelli, docente di Astrofisica all’Università di Milano.
“Sono un cacciavitaro – si definisce Lucio Rossi – uno strumentista. Non faccio ricerca, realizzo la macchina. Una figura necessaria perché per vedere più in là, per vedere cos’è la materia, occorre uno strumento”. Sullo schermo scorrono immagini di Galileo: “Un genio sperimentale: ha preso delle lenti, le ha messe insieme, ci ha aggiunto del suo e ha inventato il cannocchiale. Poi ha fatto il gesto fondamentale: ha usato questo strumento non per se stesso, ma per estendere il proprio io e rispondere allo stupore”. L’acceleratore è stato costruito per ‘vedere’ meglio le particelle. Rossi spiega l’evoluzione degli acceleratori del Cern fin dagli anni Settanta, fino a quando Rubbia e van der Meer “riuscirono a utilizzarlo in maniera nuova creando antimateria”. Rossi parla di antimateria e la sala ha un sussulto. È stata creata antimateria, chi lo sapeva? Ci informa che quotidianamente viene usata nei nostri ospedali durante le indagini diagnostiche effettuate da macchine come la Pet. L’utilità della scienza si vede nel quotidiano.
Rossi prosegue: “Perché fare tutto questo? Vogliamo vedere l’infinitamente piccolo. Il nostro acceleratore è un nano-nanoscopio, possiamo vedere a picosecondi dallo scoppio del Big bang”. Scorrono le foto, si vede l’acceleratore in tutti i suoi 27 chilometri di diametro, un tunnel scavato a cento metri di profondità nei pressi di Ginevra. È una galleria molto larga, illuminata da luci artificiali, con un grosso tubo colorato di blu che la percorre in modo monotono. Nient’altro. Rossi si entusiasma: “Com’è bello – dice ammirato – sembra una cattedrale”. Fa notare la curva del soffitto, insiste: “Non sembrano le arcate di una cattedrale?”.
In questa galleria che Rossi vede come una cattedrale, dentro al tubo blu, le particelle caricate di energia vengono fatte collidere tra loro. Ci sono duemila magneti per farle curvare e non mandarle a sbattere contro le pareti d’acciaio. Per fotografare quello che accade alle particelle è stato necessario un occhio gigantesco. Questo sì che sembra l’interno di una guglia. Si alza per metri e metri, quanto un palazzo di cinque piani e “non solo scatta venti milioni di foto al secondo, ma le guarda e seleziona le foto in cui i protoni sorridono” come in seguito commenterà Bertolucci. “La corsa di noi strumentisti – conclude Rossi – non ha fine. L’urgenza di andare più in là è veramente insopprimibile”.
Per realizzare l’esperimento al Cern sono state sviluppate nuove tecnologie basate sulla superconduttività e sulla superfluidità: cavi che portano 15mila Ampere senza scaldarsi, magneti che vengono tenuti a 271 gradi sottozero. Anche in questo caso le scoperte hanno avuto ricadute in campo medico: per esempio, magneti e sistema di raffreddamento sono oggi utilizzati per la risonanza magnetica. Sergio Bertolucci ribadisce il concetto: “L’obiettivo primario del Cern è certamente l’avanzamento della conoscenza del mondo fisico, ma, nell’attuare questo scopo, il risultato immediatamente conseguente è lo sviluppo di nuova tecnologia, che spesso ha ricadute pesanti anche al di fuori del nostro ambito”. Ricorda lo sviluppo del World Wide Web (www), la rete internet nata nel 1989 proprio al Cern dalla necessità di condividere i dati tra più laboratori e che ora è alla base della vita e dell’economia di molte persone. “La conoscenza che oggi sembra astratta, in verità tra qualche anno potrebbe essere alla base della nostra vita quotidiana”. Lo scienziato fa l’esempio della candela e della lampadina: “Tra questi due oggetti c’è un salto concettuale che non sarebbe stato possibile senza le equazioni di Maxwell. Lo stesso si può dire per il passaggio dalla valvola termoionica al transistor, che non sarebbe accaduto senza la meccanica quantistica”. Il Cern ha come obiettivo fondamentale anche la formazione di nuovi ricercatori: “La scienza ha bisogno di occhi vergini. C’è molto bisogno di cervelli giovani, di individui che entrino nella stanza e guardino il problema da un punto di vista nuovo. Per questo per il Cern è assolutamente fondamentale crescere e formare i giovani scienziati”.
Quale è l’obiettivo scientifico delle ricerche condotte al Cern? Capire come è nato l’universo, e quindi come è fatto. “Ci sono due modi per andare indietro nel tempo e studiare l’origine dell’universo – spiega Bertolucci – il primo è guardare oggetti molto lontani: l’immagine che arriva a noi risale a molto tempo fa, e quindi possiamo vedere come erano svariati miliardi di anni fa. Questo è quello che stanno facendo, ad esempio, gli scienziati impiegati sul progetto Planck, di cui Marco Bersanelli è uno dei coordinatori. Il secondo metodo è quello di ricreare, per brevissimi istanti e in un piccolissimo spazio, le condizioni originali dell’universo, ovvero condizioni di altissima densità di energia. Per fare questo acceleriamo particelle ad una velocità prossima a quella della luce e le facciamo collidere: in quel punto la materia è nelle particolarissime condizioni in cui si trovava pochi istanti dopo il Big Bang. L’energia alla quale possiamo accelerare le particelle con Lhc (14 TeV) consente di risalire fino a meno di un picosecondo (milionesimo di milionesimo di secondo) dopo lo scoppio. In verità, devo dire che a quel punto il bello era già successo!”.
Con linguaggio semplice ma preciso, lo scienziato prova a spiegare al pubblico a che punto la teoria (chiamata “modello Standard”) è arrivata nella descrizione dell’universo visibile. Dopo aver esposto il ristretto numero di particelle elementari (6 quark, 6 leptoni e 4 vettori d’interazione) che la teoria pone alla base di tutta la materia, arriva a porre una domanda per ora irrisolta: come mai particelle molto simili tra loro hanno masse così diverse? “Negli anni Sessanta lo scienziato scozzese Peter Higgs ipotizzò l’esistenza di un campo di forza (detto, appunto campo di Higgs) che, interagendo con le particelle, determina la loro massa. Ora io proverò a spiegare come funziona questo campo. Potrei scrivere la formula e chiudere l’argomento, sarebbe più semplice sia per me che per voi. Invece ve lo voglio proprio spiegare”, dice lo scienziato, facendo trasparire la passione che ha per la sua materia. Tramite esempi, spiega come il campo di Higgs interagisce con le particelle ad un pubblico che sembra aver accettato la sfida. “Quando interagisce con se stesso, il campo si manifesta come particella, il famoso bosone di Higgs”. E continua raccontando l’avvincente successione di eventi che, dall’inizio della progettazione di Lhc (1984) e dall’approvazione del progetto (1994) ha portato alla sua accensione (10 settembre 2008) e infine nel 2012 alla scoperta del famoso bosone. La storia di un progetto così ambizioso e che ha coinvolto così tante persone non può non generare ammirazione.
“Per andare avanti occorrono occhi vergini – riprende Bersanelli concludendo – che si accorgono della novità la dove gli altri non la vedono. La stessa emozione, la stessa meraviglia e lo stesso mistero nascono ogni volta che guardiamo un problema in modo nuovo”.
(D.T., M.F.)
Rimini, 25 agosto 2012