Rimini, 20 agosto 2021 – Mauro Ceroni, professore di neurologia, Dipartimento di Scienze del Sistema Nervoso e del Comportamento, Università di Pavia e direttore dell’Unità operativa di Neurologia generale, Istituto Neurologico Nazionale IRCCS Mondino di Pavia, introduce l’itinerario che sarà svolto da Andrea Moro, neurolinguista e scrittore, professore di linguistica generale, Scuola Universitaria Superiore IUSS, Pavia.
Ceroni declina il tema del Meeting in chiave linguistica, affermando che «dire io esprime l’atto tipicamente umano di prendere coscienza di sè, ed ha come condizione previa la possibilità del linguaggio. Senza di esso, di questo io umano, effimero eppure capace di infinito, si potrebbe parlare solo come ripetitori di discorsi». E subito Moro annuncia tre traiettorie che guideranno la sua riflessione: l’io e il mondo, l’io e le parole, l’io e il cervello.
Nel bambino, osserva, «la percezione dell’io è simultanea a quella del tu. Ma le parole sono come le cellule, non esistono singolarmente, esistono solo composte tra loro nelle frasi». Quindi «la possibilità di dire “io” passa per la struttura della frase, che chiamiamo sintassi, il cuore esclusivo del linguaggio umano».
Occorre quindi capire cos’è la sintassi. Moro non vuol dare nulla per scontato, e si lancia in uno slalom serrato di linguistica generale che, passando da esempi di coreferenza pronominale e dal principio B del legamento pronome/nome, perviene alla irrilevanza dell’ordine lineare delle parole, e alla conseguente «capacità solo umana di computare le parole in strutture gerarchiche infinite».
Ma i bambini imparano la sintassi. E non lo fanno né per istruzione esplicita (non c’è mamma che insegnerebbe linguistica generale a un bimbo di uno o due anni) né per imitazione (gli errori che fanno i bambini sono troppo pochi rispetto a quelli che accadrebbero per imitazione). Non resta che ipotizzare, con Chomsky, che la sintassi «sia un fenomeno biologicamente predeterminato, che precede la pur indispensabile esperienza». Per Moro l’esperienza (con cui si impara qualsiasi lingua con la stessa facilità) «non ha libertà incondizionata: deve muoversi nei limiti della griglia preformata, dentro cioè i confini di Babele».
Se oggi ci stupisce aver fatto così poca strada nella comprensione biologica del linguaggio, dobbiamo ricordare un pregiudizio ideologico in vigore fino agli anni ’70. Il neurobiologo Lennenberg lo stigmatizza: «Viene così ampiamente ammesso che le lingue consistano di convenzioni culturali di natura arbitraria». E il logico e filosofo Bar-Hillel nota che, sconfitta in Inghilterra la crittografia di Enigma, al MIT si pensò di «essere arrivati all’ultimo cunicolo verso una comprensione completa della complessità della comunicazione nell’animale e nella macchina». Moro chiosa: «Convenzioni, animale, macchina: l’uomo è sparito».
La mente, al contrario, non è più una tabula rasa: il bambino «ha una mente staminale. L’apprendimento possiede un meccanismo di potatura, che consiste nel dimenticare le grammatiche non compatibili con l’esperienza». Il presupposto biologico universale consente di imparare qualsiasi lingua, ed assistiamo ad un «effetto potatura». Lo dimostra il ritmo di accrescimento delle connessioni neurali. Dopo che si è appresa la lingua, il numero di nuove connessioni decresce.
Ma la prova decisiva che la sintassi, e quindi la possibilità di dire “io”, non è una convenzione arbitraria di natura culturale, è fornita da un ragionamento ardito ma semplice: «Se le lingue seguono una guida biologica che precede l’esperienza, allora devono esistere delle lingue impossibili che il linguaggio non riconosce come proprie per motivi non culturali ma neurobiologici».
È proprio così. Moro racconta il suo famoso esperimento del 2008: ad ignari tedeschi è stato insegnato un italiano ridottissimo contenente anche regole impossibili, cioè basate non su una struttura gerarchica, ma lineare. La padronanza di questa lingua è stata seguita monitorando l’attivazione di una parte del cervello, l’area di Broca, sede del riconoscimento sintattico. La regola possibile la attiva, quella impossibile no. Il risultato è una brillante doppia dissociazione tra regole e area di Broca. Le lingue impossibili esistono e non sono compatibili con l’apparato biologico dell’uomo.
Le lingue, conclude Moro, «sono l’espressione stessa del cervello. Come se la carne si facesse logos». Questa netta e rivoluzionaria affermazione comporta numerose ed enormi conseguenze, e qualcuna di esse viene rapidamente enunciata. Dalla comunicazione fra animali, che «hanno un vocabolario di frasi, non di parole», al linguaggio delle macchine, «che simulano una lingua, ma non la comprendono». Dal problema del lessico, focalizzato nel verbo essere – «il concetto di essere non può dipendere dalla parola che lo esprime, che in alcune lingue addirittura manca» – a quello di rapporto tra razza e lingua – «non esistono lingue migliori di altre, cioè geniali. Esistono al più commenti geniali espressi in qualche lingua che ha raccolto tante riflessioni sulla vita».
Moro l’aveva detto all’inizio della sua conversazione con le parole di Perrin, premio Nobel per la fisica: «Il compito della scienza è spiegare ciò che è visibile e complicato con ciò che è invisibile e semplice».
(A.C.)