Non è solo la città di Padova a unire un capolavoro dell’arte, come la Cappella degli Scrovegni di Giotto e il carcere di massima sicurezza Due Palazzi, dove vivono circa 750 detenuti. C’è un legame più profondo, come spiega Nicola Boscoletto, presidente della Cooperativa Giotto, che dal 1986 si occupa dell’inserimento dei detenuti nel mondo del lavoro: “Negli affreschi di Giotto i vizi portano all’inferno, mentre le virtù al paradiso. E’ così anche per i detenuti, che per dei vizi e degli errori sono stati portati in carcere, mentre attraverso delle virtù, come il lavoro e il contatto con le persone, possono recuperare e migliorare la propria vita”.
Boscoletto è tra i promotori di uno degli incontri di attualità del prossimo Meeting per l’amicizia fra i popoli: “Il lavoro nelle carceri”, che si terrà giovedì 24 agosto alle ore 11.15 in sala A3. Ospiti il senatore a vita Giulio Andreotti, che testimonierà come il dettato costituzionale prevedesse anche un intento rieducativo attraverso il carcere; il ministro della Giustizia Clemente Mastella e Giovanni Pavarin, magistrato di sorveglianza del Tribunale di Padova. La scelta del tema che, con la recente approvazione dell’indulto in Parlamento, è sempre più al centro del dibattito politico e mediatico italiano, prende spunto dall’esperienza della Cooperativa Giotto di Padova, nata vent’anni fa da un gruppo di giovani che, a partire dall’organizzazione di un corso di giardinaggio in carcere, inizia a occuparsi dell’inserimento all’esterno dei detenuti. E che oggi costituisce uno dei rari esempi di rieducazione umana e professionale nel mondo carcerario. Da quel 1986 i settori d’interesse della cooperativa si moltiplicano: dai manichini agli assemblaggi, dai call center alla ristorazione. Nascono poi altre cooperative riunite nel Consorzio Sociale Rebus, che oggi dà lavoro a settanta carcerati. Sessanta sono impegnati all’interno, suddivisi tra la produzione di manichini in cartapesta per l’alta moda, i servizi di call center inbound e outbound, il servizio di ristorazione con annesso laboratorio di pasticceria, l’attività di assemblaggio per la valigeria Roncato e la gioielleria Morellato, nonché la creazione di oggetti in cartotecnica in un laboratorio sorto in occasione dei settecento anni della Cappella degli Scrovegni di Padova. Infine una decina di detenuti lavorano all’esterno, occupati nel verde, pulizie e servizi cimiteriali.
Anche vivendo in carcere l’uomo può cambiare
“Ricevere fiducia” racconta Marino, uno dei detenuti, “obbliga a riflettere e a rimettersi in gioco. Rinascono delle speranze che uno aveva quasi dimenticato”. Altin è straniero, quando hanno aperto il laboratorio di pasticceria è stato tra i primi a proporsi: “Era un mestiere che mi interessava. Ho trovato di più: delle persone che oltre a insegnarmi un lavoro, mi hanno dato fiducia, senza guardare il mio passato, la mia condanna. Mi hanno fatto vedere che lavorando con passione e onestamente si può essere felici”. Speranza, stima di sé, felicità. Parole normalmente inconciliabili con la realtà del carcere. Eppure così spontanee nei racconti di questi detenuti un po’ speciali. Alcune delle loro testimonianze sono raccolte nel video che introdurrà l’incontro del 24 agosto. E delle novità che i membri del Consorzio Rebus hanno portato in carcere si sono accorte anche le istituzioni. Oltre all’Amministrazione Penitenziaria, è stato fondamentale l’apporto di Comune, Provincia, Regione Veneto e delle Fondazioni Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo. Giovanni Maria Pavarin, uno degli ospiti dell’incontro del Meeting, è magistrato dell’Ufficio di Sorveglianza di Padova: “Fin dall’inizio” racconta “ho notato in loro un totale distacco da ogni forma di ideologia precostituita sulla pena. Vedevo che volevano far star bene queste persone, certe che c’era anche per loro la possibilità di un futuro migliore. Tutto questo perché credono che l’uomo può cambiare…anche stando in carcere”.
“Aiutate chi ci sta aiutando”. Una lettera al Papa e al Presidente della Repubblica
In occasione dell’inaugurazione delle attività lavorative, il 9 novembre scorso, alcuni detenuti, tra cui Ilario, in carcere dal 1985, hanno scritto una lunga e sentita lettera a Papa Benedetto XVI e all’allora Presidente della Repubblica Ciampi. “Un grido di aiuto” come lo hanno definito loro stessi, ma anche una testimonianza del cambiamento che il lavoro in carcere ha rappresentato per la loro vita. “L’esempio di oggi dice che la vita cambia a chi di noi seriamente accetta di vivere con lealtà e con verità quel poco di buono che arriva. (…) Occorre che pur pagando quello che ognuno di noi deve pagare, ciascuno sia aiutato a guardare a una prospettiva e ricordatevi che, quando ci si rende conto del male fatto, non si vorrebbe finire di scontare la pena e anche quando la si è finita di scontare, il dolore che rimane al cuore è grande. (…) Aiutate chi si rende disponibile ad aiutarci”.