Papa Benedetto XVI lo ha creato cardinale, ma il Meeting può vantare di averlo scoperto da gran tempo, dal 1982, e da allora ha presenziato a una quarantina di incontri, seminari e tavole rotonde, sempre con un’alta affluenza di popolo del Meeting. Quest’anno non è presente fisicamente, ma è intervenuto con un collegamento video nell’incontro “Homo religiosus” delle ore 17 nell’Auditorium B7. Oltre quindi a sua eminenza il cardinale Julien Ries, professore emerito di Storia delle Religioni all’Università Cattolica di Louvain-la-Neuve, hanno partecipato “dal vivo” Stefano Alberto, docente di Teologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Shōdō Habukawa, abate del Muryoko-in Temple del Monte Koya in Giappone, con l’introduzione di Emilia Guarnieri, presidente della Fondazione Meeting, la quale precisa che “si tratta di uno dei temi più cari al Meeting e che ne è il fondamento”.
Nel suo intervento video, purtroppo inficiato da alcuni problemi tecnici, Ries ha proposto una rapida ma sostanziosa carrellata sull’antropologia religiosa fondamentale, disciplina a cui ha dedicato tutta la sua vita di studioso. Una scienza che secondo il neocardinale “si distingue dall’etnologia, dalla storia e dalla sociologia delle religioni”, per il fatto di interessarsi “dell’uomo religioso in quanto è creatore e utilizzatore dell’insieme simbolico del sacro, portatore delle credenze religiose che governano la sua vita e il suo comportamento”. Ries ha poi esplorato con rapidi passi le linee fondamentali dell’antropologia biblica – dall’uomo immagine di Dio fino all’incarnazione del Verbo – dell’antropologia patristica e dell’antropologia filosofica cristiana, di cui è esponente Pico della Mirandola.
Lo studioso è poi passato ad elencare i sette elementi strutturali della nuova antropologia religiosa (la parte non presente nel video è stata comunque diffusa su carta a tutti i presenti). Il primo è l’homo religiosus stesso, “che crede in una realtà assoluta, il Sacro, che trascende questo mondo, ma vi si manifesta e così facendo lo santifica e lo rende reale”. Segue poi l’espressione del Sacro e il suo significato (la radice sak-, ha osservato Ries, “connota il verbo sancire, che significa conferire validità al reale”). Terzo elemento è l’homo religiosus e la sua esperienza del sacro, delineata a fondo da Mircea Eliade, come esperienza del totalmente altro in questo mondo. L’homo religiosus è poi – quarto punto – essenzialmente un homo symbolicus, per cui il mondo rimanda ad Altro, e usa il linguaggio del mito, “storia sacra primordiale e esemplare per il comportamento dell’uomo”. Al sesto punto lo studioso belga colloca il rito e al settimo il rapporto tra nuova antropologia religiosa e paleoantropologia. È stato poi proiettato il video di un’intervista di Roberto Fontolan, riportata anche nelle scorse settimane dall’Osservatore Romano, in cui Ries ripercorre le tappe fondamentali della propria storia.
Shōdō Habukawa, accolto da uno scrosciare di applausi, esordisce con un inchino e un “buonasera, vi ringrazio” in italiano che gli aggiudica tutte le simpatie del popolo del Meeting, se ce ne fosse stato ancora bisogno. Inizia poi a raccontare l’esperienza del Meeting tenuto a Tokyo lo scorso autunno che ha visto sei giorni di incontri e dibattiti sul modello del Meeting di Rimini. Nell’occasione Habukawa ha celebrato i venticinque anni di amicizia tra Italia e Giappone e in particolare sua personale con don Luigi Giussani, che il 26 giugno 1987 (il monaco menziona la data precisa) ha visitato il Monte Koya, visita che ha dato il via a quella profonda amicizia. Entrando poi nello specifico sulla natura dell’uomo come “rapporto con l’Infinito”, il monaco giapponese si rifà al fondatore del Buddismo Shingon, Kobo-daishi, che ha insegnato lo stesso concetto, e cioè che “l’uomo è rapporto con l’Infinito”. “Vuol dire che ogni singolo fenomeno dell’Universo, anche nel cambiamento delle quattro stagioni primavera, estate, autunno e inverno, possiamo vedere la presenza del Mistero”. Ed esemplifica, con linguaggio poetico, come in tutto c’è la presenza del Mistero: “Nella vita comune c’è un’unica vita”.
Habukawa, avviandosi alla conclusione del suo intervento, ringrazia il Meeting dell’invito anche di quest’anno e spiega alcuni aspetti della mostra da lui stesso coordinata, basata su suggestioni che avevano impressionato don Giussani: “Mi è rimasto impresso il forte interesse che lui mostrò per la statua dalle mille braccia di Kannon, perché questa statua, che attraverso mille braccia si dedica alla salvezza di tutti gli esseri umani, fa capire bene, disse Giussani, cos’è la misericordia di Dio per i cristiani”.
Don Stefano Alberto si riallaccia all’intervento precedente raccontando cosa era successo dopo il primo incontro di Shodo Habukawa e don Luigi Giussani a Milano. “Habukawa, già in partenza, si sporse con tutto il busto fuori dalla macchina con le mani unite e continuava a guardare Giussani affacciato alla finestra, che stava piangendo. E ci disse: ‘Se questo uomo fosse vissuto duemila anni fa sarebbe stato uno degli apostoli’”. Questo episodio ha fatto emergere “l’ineluttabilità di quel fatto, della forza che ha unito il destino di due uomini così diversi, ma così amici perché compagni al destino”. Questa, sottolinea don Alberto, è una testimonianza che il titolo del Meeting non è un’astrazione, “perché un cammino comune in una così marcata diversità non potrebbe durare venticinque anni”. Poi si ricollega a Ries: “L’uomo diventa religioso per contatto con un evento che gli mostra la trascendenza. Molti nostri contemporanei non hanno trovato il cammino”. Al giorno d’oggi la dipendenza dell’uomo da qualcosa d’altro non viene riconosciuta, anche se è la “più grande evidenza: prima non c’eri, poi ci sei e non ci sarai più”. Questo avviene perché l’uomo è chiuso in un “bunker in cui tutto è artificiale”, ricordando l’immagine del Papa al Bundestag dello scorso 22 settembre. All’uomo religiosus si presentano due strade: “la chiusura della ragione nei confronti della realtà in un mondo auto-costruito, oppure l’apertura alla totalità del reale fino al riconoscimento del Tu che mi fai”. Questa seconda posizione è possibile solo se “il senso religioso è aperto all’osservazione delle cose nella vita, nell’apertura del cuore a tutte le cose”.
(A.B., D.O., E.A.)
Rimini, 20 agosto 2012