Ora che sono stati approvati e promulgati tutti e otto i decreti delegati, il federalismo è pronto a partire. È ancora una donna velata che aspetta i tempi giusti per mostrarsi nel suo splendore (o, secondo alcuni, nella sua bruttezza). Su “Federalismo in sanità: risorse umane e finanziarie. Quale futuro?” il Meeting vuole dare un suo contributo di chiarezza con una tavola rotonda in Sala Neri, alle ore 15.00. Partecipano sei protagonisti della sanità italiana: Francesco Bombelli, presidente del Consorzio Hcm; Mario Colombo, direttore generale dell’Istituto auxologico italiano; Sandro De Poli, presidente di GE Healthcare Italia; Carlo Lucchina, direttore generale della Direzione sanità della Regione Lombardia; Marina Panfilo, direttore di Pubblic Affairs & Regional Access Pfizer Italia; Costantino Passerino, direttore centrale della Fondazione Salvatore Maugeri. Introduce Marco Bregni, presidente dell’associazione Medicina e Persona.
Un aspetto della realtà attuale che tutti i relatori mettono in risalto è la scarsità delle risorse in un contesto di maggiore richiesta di prestazioni. “Il federalismo è come un treno lungo e lento e mezzo vuoto – esordisce Francesco Bombelli, del Consorzio Hcm, ente che fornisce assistenza ospedaliera e anche domiciliare – Che cosa ci metteremo dentro? La riforma passa se gli addetti lavorano con il cuore, come se lavorassero per se stessi”. Il federalismo è così interpretato come il nuovo strumento per salvare il welfare con una riforma culturale e una nuova responsabilità. Per Bombelli, questa responsabilità passa anche per un incremento demografico (“Le donne devono fare più bambini”) e una nuova educazione per cui un bambino impara che lo Stato è suo. È una riforma culturale per incrementare la responsabilità personale in un ambito di sussidiarietà.
Pur considerandolo una svolta importante, a Mario Colombo sembra invece che il federalismo, su cui si è fatta molta retorica, non possa risolvere i problemi nella sanità perché aumenterà l’efficacia dove c’è già efficienza, mentre la diminuirà dove ora ce n’è poca.
Con numerosi grafici e tante cifre, Marina Panfilo racconta la sanità italiana attuale e le prospettive per il futuro viste da una grande casa farmaceutica che spende tre miliardi all’anno in ricerca e ha più di tremila addetti in Italia. “Le risorse finanziarie stanno diminuendo, ma dobbiamo garantire gli stessi servizi puntando sulle risorse umane e per questo ho insistito alla sede centrale della nostra multinazionale per conservare la ricerca in Italia – racconta – l’aspettativa di vita negli ultimi 45 anni è aumentata di 12 anni: ho visto una bambina di due mesi qui fuori, per lei l’aspettativa di vita è di 85, mentre per sua madre è di cinque in meno. Questo grazie ai farmaci”. Continua: “Certo, se vedo Carlo Lucchina, il direttore della sanità lombarda, eccellente per qualità e con il bilancio in ordine, preoccupato per il federalismo, che cosa devo pensare delle altre regioni?”
Sandro De Poli esprime un’altra preoccupazione degli industriali (GE Healthcare si occupa di apparecchiature medicali e di diagnostica) riguardo al federalismo: “Se ogni regione decidesse autonomamente quali cure e quali prestazioni offrire ai malati, come sarebbe possibile operare per noi industriali? Le regioni più grandi sono migliori delle piccole nel garantire cure adeguate. Bisogna pensare a forme di collaborazione e di cooperazione tra regioni”. Temi su cui riflettere, per De Poli, nell’applicazione del federalismo sono le gare di appalto nazionali che contraddicono le autonomie; la preparazione delle aziende ad adeguarsi alle nuove regole e la mancanza di norme chiare per cui spesso ci sono contrasti che il Tar è chiamato a risolvere, non sempre in modo coerente. Chiude il suo intervento con una nota positiva: “Vediamo in queste trasformazioni un cambiamento migliorativo”.
Dopo un ottimista (relativo), un altro pessimista. Sembra poco convinto del federalismo Costantino Passerino, perché per far fronte alla globalizzazione e a multinazionali agguerrite ci vuole uno Stato forte. Ma non solo. Le regioni, di fronte alla legge di riforma, si sono comportate molto diversamente: nel 1996 la Lombardia ha provveduto con una propria legge, altre si sono adeguate negli anni a partire dal 2000, altre ancora non hanno una legge regionale sulla sanità, quindi lo Stato deve pianificare per non avere venti sanità diverse. “Sanità fa rima con criminalità, ho detto scherzando entrando in questa sala, perché la spesa sanitaria impegna mediamente i due terzi delle risorse delle regioni che certamente fanno gola”.
“I problemi si presenteranno da oggi fino al 2014, quando saranno operativi tutti i provvedimenti del federalismo – inizia il suo intervento con la vivacità che gli è propria Carlo Lucchina – si sono discussi i costi standard, lasciando in ombra altri aspetti del federalismo nella sanità”. Si parla di risparmi dimenticando però che sul servizio sanitario gravano costi che non sono esclusivamente medici. Un esempio è l’assistenza domiciliare, che si prende una grande fetta di risorse, così come l’assistenza che un ospedale è tenuto a garantire, quando non può dimettere un paziente perché non sa dove andare.
Lucchina si pone una domanda: “L’attuale modello sanitario, che ha 33 anni, è ancora valido? Risale al 1978, quando per esempio per un ernia inguinale richiedeva un ricovero di otto giorni, mentre ora basta solo un giorno di day hospital”. Bisogna razionalizzare e stabilire un nuovo modello di sanità uguale per tutti e aggiornato sulle patologie. Altro esempio: in Sicilia non si curano certe malattie rare mentre lo si fa in Lombardia: “Si mandi pure qui il malato, noi lo cureremo, ma non è questo il problema”. E le regioni che hanno piani di rientro dagli enormi debiti che vanno al di là del 2014 come faranno? Sono tutti quesiti ai quali il federalismo deve dare una risposta.
Altra domanda del direttore della sanità lombarda. Con le manovre di quest’anno verranno a mancare sei miliardi di euro (un miliardo solo per la Lombardia): diminuire le prestazioni o la qualità? Entrambe sono strade impraticabili. “Bisogna riflettere sul fatto che la sanità è un bene primario come l’acqua: bisogna bere e lavarsi. Si deve rimborsare chi non ha mezzi, ma ci sono esenzioni non giustificate. Da fumatore, sono convinto che bisogna aumentare le tasse sul fumo, come anche su certe violazioni del codice della strada e ancora su certe attività sportive. Si può tagliare riordinando la rete ospedaliera, ma questa è un’operazione culturale molto impegnativa, perché la popolazione si aspetta di trovare il pronto soccorso quasi sotto casa”. Anche Lucchina conclude però con una nota di ottimismo: “Secondo me ce la faremo, perché gli operatori sanitari nelle difficoltà danno il meglio di se stessi: se c’è una persona che non sta bene e ha bisogno di loro, ci sono”.