“Non siamo interessati all’egemonia politica. Non è questo il nostro scopo” esordisce Giorgio Vittadini, presidente dalla Fondazione per la sussidiarietà, per chiarire le ambiguità che sono emerse nei recenti commenti al Meeting su varie testate nazionali riguardo agli applausi indirizzati ai politici. E cita il discorso di don Giussani ad Assago (1987): “La politica deve decidere se favorire la società esclusivamente come strumento di manipolazione dello Stato, come oggetto del suo potere. Oppure favorire uno Stato che sia veramente laico, cioè al servizio della vita sociale”. “Noi siamo per una politica al servizio di una presenza sociale” ribadisce Vittadini “e quindi come strumento per la creazione di opere. Perché le opere? Le opere servono per suscitare il desiderio, per farlo crescere”.
Per chiarire questo percorso politica-opere-desiderio sono stati invitati due ospiti che possono svolgere il tema “con un respiro universale”: Mary Ann Glendon, docente di Legge alla Harvard University e ambasciatrice degli Usa presso la Santa Sede, e Wael Farouq, vicepresidente del Meeting Cairo e docente all’Istituto di Lingua araba dell’Università americana del Cairo, che dal prossimo ottobre sarà anche docente all’Università Cattolica di Milano. Viene salutato anche Nassir Abdulaziz Al-Nasser, presidente dell’Assemblea generale dell’Onu, presente in platea per assistere all’incontro e che domani, nella stessa sala (auditorium B7) e alla stessa ora (17), parteciperà alla conferenza “Politica internazionale e libertà religiosa”.
“Oggi la politica gode di cattiva reputazione – dice Glendon – Molti studenti mi dicono che vengono a studiare legge perché desiderano avviarsi ad una carriera politica, ma alla fine degli studi spesso hanno cambiato idea, perché temono di esporre le proprie famiglie, o per i compromessi che dovrebbero accettare, o per la difficoltà di cambiare un sistema troppo degenerato o più semplicemente perché pensano che la politica è una cosa sporca”. La docente parte dal desiderio: “La politica è una vocazione degna di desiderio. Nonostante le difficoltà, certe persone comunque scelgono di avviarsi alla politica. Quale desiderio è così potente da superare questi ostacoli?” Qui la docente richiama l’allegoria di Platone dell’anima umana, che è un auriga la cui biga è attaccata a due cavalli, uno focoso (la passione, il thymos) e l’altro più docile (la ragione). “Il nostro desiderio, che ci porta ad uscire da noi stessi, è tanto indisciplinato quanto potente. Il desiderio di sentirsi riconosciuti, il desiderio di gloria, può condurre alla vocazione politica, ma va disciplinato affinché non conduca alla rovina. Come fare? Gli uomini hanno la ragione, e quindi devono impegnarsi all’autocontrollo, alla buona vita e al buon governo”. E qui Glendon fa l’esempio di Cicerone, da giovane molto ambizioso, che superò numerosi ostacoli ma che alla fine riuscì a divenire oratore, senatore e infine console grazie all’autodisciplina, trasformando il suo thymos in virtù.
Pur riconoscendo che lo scetticismo di Machiavelli e Hobbes sulla capacità della ragione di guidare la passione non sia del tutto ingiustificato, Glendon ritiene che per il cristiano la partecipazione alla vita politica, vista come cura del bene comune, sia una cosa positiva, e a supporto della sua tesi cita Edith Stein, Vaclav Havel, i padri conciliari e Giovanni Paolo II: “Le accuse di arrivismo, di idolatria del potere, di egoismo e di corruzione che non infrequentemente vengono rivolte agli uomini del governo, del parlamento, della classe dominante, del partito politico; come pure l’opinione non poco diffusa che la politica sia un luogo di necessario pericolo morale, non giustificano minimamente né lo scetticismo né l’assenteismo dei cristiani per la cosa pubblica (Christifideles Laici)”. Domare il thymos, il desiderio che ci porta fuori da noi, ed educare la libertà è fondamentale per creare “uomini liberi che deliberano come organizzare la loro vita insieme”, conclude Glendon citando Aristotele.
Di tono molto più giornalistico l’intervento di Farouq, che inizia raccontando aneddoti tragi-comici per spiegare il livello di corruzione presente in Egitto fino al 25 gennaio 2011, quando da piazza Tahrir cominciò la rivoluzione che avrebbe portato alla caduta del regime di Mubarak. “Dopo svariati tentativi capii che per prendere la patente era necessaria la tangente al funzionario. Tornai nell’ufficio, feci cadere a terra 50 lire egiziane e chiesi: ‘Le sono forse cadute 50 lire dalla tasca, agente?’. Lui mi rispose: ‘Io non farei mai cadere 50 lire dalla tasca, ne farei cadere almeno 100’. Eravamo obbligati alla corruzione – dice Farouq – eravamo obbligati a vivere contro il nostro desiderio di essere persone rispettose”. Farouq continua a parlare di ‘desiderio di Dio’, espressione con cui si riferisce al desiderio di bellezza e di giustizia che è naturale in ogni uomo. “Questo desiderio, continuamente frustrato, è la forza principale da cui è nata la rivoluzione. Vi diranno che è nata dalla povertà, dallo stato di polizia, dalla corruzione, ma non è esatto. Queste cose ci sono, è vero, ma sono sempre esistite. Cos’ha portato dunque questo cambiamento? È nata una nuova realtà”. Qui Farouq racconta l’inizio della rivolta: un giovane blogger viene picchiato e ucciso dalla polizia, gli amici creano una pagina su internet che in breve tempo viene sottoscritta da 650mila utenti. In questa rete nata in pochi giorni all’inizio c’è chi propone una vendetta violenta, ma alla fine miracolosamente prevale una proposta diversa: il 25 gennaio migliaia di ragazzi andarono in piazza Tahrir regalando fiori alla polizia, un gesto completamente in contrasto con ogni dinamica tradizionale. “Io c’ero, e vi dico che seguivo il mio desiderio. Da dove viene il coraggio di pregare insieme tra cristiani e musulmani? Dalla rabbia? No, dal desiderio di Dio. Persone arrabbiate si sposano davanti ad un carro armato? Puliscono la piazza? Superano i rancori che durano da secoli? No, questo nasce dal desiderio di Dio. Questo desiderio ha cambiato la gente: si va a votare, si guardano le sedute parlamentari alla tv, la gente si interessa al bene comune”.
Alla fine dell’incontro Vittadini tira le somme: “Anzitutto chi afferma che la religione vada separata dalla politica sbaglia: la vita politica influenza la vita degli uomini, quindi non può essere che la religione non abbia a che fare con la politica. E chi dice che la politica è solo una questione di potere riduce il desiderio. In secondo luogo, rispettiamo il potere politico per la sua funzione importante alla vita pubblica. Chi ha il potere politico ha una funzione importante e noi sosteniamo il suo tentativo. Infine, la responsabilità politica è una possibilità: può essere sfruttata come occasione di potere personale (ma è una scelta irrazionale), oppure come occasione di costruzione. Dipende dall’uomo. È un tentativo di vivere l’infinito. Si può sbagliare. Si può ricominciare. Basta con il manicheismo di chi dice che da una parte c’è il male e dall’altra il bene!”. Ma la cosa che Vittadini vuole sottolineare alla fine è l’esperienza del desiderio umano e lo stupore dell’incontro tra uomini che scoprono di avere lo stesso desiderio, come in piazza Tahrir. “Anche quello è un tentativo non esente da rischi, è una possibilità”. E si augura che l’incontro di persone con il desiderio del bene comune nasca anche in Italia.
(M.F.)
Rimini, 23 agosto 2012