Il tema della felicità quando il cristianesimo ancora non esisteva: questo il motivo dell’incontro cui hanno partecipato Moreno Morani, Ordinario di Glottologia presso l’Università degli studi di Genova e l’attore Andrea Carabelli.
Quella di stasera, ha detto Morani, vuole essere una lettura antologica di un numero ristretto di brani, recitati da Carabelli, rispetto all’innumerevole materiale esistente sul desiderio di felicità: desiderio costitutivo di ogni uomo. Prima di entrare nello specifico Morani precisato che la parola “felice”, dal lessico arcaico, sta a significare un albero che produce buoni frutti, mentre il termine “felicità” indica la realizzazione in maniera piena ciò che si desidera. Seneca nel “De Vita beata” dice che quanto più gli uomini desiderano la felicità, tanto più si allontanano da essa se sbagliano strada.
Nel corso dell’incontro sono stati ripresi i tentativi che diversi autori hanno compiuto nella ricerca della strada verso la felicità. Il primo riguarda la ricerca in un luogo o in un tempo ideale, così come narrano Ovidio e Orazio, rispettivamente nella “Metamorfosi” e nelle “Odi”, in cui riconoscono il fatto che l’uomo per essere felice deve riconoscere il suo destino. Lo stesso Orazio nelle “Epistole” trova la strada alla felicità nel benessere che sente nella vita campestre. Per Properzio invece, soprattutto nelle “Elegie”, la felicità è da ricercare nell’appagamento di almeno uno dei tanti desideri, come a lui stesso capita nella conquista della donna amata, cosa che produce uno stato di estasi. Anche questo tentativo sembra riduttivo, ha proseguito Morani, tanto che Seneca, sempre nel “De vita beata”, pensa di dare risposta a questa mancanza nell’affidarsi ad un maestro e nell’adesione ad una regola di vita dettata più dalla ragione che non dal giudizio di una maggioranza. Il tentativo di Seneca fa affidamento dunque su un vivere secondo natura senza lasciarsi influenzare da fattori esterni, un puntare in definitiva su se stessi. Riferendoci invece a Marziale, negli “Epigrammi”, troveremo la risposta alla felicità nell’assenza di turbamenti., come per Lucrezio nel “De rerum natura” la felicità corrisponde all’assenza di pericoli. Ma può essere questa vera felicità?. Solo più tardi, lo stesso Lucrezio, arriva a descrivere la felicità come scoperta del senso delle cose: il saggio è chi conosce la realtà attraverso un processo razionale, che resta però uno sforzo immane. Stesso giudizio ha Seneca, che lo esplicita nelle sue “Lettere a Lucilio”. Fin qui, ha detto Morani, si è parlato di una ricerca della felicità come sforzo personale. Lanciando lo sguardo nella Roma repubblicana, la strada alla felicità implica essenzialmente un contribuire al bene altrui, tanto che Cicerone descrive nel “De Repubblica” che essa sarà raggiunta solo nell’altra vita, dopo avere servito fedelmente lo stato. Occorre arrivare all’età imperiale per trovare la strada alla felicità attraverso l’affidamento alla divinità, che sola può salvare: basta ricordare l’episodio descritto da Apuleio, in cui Lucio, uno studente dedito alle pratiche magiche, viene salvato dalla dea Iside, la quale gli chiede però la conduzione di una vita austera e caratterizzata dalla castità religiosa.
Morani ha voluto concludere il viaggio compiuto nel mondo classico con un messaggio di speranza: mentre Apuleio scriveva di Lucio e della dea Iside, nella storia irrompeva la figura di Cristo, l’unico capace di rispondere compiutamente al desiderio di felicità di ogni uomo, senza togliere alcun merito all’umanità che ha preceduto la sua venuta.
G.F.I.
Rimini, 29 agosto 2003