La frase di san Bernardo di Chiaravalle è stata il motivo ispiratore dell’incontro svoltosi oggi pomeriggio nell’Auditorium, oltre che della mostra preparata dai monaci benedettini del Monastero SS. Pietro e Paolo della Cascinazza, visitabile presso i padiglioni fieristici. Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, ha introdotto i lavori, cui hanno partecipato Marco Bona Castellotti, docente di Storia dell’Arte Moderna all’Università Cattolica di Brescia, Giovanni Bazoli, presidente di Banca Intesa, e Sergio Massalongo, priore del Monastero.
Vittadini è partito dal titolo del Meeting per dire che in questi giorni “questo sospiro e questo presentimento” non sono una cosa astratta, perché documentano l’attesa nella realtà. Il punto di risposta a questa attesa è “l’opera come sistematica risposta al bisogno della persona”. Dall’esperienza benedettina sono nate opere che hanno cambiato la realtà: “don Giussani soleva ripetere che ai tempi delle invasioni barbariche la gente non riusciva a vivere in modo stabile e costruttivo perché da un momento all’altro arrivavano orde che distruggevano i raccolti.
Così la gente vagava per sottrarsi alle minacce. A un certo punto però vi furono uomini, cristiani, che decisero di non scappare più, ma di ricominciare a vivere, qualunque cosa fosse loro capitata. È l’inizio del monachesimo”. “Questo – ha continuato – è il metodo che Dio usa per entrare nella realtà”. L’opera nasce dall’incontro con Cristo nella realtà. Sembrano parole “strane”, ma che ci provocano molto.
Il prof. Bona Castellotti (che ha contribuito all’ideazione della mostra), ha iniziato ricordando che “il monastero è opera di Dio”: il monaco è colui che è chiamato a far memoria attraverso la preghiera e il lavoro come preghiera. Poi, riprendendo le parole di Benedetto XVI all’Angelus del 20 agosto scorso, ha richiamato che l’attivismo rischia di offuscare la dimensione contemplativa. La fusione tra la dimensione “operativa” e quella “contemplativa” è alla base della vita monastica, che proprio per questo motivo è di esempio per tutti. “Che ruolo svolge la contemplazione nell’apertura all’infinito?”, si è poi chiesto. La contemplazione ci porta dentro l’invisibile, perché è memoria continua di Cristo.
Bazoli, all’inizio del suo intervento, si è detto stupito dell’invito rivoltogli dagli organizzatori del Meeting a parlare di un tema del genere piuttosto che di cose a lui più familiari. Per Bazoli la mostra è una possibilità per dire di “come il Signore agisce nell’opera di san Benedetto e di come l’uomo vede l’opera di Dio”, oltre che per sfatare un mito che deteriora la storiografia, definendo il Medioevo come un periodo oscurantista. In realtà – ha continuato – il medioevo ha consentito l’apertura alla ricerca e i monaci, attraverso la loro opera di evangelizzazione, hanno difeso tesori inestimabili: l’Europa non può non sentirsi debitrice nei confronti del monachesimo. La vicenda benedettina rende visibile l’opera della Provvidenza: la mostra ci lascia “ispirati” perché per un credente vedersi realizzato questa opera è un conforto. “Quello che è accaduto con il monachesimo può ripetersi senza correre il rischio di essere anacronistico?” In un mondo secolarizzato, perché sono secolarizzati i singoli individui, secondo Bazoli sembrerebbe di si. L’uomo costruisce ma Dio non è più il centro di questa azione. Illuminismo e laicismo ci portano a pensare ad un mondo fatto da noi stessi mettendo da parte Dio. “A mio avviso – ha continuato – la laicità deve essere voluta come valore positivo”. Si tratta di una sfida attualissima: il primato della vocazione religiosa deve concepirsi come impegno personale, “compito nuovo”, che tocca la sfera intima e quella della passione. In questo la guida sono i principi etici di Cristo nel Vangelo, le indicazioni della Dottrina sociale della Chiesa e la preghiera, efficace in tutte le decisioni difficili in cui generalmente si è soli. “Senza questo aiuto – ha concluso – ogni mia opera si sarebbe interrotta al primo ostacolo”.
“La mostra non è nata da un nostro progetto”, ha esordito Massalongo, perché “solo il pensiero di sintetizzare quindici secoli di vita monastica fa venire i brividi”, ma dall’invito di Bona Castellotti e dall’aiuto di Vittadini. Non vuole proporre un “dualismo tra fede e opere”, ma il miracolo di un’unità cui la mostra vuole essere un’apertura. Sull’esempio del monachesimo medievale, la nuova Europa potrà infatti nascere non solo allargandone i confini, ma in un respiro infinito. “Chi ha in mano questo infinito?” E qui Massalongo si è addentrato nella descrizione di alcuni pannelli della mostra, sottolineandone tra l’altro aspetti come. la vocazione intesa come forza di Dio, o il rischio che si corre facendo diventare l’opera, “che è fatta per la gloria di Dio”, un “progetto per sostituirsi a Dio”. “L’uomo – ha affermato – si stacca dal suo essere quando perde la sorgente”: per rimanere nella posizione originale, occorre che “la grazia lo rigeneri continuamente”. E ancora, per ricevere la forza da Dio occorre riconoscersi ciechi e mendicare il compimento: “riconoscere che Lui è presente e che mi sostiene ora”.
Le opere benedettine non furono un progetto sulla realtà, ma sorsero perché “nell’ospite c’è Cristo”: ogni sviluppo è possibile, perché è “l’appartenenza a Cristo che genera l’io”. “Chi non dà Dio, dà troppo poco”, questa è la possibilità di verifica delle opere che vengono generate. “Vivere così è la santità”: il paradigma è la Madonna. Il pannello 44 in cui si parla del perdono, è per Massalongo l’occasione per dire che l’uomo si sente rinnovato quando “si sente perdonare ciò che da solo sente imperdonabile”.
Anche se occorrono secoli per realizzare quanto descritto, ha concluso l’incontro Vittadini, il cambiamento è possibile a partire da queste “minoranze creative”: piccole comunità fatte da uomini che vivono il loro rapporto con la realtà in modo veramente corrispondente alle loro esigenze umane.