C’era una volta la ragione…e l’Università

Press Meeting

Daniele Bassi, presidente di Universitas University, ha introdotto l’incontro di oggi formulando due considerazioni con il duplice scopo di dare conto del lavoro svolto dalla sua associazione, nata dalla passione per il mestiere di docente o ricercatore, e di definire l’ambito della conferenza: l’osservazione che l’università è una comunità di docenti e studenti e l’importanza dell’educazione (l’appello lanciato da decine di uomini di cultura lo scorso autunno è diventato criterio per la discussione di piani di studio e ordinamenti didattici). Bassi ha lasciato poi la parola agli ospiti, chiedendo che cosa ne sia dell’idea cristiana di ragione da cui nacque l’università, che sembra oggi solo una fabbrica di “colletti bianchi”.
Primo punto dell’intervento di Francesco Botturi, docente di Filosofia Morale all’Università Cattolica Sacro Cuore di Milano, la considerazione che la ragione è necessariamente una “rappresentazione”, che può essere buona o cattiva: il problema è che, come sostiene Benedetto XVI, “l’Occidente non ama più se stesso”; c’è oggi un odio per ciò che è grande della ragione occidentale: il senso cosciente e critico della totalità, l’unità di totalità, ragione e coscienza. In secondo luogo la ragione ha a che fare con tutto, “di diritto è proporzionata a tutto comprendere”: questo è il principio della meraviglia, del progresso della conoscenza. Botturi sostiene poi che “questa apertura secondo totalità identifica l’ambito originario della verità”. La vecchiaia dello spirito risiede proprio nel fatto che non ci sia più sorpresa nello scoprire che la realtà è intelligibile. Tommaso d’Aquino aveva fondato la sua definizione di verità sul rapporto originario tra ragione e realtà, che sono da sempre disponibili l’una all’altra. La crisi di oggi è appunto lo svuotamento di questa totalità del pensiero, che porta a nichilismo e relativismo. L’università era l’istituzione per eccellenza dell’umanesimo europeo, retta dell’idea che sia possibile una totalità di conoscenza, mentre con la crisi dell’ideale di verità si è giunti a una riduzione pragmatica del sapere. La prevalenza dell’aspetto funzionale e professionalizzante della formazione universitaria è sintomo di un problema interno all’università stessa, che non riesce più “a collocare i propri saperi all’interno di un universo più ampio di saperi”. Il tentativo di riscatto proposto da Botturi si articola in tre aspetti fondamentali: se la ragione umana sente sempre un ritmo interiore che richiama continuamente la questione della verità, non bisogna mai stancarsi di risentire questo richiamo. Questo implica anche un “interessamento all’altrui ragione”, e quindi un rinnovato impegno nella didattica. È poi importante la valutazione critica dei luoghi nevralgici della cultura contemporanea, necessaria per ridare un contesto all’ambiente universitario, oggi “tremendamente provinciale”, quasi un “tempio immacolato della coscienza critica”. Infine, citando la prof. Scabini, “una formazione accade se avviene un processo di trasmissione”. Il tentativo di qualificare il mestiere di docente diventa immediatamente offerta di senso anche per lo studente: se qualcosa di buono accade, può accadere solo al livello di esperienza di un legame buono, cioè generativo.
Giorgio Israel, docente di Matematica all’Università La Sapienza di Roma, ha voluto percorrere la strada inversa, partendo da osservazioni fenomenologiche, come la crisi di iscrizioni alle facoltà scientifiche. Sarebbe sbagliato illudersi che si tratti di un problema solo italiano, oppure che sia dovuta al fatto che l’università è autoreferenziale e slegata dal mondo della produzione. La ragione vera di questo fenomeno va cercata invece innanzitutto nel disinteresse per la ricerca, anche da parte delle imprese, e, in secondo luogo, nella “deculturalizzazione” delle facoltà scientifiche: le facoltà di ingegneria, che sono culturalmente più vive, non sono infatti coinvolte in questo problema. Occorre dunque ridire che “la scienza non è qualcosa in opposizione alla cultura”: in altre parole la scienza non è estranea a ciò che muove ogni essere umano, cioè “la realizzazione di sé e la risposta alle grandi domande della conoscenza”. Oggi prevale invece uno strano esempio di docente universitario che considera la didattica come pura trasmissione di informazioni e si compiace, per il resto, di gestire la grande macchina universitaria. La scienza è vista come tecnoscienza e non più come attività conoscitiva: mentre l’America, dopo la Seconda Guerra Mondiale, ha ereditato dall’Europa, insieme agli scienziati, la coscienza del valore culturale della scienza. Utilitarismo, relativismo e scientismo “mettono in crisi l’umanesimo occidentale”, riproponendo la contrapposizione tra “scienza come tecnicismo e umanesimo come chiacchiere”. D’altra parte la qualità della ricerca scientifica di base viene distrutta da un sistema di valutazione esclusivamente quantitativo, assolutamente inadeguato a un prodotto culturale. Israel ha poi concluso con l’auspicio che si riesca a “riconciliare una idea ampia di ragione con una struttura educativa che funzioni”.
Le domande dal pubblico hanno dato modo a entrambi i relatori di condannare la riforma universitaria del “3+2”, fonte di “contraddizioni” (Botturi): la proposta di Israel è quella di abrogare la riforma e organizzare una “nuova struttura”.