“Bisogna gettare il proprio corpo nella lotta”

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Rimini, sabato 25 agosto – “Pasolini e il Sessantotto”: la storia di un autore sempre controcorrente, che “metteva la faccia in ciò che diceva”, è stata delineata oggi nell’Arena della Storia A5 da Giovanni Godio, insegnante di lettere dell’I.I.S. Carlo Emilio Gadda di Paderno Dugnano, e Pietro Bocchia, docente di Filologia romanza e Letteratura italiana all’Università di Notre Dame.

“Nel ’68 – ha ricordato Godio – Pasolini e gli studenti volevano fermare la Mostra del Cinema e Pasolini fece “da mediatore” fra le istanze dei giovani e la direzione del Festival. Nella celebre poesia ‘Il PCI per i giovani’ descrisse gli scontri avvenuti a Valle Giulia con toni che sembrarono suonare come una condanna degli studenti, che accusò di essere borghesi, nella natura, nell’aspetto fisico, nei comportamenti, contigui a ciò che vogliono rovesciare”.

A Bocchia, Godio domanda quale fosse la radice culturale del giudizio dello scrittore sui giovani e sul ’68. “La sua prima lettura – risponde Bocchia – era marxista, riferita alla lotta di classe. Sentiva di dover stare alla parte dei poliziotti perché erano ‘i poveri”; scrisse che da comunista non poteva non simpatizzare con i poveri. E poi c’era una radice personale, soggettiva, quello di condanna del linguaggio di una presenza. La sua poesia descrive gli occhi, le facce, i comportamenti degli studenti, di estrazione borghese, segnati da una stanca malattia che a suo parere rendeva l’umanità corrotta, contorta, devitalizzata, incapace di comunicare. ‘Nessuno, scriveva, sa più comprendere l’altro’”.

“Nel suo viaggio negli Stati Uniti – ricorda Bocchia – Pasolini conobbe la sinistra del ‘Flower power” e delle lotte per i dritti civili degli afroamericani, e restò colpito da quella carica di idealismo. Li paragonò ai primi cristiani, a dei mistici della democrazia’, e decise che avrebbe girato il suo film su San Paolo a New York. In un’intervista, al suo ritorno, affermò che quegli uomini erano rivoluzionari perché religiosi”.

Perché, domanda ancora Godio, ateo professo com’era, Pasolini aveva questo grande interesse per la religione? E come incideva sulla sua visione della società?
“Pasolini era consapevole di questa contraddizione, ma quando lesse il Vangelo di Matteo lo trovò così bello che non poté non farne un film. Non voleva abbandonare la tradizione cristiana, appresa da bambino da sua madre. Un’educazione che influenzò il suo modo di guardare la vita, tanto che diceva di vedere la realtà come miracolosa, che parlava il linguaggio di Dio. Arrivò anche a dire che non esiste democrazia senza carità. Il ‘68 di Pasolini non è solo critico e civilmente appassionato, ma esprime la sua passione per la realtà, divenuta, scriveva ‘processo dell’io’”.

(M.T.)

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