Domandarsi – riprendendo una asserzione del filosofo seicentesco Hobbes –se il fondamento della legge stia nell’autorità piuttosto che nella verità, non è questione avulsa dalle problematiche della giustizia di oggi.
Ne hanno trattato, al Meeting di Rimini, Guido Piffer giudice del Tribunale di Milano, Marcello Maddalena, procuratore della Repubblica di Torino, e Giuliano Pisapia, avvocato, con l’introduzione di Paolo Tosoni, presidente della Laf, Libera Associazione Forense.
Secondo un cosiddetto “positivismo giuridico” la legge vale semplicemente quale atto proveniente dall’autorità, e quindi la sua applicazione si imporrebbe senza necessità di verifiche della verità dei suoi principi o delle singole disposizioni .
Nell’ordinamento legislativo Le norme vengono continuamente introdotte e abrogate, sicchè quando sono vigenti si tratterebbe solo di applicarle: il problema della verità, per il mondo del diritto e quindi per i suoi operatori quali magistrati e avvocati, si limiterebbe dunque all’osservanza delle regole di procedura.
Tuttavia l’esperienza giuridica, ha osservato con alcuni esempi il giudice Guido Piffer, dimostra che è possibile, nel rispetto della legge ovvero dei principi fondamentali di interpretazione, dare spazio e rispondere alle esigenze di verità nell’applicazione delle norme, proprio perché il fare giustizia reca con sé una insopprimibile esigenza di verità .
In materia di risarcimento dei danni ad esempio, con l’individuazione di figure come il danno biologico o esistenziale si è giunti, senza modificare le norme del codice civile, a farle corrispondere ad esigenze di giustizia sostanziale per la società del nostro tempo. Nel diritto processuale minorile, il giudice è oggi tenuto ad applicare provvedimenti a carico del minore previa illustrazione delle ragioni etico-sociali del provvedimento stesso: l’azione del giudice può improntarsi dunque alla verità e non solo all’autorità.
Secondo Piffer la norma giuridica, senza perdere nulla della sua intrinseca valenza esecutoria, resta perciò come “disponibile” per una sua applicazione ragionevole, secondo verità.
Marcello Maddalena, Procuratore della Repubblica di Torino, ha dapprima richiamato una certa tendenza riformatrice (di ispirazione statunitense) interessata solo ad affermare la cosiddetta verità processuale, frutto cioè dell’applicazione delle regole di procedura. Due sentenze della Corte Costituzionale nel 1992 hanno tuttavia ribadito che la funzione essenziale della giustizia penale è la massima ricerca della verità.
Osservando poi come nel diritto processuale italiano la parola verità sia ormai del tutto assente (quasi fosse problematica la sua permanenza com’era in passato), ha sottolineato come la verità debba essere un valore comune a tutta la società civile, quindi da tenere alla base dei rapporti tra cittadino e giustizia. Il magistrato – quale esclusivo servitore della legge – tuttavia non disporrebbe a suo avviso di significativi spazi per influire sulla sua applicazione.
Infine Giuliano Piasapia, ricordando significative citazioni di Giovanni Paolo II, del card. Ratzinger e di don Giussani, ha in particolare sottolineato come l’autorità debba anzitutto cercare la verità, mettendosi per questo in rapporto con i necessari interlocutori. Nelle aule di giustizia, ciò si concretizza nel contraddittorio delle parti in causa, davanti al giudice quale autorità.
Accennando poi al progetto di riforma del Codice Penale, di cui è coordinatore della Commissione Ministeriale, Pisapia ha esplicitato come l’esigenza della verità espressa negli interventi dei partecipanti all’incontro possa tradursi in alcune significative proposte di graduazione della pena, in particoplare valorizzandone la funzione riparatrice. Ciò potrebbe comportare l’introduzione di nuove forme di espiazione specifica, così da trovare un punto di equilibrio tra le esigenze, oggi particolarmente avvertite, di tutela della convivenza sociale e le dovute garanzie per il condannato.
M. B.
Rimini, 20 agosto 2007