Afghanistan solo andata. Storie dei soldati italiani caduti nel paese degli aquiloni

Press Meeting

Il libro di Gian Micalessin, giornalista e inviato di guerra di lungo corso, racconta le storie di otto soldati italiani morti durante la missione in Afghanistan. Un tema forte, che il Meeting pone all’attenzione di tutti nel delicato momento in cui il parlamento si appresta a discutere il rifinanziamento delle missioni estere in tempo di crisi. Al tavolo, insieme all’autore, il ministro della Difesa Mario Mauro, che già in mattinata ha partecipato a un dibattito su ‘Sicurezza ed educazione nelle missioni di pace’. Introduce Camillo Fornasieri (direttore del Centro Culturale di Milano), in un Eni Caffè Letterario che straripa di ascoltatori.
Perché – esordisce l’autore – scrivere sui soldati morti in Afghanistan? In primo luogo per rispondere a un’altra domanda, che va di pari passo con la diffusa convinzione dell’inadeguatezza degli italiani: ‘perché non li riportiamo a casa?’ Ma nessuno di quei soldati, quando uno di loro muore, vuole tornare a casa. È la vita che hanno scelto, e l’Afghanistan rappresenta il massimo della professionalità. Il libro, infatti, non parla della morte dei nostri soldati, ma delle loro vite, “la migliore spiegazione del perché vadano in missione”. Inoltre, le cinquantatré vite cadute sin dall’inizio delle missioni estere sono pietre miliari di un percorso che le nostre Forze Armate hanno compiuto nell’arco di trent’anni. Derise da tutti al tempo del Libano come ‘istituzione Pulcinella’, sono ora ai vertici della stima internazionale. L’Italia invece in trent’anni ha camminato al contrario: le sue istituzioni hanno perso rispetto e credibilità. Le Forze Armate, dunque, per Micalessin sono forse l’unica istituzione che ci consente di stare alla pari con gli altri paesi. Si tratta della nostra ‘meglio gioventù’, formata in maniera eccellente e al passo con i colleghi stranieri.
La scrittura del libro ha richiesto l’incontro con i familiari dei soldati uccisi, esperienza molto dolorosa. “Chiedere a una madre o a una moglie chi era colui che è caduto è un gesto spietato”. I militari, inoltre, sono molto riservati, nessuno conosce effettivamente chi sia un soldato: ci si trova di fronte a due o tre vite separate (campo, famiglia, amici), che si ricongiungono con la morte. Fra le storie, Micalessin accenna a quella di Matteo Miotto, morto la notte di capodanno del 2010. Era partito per l’Afghanistan per andare sino in fondo alle sue radici, alle storie di guerra che il nonno gli aveva raccontato sul monte Grappa. ‘Corrono giorni – scriveva Matteo in una lettera – in cui identità e valori sembrano superati. Chi siamo, dove andiamo? Questi poveri afghani, invece, nonostante mille invasioni, hanno saputo conservare le loro tradizioni. Hanno qualcosa da insegnare anche a noi”. Ha voluto essere sepolto con il cappello da alpino nel cimitero dei caduti della prima guerra mondiale, che a Thiene, la sua città, hanno riaperto per lui.
Il senso dell’intervento del ministro Mauro (un autentico grido di emergenza) potrebbe essere racchiuso nella frase incisa sul monumento ai caduti americani nella guerra di Corea: ‘Freedom is not for free’, la libertà non è gratis. Secondo Mauro, con il libro di Micalessin si può entrare nel merito di una questione capitale: quanto vale la vita di un uomo? Nei luoghi comuni che definiscono le missioni internazionali (atti di imperialismo, gesti di fraternità tra popoli, interventi umanitari) non si parla mai di questo. Non c’è nulla che valga la vita di un uomo! Ma perché questi soldati danno la vita? Cosa fanno in giro per il mondo, visto che l’Italia ripudia la guerra? Stanno all’estero per rendere possibile la pace. Si tratta infatti di missioni di interposizione. In concreto, “significa che ci mettiamo di mezzo quando gli altri non riescono più a trovare ragioni per evitare il conflitto”.
Se vogliamo la pace – incalza il ministro – dobbiamo assumerci una responsabilità. “Ho cominciato il mio mandato con la morte di due carabinieri, caduti per difendere le istituzioni: a chi, se non a uomini simili, dovrebbe guardare la politica per recuperare il senso del suo agire?” La vita in missione viene spesa per un compito nella storia. Se oggi in Afghanistan sono aumentati gli studenti universitari, se esistono decine di ospedali, chilometri di strade, se il popolo sta riconquistando la dignità, lo si deve ai nostri soldati. Per questo non può bastare un approccio ideologico alla pace, intesa come irenismo o pacifismo. La pace costa. Non si può continuare a ritenere le missioni ‘imperialismo’, perché i paesi in cui si svolgono ‘non sono diventati democratici’: la pace comporta un tempo di contenimento dei conflitti anche molto lungo, un’enorme assunzione di responsabilità.
Sapere cosa fanno i nostri soldati ci rende più umani, più responsabili. Così era il maggiore Giuseppe Larosa: quando si è accorto che la bomba entrata nel suo blindato non si poteva ributtare fuori, ci si è steso sopra per salvare i compagni. Un uomo educato a un gesto così è la risposta alla crisi che viviamo. Bisogna che in Parlamento ci si ricordi (Afghanistan, Libano, Kosovo) che ne vale la pena! E che quando invece non si è avuto il coraggio sono accadute tragedie, come a Srebrenica o in Ruanda.

(A.D.P.)

Scarica