Questa sera la rassegna di reportage internazionali Storie del mondo ci porta in Afghanistan. Il quarto documentario proposto, “Afghanistan, atleti tra le rovine” è stato realizzato nel 2004 dal giornalista di guerra Gian Micalessin e, come i filmati proiettati durante gli incontri dei giorni precedenti, il report si pone l’obbiettivo di mostrare l’inestinguibile speranza e il desiderio di bellezza di un popolo martoriato da guerriglia, terrorismo e oppressioni.
Prodotto per Sky Sport, il filmato racconta la storia degli unici cinque atleti afghani arrivati a qualificarsi alla penultima edizione delle Olimpiadi svoltasi ad Atene nel 2004. “Noi non siamo andati alle Olimpiadi con l’unico scopo di vincere una medaglia, vi abbiamo partecipato per dimostrare l’effettiva esistenza degli atleti afghani” dice Robina, lottatrice olimpionica di judo.
Praticare uno sport in Afghanistan, infatti, è stata per un lungo periodo un’impresa ardua. Da tempo segregata sotto l’egida del regime oscurantista talebano, la popolazione afghana è arrivata nel 2004 ad una situazione di semiautonomia e ha voluto trasmettere il proprio bisogno di emancipazione anche attraverso lo sport. Emblematica, a questo proposito è la riconversione a luogo sportivo dello stadio di Kabul, per anni teatro di barbariche esecuzioni capitali.
Ciò che colpisce di più del documentario è la gioia dimostrata non solo dagli atleti ma da tutto il popolo per la ritrovata possibilità di fare sport, diventato in territorio afghano un sinonimo di libertà: “Questi cinque atleti all’aeroporto di Kabul sono in assoluto i primi ragazzi a non essere rientrati in patria reduci da una guerra. Hanno perso le gare, è vero, ma sono ugualmente acclamati ed applauditi come se avessero conquistato il podio” affermano con orgoglio le famiglie degli sportivi e le autorità della capitale al rientro dei loro campioni nazionali.
A dir poco sorprendente è la realtà sportiva femminile: se il severo diktat imposto dal regime talebano prevedeva che gli atleti maschi portassero la barba e i pantaloni lunghi durante le attività atletiche, per le donne le pratiche sportive erano assolutamente proibite. Vedere ad Atene karateke, centometriste e judoka gareggiare indossando i colori della bandiera nazionale è un fatto davvero eclatante: “Per anni a noi è stato precluso tutto, dalla scuola allo sport. Purtroppo ancora molta gente qui conserva una mentalità retrograda, ci vorrà almeno un secolo perché queste assurde limitazioni crollino” afferma una velocista afghana.
Oltre all’emancipazione sportiva, il regista ritaglia uno spazio all’interno del documentario per affrontare il grande problema delle mine inesplose, imprevedibili trappole che colpiscono soprattutto i civili. Le immagini dei bambini mutilati e al contempo sorridenti, pur nella loro cruda tragicità, racchiudono il senso totale del filmato: un’inesorabile fiducia e speranza nella vita che nemmeno il più repressivo dei governi ha la facoltà di soffocare.
(M.M.)
Rimini, 27 agosto 2008