Lascia senza parole l’incontro del Meeting con Margherita Coletta. La Sala A1 della Fiera di Rimini è gremita già mezz’ora prima dell’inizio.
Il 12 novembre 2003 il marito Giuseppe e altri 18 italiani perdono la vita nel più tragico attentato della storia militare italiana del Dopoguerra. L’intero paese si stringe attorno a loro. Distrutta dal dolore, Margherita Coletta pronuncia davanti alle telecamere parole di perdono, citando la Bibbia: “Occorre amare i propri nemici”.
“Com’è stato possibile?” domanda Davide Perillo, direttore del mensile Tracce e moderatore dell’incontro. “Umanamente credo che nessuno di noi sia in grado di farlo”, risponde Margherita, “è stato Cristo che ha agito nella mia vita. Non so perché abbia scelto me in quel momento”.
La prima reazione, la più umana sarebbe stata di odio, “ma, quando sono entrate in casa le telecamere, prendere la Bibbia è stato un gesto guidato e quelle parole di duemila anni fa hanno preso vita. Io stessa, poi, mi sono vergognata, perché forse avrei dovuto solo piangere. Poi ho capito che è giusto condividere quello che Cristo fa nella nostra vita”.
Quando arriva la notizia, ciò che prevale non è l’odio per chi ha ucciso Giuseppe: Margherita non se lo domanda neppure, ma “l’impossibilità di riabbracciarlo quando tornava a casa fischiettando”.
“Questo non chiedersi ‘chi è stato’ è la prima radice del perdono”, sottolinea Lucia Bellaspiga, inviata di Avvenire. Anche lei, come molti altri era davanti al televisore quella sera e “in un frangente così triste”, sente “parole che sembrano impossibili”. Lucia la cerca e la intervista per il giornale. Nasce un rapporto quotidiano che porterà anche alla nascita di un libro “Il seme di Nassiriya”, i cui proventi “andranno a chi ne ha bisogno”.
“Cosa c’è dietro tutto questo?” incalza Perillo. “Io, per farmi forza, guardo sempre a Cristo sulla croce”. Una presenza costante nella vita di Margherita, soprattutto dalla malattia del figlio Paolo, scomparso a soli sei anni per la leucemia. “All’inizio, con presunzione, pensavo che si sarebbe salvato per le mie preghiere. Ora invece sono certa che Dio mi ha ascoltato, anche se le cose non sono andate come desideravamo io e mio marito”.
La morte del figlio porta a frutti inaspettati e si lega misteriosamente a quello che succederà dopo e alla passione di Giuseppe per gli altri: è da quel momento, infatti, che decide di partecipare alle missioni di pace all’estero.
Margherita ha voluto però raccontare anche dei suoi momenti di fragilità, “soprattutto quest’anno, dove forse ho dato la mia fede per scontata, prendendo troppe decisioni importanti da sola. Ci tengo a condividere con voi anche questo: io oggi mi sento rifiorita, sono davvero Margherita, non solo la vedova di Giuseppe”.
“Cosa significa essere amici di una persona così?” Chiede il direttore di Tracce a Lucia. “È un problema, è come vivere con uno tsunami accanto! Ti senti piccola, ma anche trascinata e coinvolta. Vivere con Margherita accanto è per me una pietra di paragone e una grazia”. È anche per questa amicizia che è nata l’Associazione Giuseppe e Margherita Coletta che ha promosso in questi anni una serie di progetti in Italia e all’estero. Tra questi un orfanotrofio nella diocesi di Diebogu, nel Burkina Faso, dedicato ai 19 caduti di Nassiriya e un pozzo di acqua potabile a Eluana Englaro. “Tutto il dolore che ho provato, infatti, non è paragonabile a tutte le grazie ricevute, come l’amicizia con Eluana”.
“Abbiamo assistito a una sfida con cui fare i conti”, conclude Perillo: “com’è possibile che da un male del genere nasca un bene? Perché abbiamo visto che accade e genera nel tempo. Quindi la nostra ragione è costretta a cedere a una presenza più grande della morte: Cristo. Nel rapporto con Lui il nostro ‘io’ fiorisce e se siamo leali con ciò che il nostro cuore riconosce, non abbiamo più paura di nulla”.
(G.F.I., Al.C.)
Rimini, 25 agosto 2010