Il Meeting apre la settimana di incontri tornando a parlare di Cina, un tema sempre presente in questi anni nella rassegna riminese. L’appuntamento era con l’incontro “Tien An Men: la Cina vent’anni dopo” in una sala A1 gremita molto prima dell’orario previsto, al punto che molti dovranno usufruire del maxi-schermo della hall centrale.
Al tavolo dei relatori Harry Wu, fondatore della Laogai Research Foundation, ora cittadino degli Stati Uniti ma nato a Shangai, e John Waters columnist di The Irish Time. Waters, introducendo l’ospite cinese, prende le mosse dagli avvenimenti del 1989. In occidente l’evento dominante è la crisi finale dei regimi comunisti culminata col crollo delle frontiere e del muro-simbolo berlinese. Ma è anche l’anno della morte di Khomeini e degli studenti di Pechino: “Ricordo ancora le immagini televisive che mostravano quello studente che cercava di fermare una colonna di carri armati – ha ricordato – chiedendo al militare ‘Perché sei qui? Cosa stai facendo?’ Domande che dovremmo porre a noi stessi”.
Harry Wu, in cinese Wu Hongda, nasce a Shangai nel 1937 da famiglia borghese. La Cina diventa uno stato comunista nel 1949 e da allora di fatto – afferma Wu – non ha mai cessato di esserlo. Uno stato dove non è possibile dissentire e neppure professare una fede religiosa. “A dodici anni divenni cattolico, ma non mi rendevo conto che sarebbe stato un problema”. Così come un problema era la sua estrazione borghese. Nel 1957 Mao lancia la “campagna dei cento fiori” che avrebbe garantito maggior libertà di espressione. “Mi azzardai a porre una domanda riguardante i fatti di Ungheria” dice Wu. Nel 1959 viene arrestato come controrivoluzionario e si ritrova condannato ai lavori forzati a vita senza alcun processo. Conoscerà la vita di dodici diversi campi di lavoro in diciannove anni. Dopo la liberazione emigra negli Stati Uniti dove insegna a Berkeley e inizia la campagna perché il mondo conosca la situazione cinese e quanto succede nei Laogai, così vengono chiamati i campi di rieducazione attraverso il lavoro.
“Attualmente si calcola che i Laogai siano almeno un migliaio”, ha spiegato Wu. “Qui i prigionieri lavorano con turni di 12 ore giornalieri a costo zero per lo Stato producendo merci che vengono immessi sui mercati occidentali”. A fronte dei sei milioni di morti nei campi nazisti e dei 25 milioni dei Gulag sovietici i cinesi morti nei Laogai assommerebbero a circa cinquanta milioni.
Ma altre sono le piaghe dello stato cinese. “Nel 2006 in Cina – ha raccontato il relatore – sono avvenute 30mila operazioni di trapianto di organi. Il 95 per cento di questi organi provengono da persone condannate a morte. Prosegue poi la politica demografica per cui una donna per poter essere madre deve ottenere l’autorizzazione del governo e una seconda maternità è oggetto di aborto obbligato. In un solo anno sono stati praticati trenta milioni di aborti”.
Wu punta il dito anche contro la politica di repressione e di massacri verso tibetani ed Uiguri. “La Cina oggi è rimasta uno stato totalitario comunista – afferma in conclusione Wu – dove anche i capitalisti possono iscriversi al partito (che è anche Stato) comunista. Non più un partito di proletari, ma un’organizzazione che fa profitti trattando con l’occidente”. Una sola la richiesta finale del presidente della Laogai Foundation al pubblico del Meeting: “Quando vi trovate a fare un’azione da uomini liberi, ad esempio quando andate in chiesa, non dimenticatevi che in Cina questo ancora oggi non si può fare”.