Lo spettacolo che omaggia il regista riminese per eccellenza Federico Fellini è andato in scena questa sera alle 21.45 nella Telecom Italia Arena D3, per la regia di Bruno Sacchini, drammaturgo e autore per la televisione, finalista al premio Campiello 1997.
Era Arnaldo Ninchi a impersonare Federico Fellini, e Valeria Cingottini a interpretare Giulietta Masina, mentre altri attori hanno avuto il ruolo di fantasmi del mondo e dell’immaginario felliniano: Francesca Airaudo, Alberto Guidacci, Marco Giulio Magnani, Daniela Piccari e Andrea Tamagnini.
L’opera è stata tratta da una vicenda realmente accaduta a Fellini nel 1983 e sembra ricalcare una delle trame dei suoi film. Al maestro venne promessa un’elegante casa sul porto, omaggio della giunta comunale, come riconoscimento della fama portata alla città, ma nel momento di prenderne possesso, tra suoni di banda, applausi e congratulazioni della cittadinanza, Fellini scoprì che era tutta una bufala: il proprietario dell’abitazione, non avvisato, non era per niente intenzionato a cederla.
La pièce prende le mosse da una situazione reale ma si direbbe proprio in perfetto stile surrealistico felliniano. Si tratta, secondo le parole del regista, di “una favola su ossessioni e fantasmi del maestro – intrigante e delicatissimo nodo di verità e finzione – che infine altro non è se non il punctum fascinosamente irrisolto del linguaggio cinematografico, suo e di chiunque altro”. La pièce di Sacchini è ricca di “equivoci e proiezioni fantasmatiche”.
Il carattere di rivelazione che assumono i segni nell’universo felliniano, le epifanie che sorgono dal reale come dato costituente di esso sono ciò che ci avvicina di più a quell’adesione che c’è tra la realtà ed il cuore dell’uomo. L’artista autentico, come lo è stato Fellini, ha questa capacità di vedere nella quotidianità tutti quei fatti reali che nella mente del poeta divengono rivelazioni, gettandoci nell’autenticità del reale. “Il segno del reale ha qualcosa che la realtà non ha” diceva Pier Paolo Pasolini in Theorema, affermazione che trova conferma nell’universo felliniano.
La scenografia di questo spettacolo, costituito di sei parallelepipedi con alcune sedie ed una scala puntata al muro, raffigura la casa felliniana, ed è la casa che Giulietta ha sempre desiderato. “Aleggia un’aria di mistero nella sala – dice Giulietta – un rito, una magia deve compiersi”. Giulietta dice al suo Federico: “Quando maturerai?”, mentre Federico risponde “Non siamo fatti per essere normali”.
Subito dopo il portiere e il proprietario della casa entrano in scena, il discorso volge alla politica, ma in maniera bizzarra, inadeguata, fa sorgere le risa di tutti tra il pubblico. “Si immagini una casa molto più bella”, dice un assessore alla povera Giulietta. Una voce come da fuori campo dice: “Attenta Giulietta, attenta!”. È Federico che sta avvisando la moglie, ed entra in scena mentre ancora dorme, trascinato dagli assessori, fermo immobile sulla sedia, la mano sulla faccia, come se fosse uno di quei personaggi beckettiani, statici, assenti di vita, come in Finale di partita, quando oramai ogni scacco è già stato fatto ed ogni mossa è destinata al fallimento.
Le scene si susseguono mentre entrano in scena personaggi tratti da Amarcord o La strada: il principe, oppure il possente Zampanò i cui panni sono rivestiti dal custode. Il proprietario della casa, il custode, rappresentano il mondo reale e divengono anche loro parte dell’universo fantasmatico, segnico felliniano, proponendo a Federico di firmare un contratto in cui al posto di un telecomando, che rappresenta la tecnica, il regista avrebbe dovuto donare la sua anima, la sua ispirazione artistica. Con il telecomando si ha il potere di immobilizzare questo mondo di fantasmi.
“Attento Federico, attento!” sussurra di nuovo una voce: è la voce di Giulietta, che sta dormendo ed ha fatto un incubo, ha sognato che c’erano degli uomini lì con suo marito, mentre lui la informa che erano spettri. “Hai sempre in mente i fantasmi” dice la moglie a Fellini.
Una vecchia signora che parla in dialetto romagnolo e una ragazza: sono queste le presenze irreali che aleggiano per la casa, mentre chiedono al regista se vuole tornare re, come una volta. “Vogliamo solo venire a Roma con te – dice uno degli spettri – vogliamo diventare reali, non come ha fatto Pirandello!”.
Sacchini ricorda che molti film di Fellini sono stati usati per le pubblicità di aziende o marchi quali Barilla o Campari, mentre il proprietario della casa insinua al regista: “Credevi che le risorse della tua sensibilità piccolo borghese, provinciale, resistessero al progresso? Ora conta solo il telecomando – incalza ancora il proprietario – resisterà solo un brandello dei tuoi film tra uno spot e l’altro. E tu maestrucolo non puoi fare nulla. È il trionfo della massa sulla tua provincialità!”. Il proprietario vuole che il regista cancelli per sempre la sua ispirazione con il telecomando, ma anche se lo punta non accade nulla.
Anche se la massificazione della cultura, simboleggiata nel telecomando, cerca di eliminare la particolarità dell’individuo, uniformandolo, appiattendolo, non si tratta che di un passaggio storico che l’uomo (Fellini come emblema dell’uomo in quanto tale), attraverso l’arte, ha dovuto affrontare con continue crisi d’identità.
Fellini si trova ad affrontare questo panorama culturale, i suoi film sono popolati di segni, di fantasmi, le sue epifanie contornano la vita normale, borghese ed appaiono ad illuminare e a condurre ad una visione della realtà svelata dagli occhi di un bambino. Il cuore è lo strumento che spoglia la realtà di quel velo di consuetudine di cui si ricopre, avvicinandoci alla sua essenza. Solo l’artista, l’uomo nel suo significato più autentico, percepisce la vita attraverso segni che sono l’espressione più alta della poesia.
(A.F.)
Rimini, 24 agosto 2010