Camillo Fornasieri, direttore del Centro culturale di Milano, ha introdotto l’incontro con lo scrittore israeliano Aharon Appelfeld che ha stupito la numerosa platea per la ponderazione con cui ha soppesato ogni parola. L’autore di libri quali “Storia di una vita” e “Badenheim 1939” e altri attraverso cui riporta la sua storia di ebreo perseguitato durante la seconda guerra mondiale, si chiede: “Perché ci maltrattano? A volte eravamo certi che fosse per il nostro odore, perché avevamo le orecchie lunghe o perché avevamo paura del buio. Forse se fossimo riusciti ad eliminare i nostri difetti, nessuno si sarebbe più accorto che eravamo ebrei”.
Così Appelfeld riporta i pensieri di bambini ebrei di otto anni circa che, portati coi loro genitori nei campi di concentramento, erano riusciti a fuggire, ormai orfani, rifugiandosi nelle foreste. “Che cosa facciamo? E dove andiamo?” si chiede un Appelfeld ragazzo alla fine della guerra. Nello smarrimento e nella paura tutte le parole erano scivolate, il linguaggio era come scomparso, la sua lingua madre, il tedesco, lasciava spazio al silenzio. La sofferenza non permette di abbondare con le parole. “Ero orfano non solo dei miei genitori. Anche i valori e le credenze improvvisamente erano ingenui, quasi ridicoli alla luce della gente che ci aveva torturato”.
Una sera di grande tristezza, Appelfeld scrive su un pezzo di cartone i nomi dei suoi cari: ritrova all’improvviso la certezza che quegli uomini e quelle donne erano esistiti veramente e che provavano affetto per lui. “La scrittura ha la facoltà di illuminare quello che sei. Il passato, anche se terribile, non può essere separato da te”. Quando nel 1946 torna in Palestina, constata che si cerca di dimenticare, di cancellare anni della storia del suo popolo ma “una persona senza il passato manca di una parte, è come handicappata. Alcune questioni continuavano a tormentarmi: chi sono? Chi sono stato?” Intanto continua a studiare quotidianamente l’ebraico e inizia a copiare un capitolo della Bibbia al giorno, non solo per il contenuto, ma anche per la forma. La Bibbia gli insegna a non pensare d’aver sempre ragione e così impara l’obiettività, perché l’essere vittima può sfociare nell’egocentrismo.
“Io leggevo la Bibbia e volevo aggrapparmi alle radici del linguaggio. Ricordo la grande gioia, dopo anni di lotta in cui provavo ad esprimermi, quando ho scritto una storia breve il cui contenuto non era biblico. Nessuno può scrivere come è scritto nella Bibbia ma quelle pagine sono di grande aiuto. Io che venivo dall’inferno avevo bisogno di una lingua primordiale per parlare di me. Scrivere significa riportare l’essenziale e non intaccare il silenzio che sta attorno alle parole scritte”.
Fornasieri conclude riportando una frase di don Giussani: “il povero di spirito” – e Aharon Appelfeld si può certamente definire tale – “ha solo quello che è e possiede ogni cosa alla luce di questo”.
(L.A.)
Rimini, 26 agosto 2008