63. Si può vivere così

Press Meeting

Il salone A1 era gremito di persone per l’incontro odierno del ciclo “Si può vivere così” e gli organizzatori, vista l’affluenza del pubblico, hanno collegato in diretta altri spazi della Fiera con la Sala A1. Ha introdotto l’appuntamento Rose Busingye, infermiera professionale in Uganda e fulcro dell’International Meeting Point di Kampala. “Ciò che può dare valore a tutta la nostra libertà – ha esordito Rose – è qualcosa di più grande, è un rapporto. Un io che appartiene, diviene protagonista, perché ha un volto”. In questo contesto: “Tu hai un valore infinito, più dell’orrore della guerra e della malattia. Il riconoscimento di quell’Altro che crea la realtà, e resta presente nella compagnia della Chiesa, rende la vita danzante”.
La prima testimonianza è stata quella di Marguerite Barankitse, fondatrice della Maison Shalom in Burundi. “Sono qui per raccontarvi una storia, una storia triste, certamente, ma che ci dice che è possibile vivere felici anche in mezzo alle atrocità”. Le atrocità di cui ha parlato la relatrice hanno riguardato in particolar modo i conflitti etnici tra Hutu e Tutsi, col loro carico di morti, orfani, mutilati. In mezzo a queste drammatiche contraddizioni, la Barankitse ha cercato di accogliere e soccorrere i bambini orfani di entrambe le etnie: all’inizio, nel 1993, erano sette; dopo cinque mesi erano diventati mille; oggi sono oltre diecimila i bambini a cui Marguerite e l’opera che da lei è nata (che comprende anche un ospedale) hanno dato assistenza e amore. “Sono arrivati da me, successivamente, anche bambini dal Ruanda e bambini congolesi. E chiedevo: ‘Signore, che vocazione mi vuoi attribuire?’ La risposta l’ho trovata negli occhi dei bambini. Ho capito, quindi, che la vita è una festa e l’amore trionfa sempre”. Questi bambini, poi, sono cresciuti, si sono sposati, hanno ritrovato la loro identità, sono diventati anche medici, economisti… “Questo è il frutto della follia, dicono alcuni. Mi chiamano – ha notato la Barankitse – ‘la pazza del Burundi’. Ma io dico che questo è il frutto dell’amore. Invece di maledire le tenebre, accendiamo una piccola candela, come diceva la grande madre Teresa di Calcutta”.
Ha portato poi la sua commovente testimonianza l’ugandese Vicky Aryenyo, del Meeting Point International. Nata in un villaggio della parte orientale del suo paese, ha dovuto interrompere la scuola per la malattia della madre; successivamente si è trasferita a Kampala. Alla terza gravidanza, nel ’92, il marito, senza esplicitarne il motivo, voleva che abortisse: Vicky si è opposta e il marito l’ha abbandonata. Successivamente, nel 1997-’98, si è resa conto di aver contratto dal marito l’HIV e poi che anche il figlio piccolo era ammalato di Aids. “Tra il ’98 e il 2001 abbiamo vissuto come in un altro mondo, pur rimanendo sulla terra. Abbandonati da tutti, io ed i tre figli: nessuno ci sorrideva, tutti ci odiavano”. Nel 2001 sono entrati nella casa di Vicky i volontari del Meeting Point Internazional, ma la Aryenyo ha ripetutamente resistito ai loro inviti. “I volontari sono riusciti a catturami – ha raccontato Vicky – tramite mio figlio: l’hanno preparato per il trattamento medico; a questo punto ho incominciato a capire che potevo fidarmi. Un giorno sono andata nell’ufficio di Rose. Mi ha guardato negli occhi e mi ha detto: Vicky, tu hai un valore e questo valore è più grande della malattia. Tu ce la puoi fare, hai solo bisogno di ritrovare la speranza. E gli occhi di Rose parlavano più della sua bocca. Erano occhi di amore, come se dicessero: c’è qualcosa sopra di te, in cui devi riporre la tua speranza”. Alla fine, Vicky ha ceduto. “Mi sono resa conto che il volto di Dio era nel volto di Rose. Rose mi ha dato una spalla sulla quale appoggiarmi e Cristo, sotto forma di Rose, è venuto da me. Tutto è cominciato con un incontro e questo incontro ha fatto risorgere la mia vita”. Anche il corpo, pur nelle sofferenze, è iniziato a risorgere: nel 2003 anche Vicky ha cominciato la terapia. Ma tutto, ha ribadito la Aryenyo, “è iniziato con Rose che ha detto di sì alla sua chiamata. Sappiamo di Lazzaro che è resuscitato tanto tempo fa. Se non avete visto un miracolo, eccolo, sono io: eccomi qua; anch’io, infatti, ero morta. Ecco perché – ha aggiunto Vicky – io sono ‘schiava’ di questo movimento che mi accompagna verso il mio destino e mi ha aiutato a riacquistare la speranza. Per avere la propria libertà c’è solo una cosa da fare: dire di sì quando arriva la chiamata”.

(V.C.)
Rimini, 26 agosto 2008