Esperto di politica internazionale, giornalista e scrittore, Robi Ronza ha introdotto l’incontro facendo notare che Haiti è stato il primo stato coloniale a ottenere l’indipendenza: “È uno Stato povero ma affascinante, con possibilità di risorgere dopo il terremoto”. Pure il Camerun ha molte risorse e possibilità di sviluppo, ha continuato: “È una realtà promettente dell’Africa, ma questo sviluppo causa anche problemi”.
La prima testimonianza, in una Sala A1 completa, è stata affidata a Mireille Yoga, educatrice del centro Edimar di Yaoundé, la capitale del Camerun, che ha raccontato l’inizio del suo incontro: “Cristo, tramite due ragazze, mi ha chiamata come aveva chiamato Giovanni e Andrea: ‘Vieni e vedi’. E le porte mi si sono aperte a un’avventura che non avevo mai immaginato”. Qualcuno, dopo che lei aveva partecipato all’Assemblea internazionale di Comunione e Liberazione a La Thuile, in Val d’Aosta, le diceva che quelle opere erano “una cosa di bianchi”, impossibile nella sua nazione, ma incontrando a Yaoundé i padri Marco Pagani e Maurizio Bezzi, Mireille ha visto quanto sia concreta la bellezza del seguire Cristo.
Da questa amicizia nasce l’esperienza di caritativa (così si definiscono i gesti periodici di educazione alla carità proposti da don Giussani fin dagli albori del movimento) che l’ha segnata in profondità. In seguito padre Maurizio le propose di trasformare questa caritativa in impegno lavorativo. E così ha cominciato a partecipare alla vita del Centro sociale Edimar che accoglie i ragazzi di strada.
Qui possono entrare liberamente, farsi ascoltare senza essere giudicati, lavarsi, andare a scuola, provvedere all’abbigliamento, curarsi. Nel centro Mireille ha riscontrato che è vera l’affermazione di Dostoevskij “è la bellezza che salverà il mondo”, perché lì i ragazzi sono accolti con uno sguardo d’amore.
Mireille Yoga ha continuato a raccontare la vita del centro. “Da noi si comprende che la vita quotidiana è un miracolo”, ha affermato. E alla domanda di giornalisti sul perché molti giovani vengono al centro, che non dà né da mangiare né da dormire, la risposta è che al centro Edimar trovano l’amicizia.
Un giorno infatti i ragazzi che frequentano il centro le hanno fatto notare che tutti i collaboratori usavano lo stesso linguaggio e così lei ha potuto spiegare che a lavorare al centro è un gruppo di amici, vi è unità tra gli educatori. Il punto di partenza della sua opera, ha spiegato Mireille, viene dall’educazione che ha ricevuto dal movimento di Cl. Diversi poi sono gli esempi presentati di ragazzi che nel centro trovano la loro dignità e il senso della vita. Ha concluso Mireille: “Alla fine non resta che una preghiera: Signore, consolida l’opera delle nostre mani”.
È seguito poi un intervento – “breve saluto” l’ha definito, ma nella sua brevità ha lasciato il segno – dell’ambasciatrice della repubblica di Haiti in Italia, Geri Benoit, che ha iniziato ringraziando Robi Ronza “che con la Regione Lombardia ha organizzato i primi soccorsi”, poi ha ricordato una frase di Giovanni Paolo II, in visita ad Haiti nel marzo 1983: “Qualcosa deve cambiare”. “L’incontro con voi, con questo meraviglioso popolo generato da don Giussani”, ha proseguito l’ambasciatrice, ha incominciato a illuminare la risposta: “Il cuore deve cambiare, anzi deve tornare a essere ciò per cui è fatto: desiderio di significato e di infinito.
Davanti ai 300mila morti, alle persone che vivono nelle tende, agli amputati, alla miseria, queste parole ‘il cuore deve cambiare’ non sono astratte, ma l’unico punto di partenza per ricostruire l’umano. La rinascita dell’umano ha bisogno di avvenire allo stesso tempo della ricostruzione fisica del Paese”.
“Ad Haiti, paese cristiano dedicato alla Vergine Maria – ha proseguito Geri Benoit – abbiamo bisogno di riscoprire l’insegnamento di Gesù: amare e trattare il prossimo come noi stessi”, perché siamo “una sola persona in Dio”. Un vivissimo ringraziamento ai volontari di Avsi (“Haiti è benedetta per poter contare su questi amici”) e alla generosità di “milioni di italiani”, poi l’ambasciatrice ha lasciato la parola alla successiva testimonianza: “Sono onorata di introdurre Fiammetta, per il modo in cui affronta la difficile situazione di Port-au-Prince”.
Quindi è stata la volta di Fiammetta Cappellini, la cooperante dell’Avsi che tutti abbiamo visto al telegiornale piangere mentre consegnava il suo bambino da portare in Italia dai nonni, pochi giorni dopo il terremoto, perché lei doveva restare vicino ai terremotati. Fiammetta ha ringraziato tutti, sottolineando l’importanza degli aiuti offerti in questi mesi. “Il 12 gennaio non è andata distrutta solo la capitale, ma anche i simboli religiosi e politici costruiti in duecento anni di indipendenza”.
La prima cosa che l’ha stupita, la mattina del 13 gennaio, ha narrato, è stato trovare davanti all’ufficio tutti i collaboratori haitiani e le persone con cui erano in rapporto. A chi le chiedeva perché voleva rimanere, non poteva che rispondere: “Come si può avere il coraggio di andarsene di fronte a persone che stanno aspettando te?”, pur sperimentando lei per prima, di fronte a quello che stava succedendo, la propria inadeguatezza. Ma il piccolo aiuto fa la differenza per le singole persone che lo ricevono.
Ad Haiti, pur nella crisi, la gente è stata commossa dalla solidarietà internazionale e dall’attenzione riservatale dopo anni di oblio. Un segno di speranza per gli amici haitiani è stato anche il fatto che Fiammetta abbia ripreso con sé ad Haiti il figlio Alessandro.
“Oltre 30mila persone sono state aiutate da Avsi nelle prime necessità: tende, cibi, assistenza sanitaria. Moltissimi bambini hanno visto per la prima volta il medico”. I medici volontari ad esempio hanno convinto, ad una ad una, diecimila mamme ad allattare il bambino per evitare gravi malattie, dato che non c’erano condizioni igieniche e acqua potabile per preparare il latte in polvere.
L’esempio di comunità familiare tra gli operatori Avsi, che dopo il terremoto hanno abitato insieme, si è propagato anche tra gli haitiani sotto le tende seguite dalla ong italiana “e il risultato è che non c’è più un bambino abbandonato o senza famiglia”. Cappellini ha anche ricordato il grande lavoro svolto in silenzio da parte dei missionari.
“Quello che vediamo ad Haiti è un popolo che desidera ricostruire e desidera cose grandi. È stata una catastrofe, ma è anche un’opportunità, vogliamo che questa opportunità sia colta. La sfida rivolta a tutti continua, continuate ad aiutarci e a pregare per noi”.
(A.B., V.C.)
Rimini, 24 agosto 2010