“Questa mostra non ha la pretesa di spiegare ciò che accadde a Praga nell’agosto del 1968 – precisa subito Sandro Chierici, il curatore – ma far vedere come i fotografi ceki colsero in quei drammatici avvenimenti il frammento di eternità che è dentro ad ogni pezzo di realtà”. Ha poi velocemente spiegato la struttura della mostra: otto reparti volti a cogliere momenti semplici ma drammaticamente descrittivi di ciò che è realmente stata la Primavera di Praga: carri armati che invadono una città pacifica e “l’impossibile dialogo” tra i ragazzi ceki e i soldati russi che, come ha poi sottolineato il giornalista e scrittore Enzo Bettiza, “non sapevano neppure in quale Stato erano, né che stavano reprimendo il desiderio di libertà di un popolo slavo come loro”. La mostra continua con “La libertà di parola” espressa dai cartelli appesi un po’ ovunque in città, “la piazza” come ritrovato luogo di incontro, e la descrizione del “comunque vivere”, attraverso ad esempio all’immagine di un padre che attraversa la strada col passeggino, mentre fermi all’incrocio ci sono carri armati, non automobili. Insomma, “il desiderio di vita che emerge nella drammaticità della realtà”.
Viene poi ripreso il “tempo dell’umiliazione”, quando Dubcek, dopo essere stato rapito dai russi, viene da loro stessi riportato a Praga come capo del governo, perché “incapaci di trovare un valido fantoccio da mettere al suo posto”, ha detto Bettiza nel suo intervento. Un piccolo spazio è stato dedicato a una delle immagine simbolo di quel ‘68, un ragazzo che si brucia come segno di protesta contro il silenzio che avvolge gli eventi che colpiscono la sua nazione.
Al termine del percorso viene infine mostrato come, nonostante in apparenza il sistema sovietico sia stato ripristinato, una società “vive con attenzione alla libertà, che ritornerà ad essere espressa apertamente nel 1977 per poi sfociare nella rivoluzione di velluto del 1989”.
Bettiza ha poi voluto raccontare ciò che ha vissuto personalmente in quegli anni, iniziando col ricordo dei bellissimi palazzi di Praga, che fanno contrasto con i carri armati che entrano “come nel burro” in una città con una popolazione pacifica e civile. “La Cecoslovacchia ha conosciuto prima di tanti altri la democrazia, costruendola mentre attorno a lei fiorivano sistemi autoritari di destra e di sinistra”.
“I nostri comunisti – aggiunge – ci hanno sempre fatto credere in un comunismo duale: da una parte i buoni all’opposizione, dall’altra quelli cattivi che governano, ma in realtà ci sono stati anche i comunismi nazionali, in Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Jugoslavia – prima della rottura con l’URSS – che hanno pagato caro il fatto di essere in una posizione di mezzo; questi politici non hanno mai riconosciuto il valore dell’unico vero ’68: quello di Praga”. Non parla per sentito dire, Bettiza; la sua storia personale infatti lo ha portato, dopo essere stato esiliato dalla sua Dalmazia, a vivere in questi paesi per capire la loro storia.
La mostra racconta la “storia vissuta” – diversa da quella studiata, come Bettiza ha voluto sottolineare – proprio attraverso uno strumento che sembra rispondere meglio di altri a questo scopo: la fotografia. La foto infatti, come spiega Chierici, “è rapporto tra l’uomo e la realtà”. E dunque la provocazione che viene lanciata dal curatore della mostra è “guardare quelle immagini con la domanda di cogliere un frammento di eternità, lo stesso frammento colto dall’uomo che ha puntato l’obiettivo su quel pezzo di drammatica realtà”.
Rimini, 24 agosto 2008