54. Misurare il desiderio di infinito? La qualità della vita

Press Meeting

Alle 11.15 si è inaugurata in sala A2 la mostra “Misurare il desiderio di infinito? La qualità della vita”. Ha introdotto la presentazione Paola Mareco, responsabile del Centro Trapianti di midollo osseo del Niguarda di Milano: “Perché dei medici dovrebbero organizzare una mostra come questa? La risposta è nello struggimento che rimane nello sguardo verso il paziente, perché l’ uomo esprime oltre a una domanda di salute, una di salvezza.” Ma il problema di questo sguardo non è solo verso il paziente, ma anche da parte di chi quello sguardo lo offre, cioè il medico: “Vedo tanti sguardi spenti anche in chi cura, proprio per il fatto di non accettare di guardare il paziente a questo livello; se non curo il mio paziente per compiere anche me, prima o poi soffoco.”
La mostra ,attraverso anche i disegni e acquerelli di che un artista (Marie Michel Poncet) ha realizzato durante la sua permanenza in ospedale, ci presenta le testimonianze di uomini che fanno riflettere su che cosa voglia dire veramente qualità della vita “mentre nella vita di tutti i giorni – continua la Mareco – spesso gli esempi sono solo per dire che non si può vivere così. Come si conosce ciò che rende “di qualità” la vita? Attraverso i questionari che vengono fatti dentro gli ospedali e che cercano di misurare qualcosa di non misurabile, oppure attraverso la parola di chi ha vissuto queste situazioni?”. Che cosa vuole lasciare veramente al Meeting questa esposizione? “Vogliamo che tenga aperta una ferita nel mondo sanitario, per educare i giovani, cui si cerca di insegnare il mestiere, a uno sguardo, un metodo”.
Giancarlo Cesana, professore di Igiene Generale e Applicata all’ università Bicocca, si sofferma invece sul significato della qualità della vita: “Su questo problema c’è un fervore scientifico generale, basti pensare che ci sono più di 15mila articoli sull’argomento; ma se è così è perché si capisce poco.” Il problema della qualità della vita non si pone solo per i malati ma anche per i sani. “Basti pensare agli psicofarmaci che vengono dati ai bambini per farli stare più tranquilli, o al doping: tutti vogliono migliorare la qualità della propria vita. Hanno anche trovato un modo per renderci più felici, cioè cancellare i nostri ricordi”. Poi c’è la questione della qualità della vita in punto di morte: “Si cerca sempre di togliere protagonismo a ciò che ricorda all’uomo di cosa è fatto – cioè che ricorda a tutti che l’ uomo è finito, terreno – e questo tentativo di misurare la vita si scontra col fatto che non ce la siamo data noi. La vita è un mistero, la sentiamo, la percepiamo ma non l’ abbiamo creata, perché è ciò che è infinito e quindi immisurabile”. La qualità della vita infatti, come risulta anche da un recente studio danese citato dallo stesso Cesana, è legata al suo senso: “Il senso è il rapporto – continua – quindi io nasco in rapporto agli altri, sono in rapporto, e quindi non misurabile”. Poi termina l’ intervento: “non si deve parlare di qualità della vita come stato di salute, perché la salute non è tutto. Quando c’è la salvezza è tutto, perché uno quando è malato ma si sente salvato ha tutto”.
Last but not least la toccante testimonianza di Sylvie Menard, consulente del centro di oncologia sperimentale all’Istituto Nazionale dei Tumori a Milano ed allieva di Umberto Veronesi, che racconta come la sua vita sia cambiata con la scoperta, nel 2005 di essere malata di cancro. “Prima di scoprire la mia malattia mi battevo perché ci fosse la possibilità di scegliere l’eutanasia, il testamento biologico – che a suo parere sono quasi sinonimi – ma forse lo facevo proprio perché questa cosa colpiva altre persone. Da quando sono malata ho voglia di vivere ogni istante della mia vita, proprio perché mi accorgo che è unica”. Fondamentale, secondo la dottoressa, la cura del trauma che le persone subiscono al momento della diagnosi. “Quando uno scopre di avere il cancro si sente morto dentro, solo pensando alla morte come a un fatto naturale si capisce che quello che c’è deve essere vissuto appieno”. Secondo Sylvie la vita è così bella che se ne può sacrificare la qualità per prolungarla un po’: “mi sono sottoposta a cure anche molto tossiche, che per qualche tempo mi hanno appannato la mente, e mi sono dovuta affidare all’ affetto dei miei cari. Ma quello che mi ha ferito di più è stato il trauma della diagnosi.”
La Menard infatti ha messo in luce tre aspetti da cambiare nella sanità italiana se si vuole impedire che la legge sull’eutanasia prenda piede. Implementare la terapia del dolore, la cura della depressione post diagnosi, e il permettere attraverso il rafforzamento di strutture di accoglienza di malati terminali un assistenza maggiore. ”Se non è così – incalza Sylvie – si genera nel paziente il pensiero che sia un ostacolo per la sua famiglia e lo si convince a cercare l’eutanasia”. E allora una legge sarebbe la soluzione più facile. Ma per eliminare il problema, non per risolverlo.
(G. Z.)
Rimini, 26 agosto 2008