Giancarlo Cesana, docente di Igiene all’Università di Milano Bicocca, introduce Maria Teresa Landi, Senior Investigator presso il prestigiosissimo National Institute of Health, in modo non accademico: infatti la ricorda giovanissima a partecipare agli incontri di Pigi Bernareggi e, più tardi, studentessa di medicina e allieva di Pieralberto Bertazzi, “uno degli inventori del nome di Comunione e Liberazione”.
È la stessa Landi che spiega il suo ambiente di lavoro (35mila dipendenti, fondi per la ricerca di dimensioni stellari e un archivio della mappatura del genoma umano di 33mila persone). Lei lavora alla sezione che indaga sulle varianti genetiche che possono indurre i tumori, in un ambiente regolato da una fortissima competizione scientifica e quindi economica.
“A me è capitata l’ebbrezza della scoperta, di trovare una cosa nuova. Ti lascia lì umile, capisci che c’è altro, ti sembra di toccare l’infinito, il mistero”. Basterebbe questa affermazione per concludere il discorso, ma la scienziata vuole documentarlo con degli esempi.
Il primo riguarda proprio il momento del trasferimento negli States, in cui avrebbe dovuto lottare per la leadership di un grande progetto da lei stessa elaborato. Scontrandosi con la logica del potere scientifico, e chiesto consiglio a don Giussani, la Landi ricorda che “il Gius aveva un’idea diversa, che si concretizzò nella domanda spiazzante ‘ma tu per chi vivi?’.
La mia libertà dovette giocarsi nell’adesione a questo richiamo. Mi diedero la ricerca ‘in prova’, ma la vera prova era il dramma che si introduce nella vita quando Cristo la giudica ma non ti dice come devi fare”.
Alla vigilia di un congresso scientifico mondiale, poi, è sicura che i dati delle altre organizzazioni siano sbagliati, o male interpretati, e fortemente contrastanti con quelli in suo possesso. Che fare? Era giusto, da giovane ricercatrice, mettersi contro quattro importanti università? Proprio allora accade qualcosa di apparentemente casuale, un’e-mail e un link ad un commento di Lorenzo Albacete. Più tardi, riflettendo su questi fatti mentre era ferma al semaforo nella mattina della battaglia accademica, arriva “l’intuizione di proporre un lavoro comune, l’unione dei dati e la loro nuova analisi. Ma questa intuizione non era mia: finalmente teneva conto di tutti i fattori, anche i più apparentemente casuali o banali, era una vittoria.
La vittoria proveniva dall’aderire fino in fondo a quella circostanza”.
Gli esempi proseguono, espressi velocemente e con chiarezza, tutti con il sapore della cronaca e non della teorizzazione, del particolare che attende di essere interpretato, come la piccola mutazione di alcuni legami atomici di una grossa molecola, tutti con una richiesta implicita di senso e di significato, come un esperimento aperto.
Ma vale per tutte l’affermazione contenuta nell’e-mail di addio di un suo allievo, lungamente addestrato anche se inutilmente, avendo poi deciso di dedicarsi alla medicina sociale nella sua disastrata nazione di origine: “Ho capito come guardare le cose. Quello che porterò con me è innanzitutto questo sguardo”
(Ant.C.)
Rimini, 23 agosto 2010