Nell’ambito della rassegna di reportage internazionali, curata da Roberto Fontolan e Gian Micalessin, è stato proiettato il documentario della National Geografhic “Un venerdì a Gerusalemme”. Ha assistito alla proiezione e partecipato al successivo dibattito Sobhy Makhoul, segretario del patriarcato maronita di Gerusalemme. Il filmato ha mostrato la vita di una famiglia ebrea, di una araba e di un frate francescano in un venerdì, il giorno che per tutte e tre le religioni monoteiste è un giorno dedicato alla preghiera.
I tre percorsi umani nella Città santa si sono incrociati e scontrati con le problematiche connesse alla lotta per il controllo dei territori cui tutte e tre le religioni annettono primaria importanza.
Il reportage ha così documentato le difficoltà della famiglia palestinese, in cui la moglie ed il figlio vivono a Gerusalemme, avendo la moglie la cittadinanza di tale città e la casa in essa; mentre il marito, che non ha tale cittadinanza, vive a Gerico. Sobhy Makhoul chiarirà, nel corso del successivo dibattito, che la situazione è comune a molte famiglie. La donna palestinese viene seguita nel suo viaggio con il figlio fino a Gerico per passare una parte del venerdì con il marito, per poi fare ritorno a Gerusalemme per la preghiera nella moschea della sacra cupola, costruita sulla roccia sacra, sulla quale secondo la tradizione si sarebbe compiuto il sacrificio di Isacco.
La famiglia ebraica, pure seguita nella sua giornata, culminata nella preghiera presso il muro del pianto e nella cena dello shabbat, è quella di un giovane soldato e dei suoi cari, approdati in Israele dopo l’olocausto e passati attraverso le vicende drammatiche dell’intifada.
Del frate francescano viene infine seguita la via crucis, la via dolorosa, percorsa con i confratelli custodi del Santo Sepolcro. Via crucis anche personale, va rimarcato, per l’uccisione subita del fratello.
Alcune interviste ai membri delle tre famiglie, a docenti universitari e a storici approfondiscono i motivi delle dispute territoriali, ripercorrendo la storia degli insediamenti palestinesi, ebraici e cristiani.
La domanda d’obbligo al segretario del patriarcato maronita è stata: ci sarà mai la pace a Gerusalemme? Questa la risposta: “Gerusalemme è una città sacra da sempre, in cui però è difficile perdonare. Il problema è che non si accetta il diverso. A livello di famiglie e di piccole aggregazioni la convivenza è pacifica e sorgono anche legami di amicizia. Ma quando la questione viene portata a livello di gruppi, ognuno vede nel diverso il nemico”. Il giudizio che emerge, per molti versi scioccante, è stato che “non ci sarà mai pace fino a quando ebrei e musulmani non riconoscano Gesù Cristo”. Riecheggiando Giovanni Paolo II, Makhoul ha proseguito: “Per fare la pace ci vuole giustizia e per fare giustizia ci vuole perdono. Solo attraverso un’educazione alla giustizia ed al perdono si potrà sperare di giungere alla pace”.
Interpellato sulla questione del muro che divide i territori palestinesi da quelli ebraici, il segretario del patriarcato maronita si è detto fortemente contrario allo stesso, fonte di inutili sofferenze provocate al popolo palestinese, a causa delle divisioni delle famiglie, la perdita delle abitazioni, la privazione del lavoro. “La soluzione sarebbe nel rilascio di territori ai palestinesi perché possano costruire il loro stato autonomo. Ma – ha concluso l’esponente maronita – Israele non accetterà, almeno nel breve termine”.
Tornando alla questione dell’educazione alla pace, il segretario ha auspicato l’importanza di un intervento dell’Europa.
(A.M.)
Rimini, 28 agosto 2009