117. Si può vivere così

Press Meeting

“Voi non avete patria perché siete inassimilabili a questa società”. Con queste parole Alberto Piatti, segretario generale della Fondazione Avsi, ha introdotto l’incontro “Si può vivere così” delle ore 15.00 in sala A1, insufficiente a contenere quanti avrebbero voluto partecipare al punto che in molti hanno dovuto ripiegare sugli schermi esterni. La frase era riferita ai due testimoni Rosetta Brambilla e padre Aldo Trento.

Rosetta Brambilla è in Brasile da quarantun anni e attualmente svolge la sua opera a Belo Horizonte, dove dirige tre asili e una scuola professionale. “È uno sguardo diverso quello che mi è stato insegnato nell’incontro con don Giussani. Anche qui al Meeting mi commuove guardare le persone e vedere il cuore”. Stuzzicata da Piatti che ironizza su quanto scritto nella presentazione, dove viene definita ceramista- infermiera, Rosetta si schermisce. Di sé dice di aver poco da raccontare, ma “ho potuto guardare alla mia vita – prosegue – senza togliere nulla”.
Una vita segnata dall’accettare di dire sì e lasciare che l’opera di un Altro la definisse. “Avete presente come avviene nella stampa fotografica? L’immagine si forma poco a poco sulla carta. Ed esce il volto. Il volto che Dio vuole per te”, ha detto. Aderire a questa immagine ha dato carne e senso alla vita: “un’appartenenza che mi tiene in piedi ora come mi ha tenuto in piedi nel ’68 quando gli amici che erano con me in Brasile se ne andarono per altre strade”. Ma questa certezza non è presunzione e non nasconde la difficoltà di fronte ai problemi quotidiani in favela. “Spesso mi dico: come faccio a rispondere a certi problemi? A rispondere alla mamma che non è in grado di educare i figli?” Allora rimane solo riconoscere l’impotenza e mettersi a lato, condividere il dramma ed il dolore.

“Rimane lo sguardo. Ma non sono i miei occhi a guardare, sono quelli di un altro. E allora ci si appoggia all’Altro”. Ripercorre brevemente le sue tappe in Brasile, dai turni notturni come infermiera al primo abbozzo di asilo con la tela cerata tesa fra due baracche. Poco alla volta la cappellina si è fatta cattedrale e “ci è stato dato di toccare con mano questo Dio che si è fatto carne e ti abbraccia con la sua misericordia. Ti riscopri dentro lo sguardo della pietà che ti fa nuovo. Dio ti rifà continuamente” ha detto. Ora a Belo Horizonte operano tre asili e un centro di formazione, per complessivi 1.150 bambini e ci lavorano cinquanta persone. “E chi fa le pulizie o lavora in cucina mi è maestro – racconta – è dal modo di fare le cose che si percepisce un respiro diverso nuovo. Ho sempre desiderato fare la serva perché è la posizione giusta per l’uomo che è sostenuto dalle mani di Dio. E la carità si fa opera attraverso le mani di Dio”, ha concluso. “Ceramista e infermiera – ha ripreso Alberto Piatti – chissà quale ong prenderebbe sul serio questo curriculum vitae. Ma forse anche quello di quella ragazza di Nazareth non doveva apparire allettante per il mondo.

“Io vivo di Giussani”. È granitica l’affermazione di padre Aldo, un uomo che si definisce “mai tranquillo”. Proprio l’incontro con don Giussani lo mise ancor più in movimento. “Adesso che stai diventando un uomo, ho deciso di mandarti in Paraguay”. Era il maggio dell’89 a Riva del Garda. padre Aldo inizia a raccontare la sua storia: fin da piccolo intuisce la vocazione al sacerdozio a cui aderisce definitivamente nel 1971. “L’insoddisfazione dei desideri però mi ha condotto a simpatizzare per Potere Operaio e il cuore si pietrificava sempre più”.

Nell’87 un amico, Mario Dupuis, lo invita a Padova ad un incontro a cui partecipa anche don Giussani. Sale sul palco una donna appena rimasta vedova con tre figli, che racconta della positività della vita. “Ero rimasto affascinato e ne nacque un’affezione. Poco dopo sorge la depressione che ancora perdura”. Schiettamente padre Aldo testimonia la sua umanità. Un anno dopo si reca in ginocchio da don Giussani, che da quel momento non lo abbandona più e lo affida a don Massimo Camisasca, rettore della Fraternità sacerdotale San Carlo Borromeo. “L’umano è solo grido; questo mi rese mendicante. Era un cammino necessario per gustare la bellezza della verità. Mi ha fatto paura il mio io, non pensavo che potesse essere una miscela di bello e di disperazione”.

Quando nel 1989 padre Aldo si reca in Paraguay in missione, don Giussani gli chiede di comunicare a Maria, la donna che lo aveva stupito due anni prima, che il direttivo dei Memores Domini aveva accettato la sua richiesta di poter aderire a questa forma di vita nella verginità. “La verginità è la pienezza dell’io a cui è data la grazia di sperimentare il ‘ti voglio bene per sempre’. Amare ed essere amato è possibile”, sbotta padre Aldo. E oggi, qual è il compito di padre Aldo? “Vivo facendo compagnia all’uomo, perchè io possa fare compagnia ad altri come don Giussani l’ha fatta a me”. Come quando una volta ha raccolto un cadavere per strada, lo ha portato a casa e lo ha pulito. Con fermezza afferma che la malattia è una grazia, perché ti spoglia di tutto. “Grazie Gesù, davvero si è compiuta la promessa: io a 62 anni sono un uomo contento”. Parola di un sacerdote che prima di essere consacrato è un uomo vero, che testimonia che bisogna guardare tutto il proprio umano.

Piatti riprende un’affermazione che don Giussani fece prendendo le mosse da uno slogan sessantottino: “Le forze che cambiano la storia sono le stesse che cambiano il cuore dell’uomo”. Commentava il fondatore di Cl: “Chi lascia entrare Cristo attraverso le crepe del proprio umano si riempie di stupore”.

(L.A., L.B.)
Rimini, 28 agosto 2008