“Che cosa vuole dire essere protagonisti nel mondo del lavoro?” A questa provocatoria domanda di Francesco Liuzzi, docente della scuola di impresa della Fondazione per la Sussidiarietà, è chiamato questa volta a rispondere un chirurgo d’eccezione: il dottor Raffaele Pugliese, primario di chirurgia generale 1 e videolaparoscopica all’ospedale Niguarda di Milano.
“Parlerò della mia esperienza di medico – esordisce Pugliese – ma ancor prima di che cosa l’ha originata: la scoperta di un talento”. Si parla spesso nel campo della medicina di cosa spinga a fare quel determinato lavoro anziché un altro e la risposta per Pugliese è abbastanza semplice: “Tutto nasce da un ‘mi piacerebbe’, cioè la sensazione di una corrispondenza di fronte a qualcosa che ti affascina. Ma la dimensione estetica da sola non basta. Serve qualcosa di più, un passo fatto da te che sei catturato: una dimensione etica, cioè l’inizio di un lavoro che mi porta a mettermi in gioco per vedere se quello che mi piace può accadere e se la realtà lo permette. Io ho fatto così; da giovane sono andato in Africa e lì ho cominciato, per forza, ad operare i primi malati e ho scoperto che mi piaceva. Il talento – che si compone della dimensione etica e estetica – e la sua scoperta consistono nell’azione dell’uomo che si impegna con la realtà”.
Altro dato importante che emerge dalle parole del chirurgo è che questo talento non è una nostra abilità ma un dono. “Non siamo noi i padroni di quello che siamo capaci di fare, ma è un dono, che può permanere come potenzialità o decadere. Si decade se cominci a pensare alla persona che hai davanti come a un semplice pezzo di carne: al massimo diventi un buon macellaio, per cui dopo un po’ di tempo ti stanchi, perché quello che fai non ti realizza. Le nostre abilità ci sono date perché noi possiamo compierci”.
Il talento però da solo può fare ben poco, perché secondo Pugliese è necessario un passo ulteriore: l’apprendimento. “Il fatto cioè di seguire un maestro che ti insegni come usare la tua capacità, non solo nel lavoro ma in tutte le cose. Il problema è che spesso persone così non si incontrano, e allora bisogna essere abili e ‘rubare’ il mestiere, cioè far vedere che si è disponibili ad imparare, essere perfino assillanti con chi ci sta davanti fino a costringerlo ad insegnarci”. Altro dato importante è che nella professione non c’è nulla di banale. “Molti medici vogliono recitare solo la parte del ‘grande chirurgo’; all’inizio della mia carriera lavoravo in pronto soccorso ed ero l’unico che accettava di curare anche i barboni. Non c’è nulla di banale o di meno importante nel nostro lavoro, perché per la persona malata quel dolore in quel momento è al centro del suo orizzonte”.
In conclusione della testimonianza c’è un’ultima precisazione da fare. “Il talento non si ferma, bisogna reagire sempre alle provocazioni della realtà. In quest ultimo periodo ho sperimentato in Francia la possibilità di simulare interventi chirurgici completamente al computer. Non è stato facile ma alla fine sono riuscito a convincere sia i politici sia la AUSL dell’importanza di questa novità e adesso abbiamo creato la prima scuola di formazione che usa simulazioni virtuali in Italia”.
Per realizzare tutto questo però è necessario l’ultimo ingrediente che compone il talento; “la fatica, perché l’impegno nelle circostanze implica sempre superare degli ostacoli”. Come si dice, senza nulla non si ha nulla.
(G.Z.)
Rimini, 28 agosto 2008