Robert George, studioso di fama mondiale del Diritto naturale e Mary Ann Glendon, docente di diritto ad Harvard, oltre che presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, sono intervenuti oggi alle 11.15 nel padiglione A1 sul tema: “Esperienza elementare e diritto naturale”. Ha introdotto Marta Cartabia, docente di Diritto costituzionale all’Università Statale di Milano.
“Interpelliamo due giuristi di fama mondiale nell’ambito del diritto naturale, ma partendo da una prospettiva poco consueta”. Con questa premessa, Cartabia ha portato all’attenzione dell’ampio uditorio il problema di un diritto oggi troppo spesso concepito in modo praticamente indipendente dall’uomo. Ad esso si oppone in modo significativo il concetto di “esigenza di giustizia” così come è definito ne Il Senso religioso di don Giussani. Tale esigenza, ha ricordato la studiosa, è espressione di quell’esperienza elementare che è principio stesso di conoscenza, se corretto è l’uso della ragione nell’uomo.
George ha iniziato il suo intervento da buon americano con una battuta, precisamente sulle sue origini calabresi, per poi prodursi in una relazione degna, per vastità e complessità, di un’aula universitaria. Si parte da una domanda: “Quali sono i dati forniti dall’esperienza che fanno da base al diritto naturale? Essi derivano – ha osservato il relatore – da una scelta fra varie possibilità”. La conoscenza pratica del diritto naturale, ha continuato George, è “qualcosa che accade, che si compie grazie all’agire umano; l’uomo lo scopre applicando la sua intelligenza nell’agire di tutti i giorni”.
È proprio sulla base di tale esperienza quotidiana che ci accorgiamo dell’esistenza di beni in sé, quali l’amicizia o la conoscenza. Quando si parla quindi di diritto naturale, non si deve pensare – al contrario di quanto ipotizza il pensiero dominante – che si tratti di qualcosa di esclusivamente “innato”: “Esso implica una scoperta della persona attraverso la sua ragione e volontà, mentre una visione parziale della persona e del diritto sono i veri nemici del diritto naturale, come avviene nell’utilitarismo e nel kantismo, due scuole di pensiero che negano l’esistenza stessa di un diritto naturale”. Conclusione: quando si parla di immoralità, in realtà si dovrebbe parlare anzitutto di irragionevolezza perché l’uomo “immorale” va in primo luogo contro la sua ratio.
Mary Ann Glendon è intervenuta proprio sul tema della purificazione della ragione, sollecitata dalla domanda posta da Cartabia: “Come si arriva alla soglia della giustizia cui ogni uomo aspira?” In un italiano chiaro e semplice, la giurista americana ha proposto una metafora per chiarire la deviazione contemporanea nell’uso della ragione, richiamandosi alla favola La regina delle nevi del danese Andersen. “Holmes, come il demone della fiaba attraverso lo specchio, ha detto ai suoi studenti che il diritto non è nulla di più di un comando, di una miscela di preferenze e opportunismo”. Questo ha aperto la strada al “carnevale” nel campo del diritto che ha portato alla riduzione del diritto al comando del potente di turno. Ciò si oppone alla robusta tradizione giuridica che è ben rappresentata dal Common Law, quale raccolta di norme nate dall’esperienza pratica. Come ritornare all’esercizio corretto della tradizione giuridica, tradizione che garantisce il bene comune? “La ragione per essere liberata, deve essere purificata”. Citando in più momenti l’insegnamento di Benedetto XVI, Glendon ha concluso: “L’evento che purifica la dinamica della conoscenza”, nel senso che libera dalle ideologie, dai pregiudizi e dalle incrostazioni, “non è necessariamente qualcosa, ma qualcuno, un testimone”.
“Noi occidentali spesso ci riteniamo malati di astrattismo e guardiamo con ammirazione al realismo americano – è la sintesi finale di Marta Cartabia – ma non è del realismo cinico alla Holmes che abbiamo bisogno, ma del realismo carico di ragionevolezza e affettività di cui si è parlato oggi”.
(A.S., G.L.)
Rimini, 27 agosto 2009