Chi siamo
VIVIAMO DI QUELLO CHE VEDIAMO
Organizzato da Tracce
Dialogo con Alexandre Ferraro da San Paolo, Luca Maria Falzoni da Ryad e Oliverio Gonzalez da Città del Messico. Modera Alessandra Stoppa, direttore Tracce.
La storia e l’esperienza delle comunità di CL in Brasile, Messico e Penisola Araba vivere il carisma “ai confini del mondo”.
VIVIAMO DI QUELLO CHE VEDIAMO
VIVIAMO DI QUELLO CHE VEDIAMO
Sabato 24 agosto 2024 ore 16:00
Arena Tracce A3
Dialogo con:
Alexandre Ferraro da San Paolo, Luca Maria Falzoni da Riyad e Oliverio Gonzalez da Città del Messico.
Modera:
Alessandra Stoppa, direttore rivista Tracce.
Stoppa. Buon pomeriggio a tutti. Grazie di essere qui. Vi dò il benvenuto all’arena di Tracce che abbiamo realizzato insieme al Meeting per i 50 anni della rivista. Il primo numero è andato in stampa nel dicembre del ’74. Lungo questi 50 anni sono nate anche tante edizioni estere, con tempi e modi diversi, ma sempre con lo stesso metodo, col desiderio di comunicare una vita. E ci tengo molto a ringraziare anche tutti coloro che lavorano e collaborano in vari modi appunto alle riviste estere come “Huellas” in spagnolo, “Passos” in brasiliano e in portoghese, l’inglese “Traces” e tutti i siti internazionali che vanno dall’America Latina all’Australia fino alla lingua araba e al russo. Oggi il Movimento è presente in oltre 90 nazioni e diciamo che tutto nasce dalla sorpresa che ha raggiunto un ragazzo di 15 anni, don Luigi Giussani, nel seminario di Venegono, e ha preso la sua vita e attraverso la sua esperienza, attraverso un flusso di vita, è arrivata a migliaia di persone in tutto il mondo. Oggi desideriamo raccontare un po’ questa vita nuova anche in posti lontani dall’Italia attraverso i nostri tre ospiti che presento subito: Alexandre Ferraro, medico, vive a San Paolo del Brasile ed è responsabile della comunità brasiliana; Luca Maria Falzoni, italiano che vive e lavora a Riyad in Arabia Saudita; Oliverio Gonzales, imprenditore che vive a Coatzacoalcos in Messico ed è il responsabile del Movimento messicano. L’altro giorno abbiamo intervistato Adrien Candiard che ha tenuto l’incontro sul titolo del Meeting e mi ha colpito molto: gli abbiamo chiesto che cos’è l’essenziale per lui e lui ha risposto che il tema del Meeting non è centrato sull’essenziale, ma sulla ricerca dell’essenziale. È importantissimo non prendere l’essenziale come scontato. Come a dire, noi cristiani lo abbiamo già. Noi dobbiamo cominciare sempre a cercarlo. La vita cristiana è questa ricerca della Sua presenza e quello che desidero è che appunto voi possiate raccontarci questa ricerca vissuta ogni giorno lì, nelle circostanze particolari in cui vivete. Quindi, come prima cosa, vi chiedo di raccontarci chi siete, qual è la realtà in cui vivete e quali sono anche le domande e le sfide che vi suscita. Grazie.
Ferraro. Allora, sono Alessandro, o Alex. Io faccio il pediatra e il professore universitario. Faccio sia la clinica che anche la ricerca e dal punto di vista della ricerca, una cosa interessante è che mi occupo specificamente di seguire le mamme incinte perché, essendo interessato ai bambini, ho scoperto che tante cose che succedono durante la gravidanza hanno grandi conseguenze per decenni nella vita dei loro figli. Per questo seguiamo grandi gruppi di famiglie per decenni, io e i miei colleghi, e così possiamo vedere i cambiamenti nel ciclo vitale che accadono in queste persone. Questo mi entusiasma dal punto di vista di capire la vita come Dio l’ha fatta e mi ha portato a una ricerca sull’evoluzione umana darwiniana e persino a un fenomeno che si chiama l’eredità di caratteristiche o di esperienze acquisite, che sembra quasi… Non parlerò di scienza, ma è solo per dire una cosa molto interessante: se vi ricordate nelle lezioni di biologia, la discussione tra Darwin e Lamarck, questa è una discussione ancora presente e posso vedere come le esperienze delle mamme siano ereditate dai loro figli. L’entusiasmo e la curiosità di capire come la realtà funziona è un po’ quello che mi caratterizza nel lavoro.
Falzoni. Il mio nome è Luca e vivo da 10 anni a Riyad. Riyad è la capitale dell’Arabia Saudita, che in tutta la Penisola Arabica è composta da diversi stati. Il più grande è appunto l’Arabia Saudita e poi ci sono altri Paesi. Tutta la penisola è divisa in due parti, in due vicariati: quello del nord, che comprende il Kuwait, il Qatar, il Bahrain e l’Arabia Saudita, e quello del sud, che ha gli Emirati Arabi, lo Yemen e l’Oman. Sono Paesi molto diversi fra di loro, ma hanno una caratteristica in comune: sono Paesi fondamentalisti arabi in cui c’è parzialmente la libertà di religione, ma sono Paesi che sono grandi come tutta l’Europa, quindi stiamo parlando di un’estensione molto grande, in cui gli arabi originari sono quasi sempre una minoranza. In Arabia Saudita i sauditi sono 20 milioni, gli immigrati che vengono a lavorare sono oltre 10 milioni. Poi ci sono casi estremi come Doha, ad esempio, in Qatar, in cui gli immigrati stranieri sono l’80 per cento degli abitanti. Quindi è un’area multiculturale, molto diversa sia dal punto di vista religioso, nel senso che c’è un crogiolo di religioni e di nazionalità, ma anche dal punto di vista culturale e questo è molto interessante, molto provocatorio.
Gonzalez. Buon pomeriggio a tutti, sono Oliverio González e vengo dal Messico. Sono sposato, ho quattro figli e sono un imprenditore. Oggigiorno in Messico viviamo in un contesto che pone tantissime sfide. Recentemente il governo è arrivato al termine del suo mandato e c’è stato un cambiamento di regime. E quindi siamo proprio in questa fase di forte cambiamento. È un cambiamento perché nelle ultime elezioni ha avuto la meglio questo nuovo partito politico. Perché questo governo ha fatto una politica, soprattutto, di favorire la paternità dello Stato. E quello che io vedo come una domanda è: come facciamo perché questa paternità non addormenti l’io. Perché l’idea è che lo Stato è la persona che dà il benessere sociale. E quello che io vedo come domanda è: come fare perché questa paternità dello Stato non continui ad addormentare l’io, ma che si dia invece forza a quella che è la gente.
Stoppa. Grazie, poi aggiungerete raccontando. Io vi chiedo: come è nato il Movimento lì dove siete? Come accade il Movimento? Come è accaduto all’inizio? E come è oggi? E come lo avete incontrato? Mi ha sempre colpito che un caro amico che vive in Kazakistan, in un altro posto particolare, dice: «Io non ho incontrato il Movimento, ma è il Movimento che ha incontrato me». Quindi vi chiedo di raccontarci questo.
Ferraro. In Brasile il Movimento è nato negli anni ’60 quando i primi adolescenti, giovani e adulti sono andati a Belo Horizonte , totalmente finanziati dagli altri adolescenti e studenti. È una cosa bella che nella nostra storia la prima esperienza di missione internazionale è stata totalmente autofinanziata. Io ho incontrato il Movimento nel primissimo giorno di facoltà. Sono di famiglia cattolica però non andavo mai, noi non frequentavamo la Chiesa. Ma quando sono entrato nell’università io avevo una grande gratitudine e il primissimo giorno ho ricevuto un volantino da una giapponesina, una brasiliana di origine giapponese, di un metro e quarantacinque, molto timida, che mi ha consegnato il volantino senza riuscire a guardarmi. E io ho pensato: “O questa è pazza perché è così timida, facendo una cosa così, o mi porta qualcosa di interessante.” Allora sono andato lì a conoscerli, non ho capito assolutamente niente, cosa dicevano e cosa facevano, ma ho visto che erano amici tra di loro. Ho cominciato a frequentarli e nel tempo mi sono reso conto che per loro la fede c’entrava con tutto. C’entrava con lo studio, la scienza, le questioni politiche, le questioni sociali e si impegnavano per capire come dalla fede nascesse una forma di essere presenti nella realtà. Quello che mi ha affascinato allora era l’idea della totalità della fede, che la fede c’entrava con tutto. E, per sorpresa mia, perché non avevo mai considerato questa ipotesi, io ho pensato che se Cristo è tutto, devo fare la Sua volontà. E da qui è nata l’idea di consegnare tutta la vita a Cristo, rinunciando a fare famiglia e vivendo totalmente della Sua presenza. Vivo in una casa di uomini; come me, ognuno ha il suo lavoro, mettiamo in comune tutti i nostri soldi e viviamo la verginità, ognuno facendo memoria di Cristo dove lavora. In Brasile il Movimento è anche grande, è presente in 42 città e da un anno mi hanno chiesto di fare il responsabile, come hai detto tu all’inizio. E potete immaginare la sfida di seguire 42 città in un’ area geografica gigantesca. Questo è una novità per me, per la mia vita, ma anche per una cosa che forse dopo il racconto è uno degli aspetti più belli che stiamo vivendo oggi.
Falzoni. Io sono arrivato in Arabia Saudita, che ero già del Movimento. Ho incontrato il Movimento a fine anni ’70, primi anni ’80, all’Università di Padova. Poi nel 2013 ho perso il lavoro, sono rimasto senza lavoro un anno e sono dovuto emigrare in Arabia Saudita. Quando sono andato in Arabia Saudita sapevo di andare in un luogo in cui non c’era la Chiesa, in cui la Chiesa è vietata. In quell’area c’è libertà di religione ma non c’è libertà di culto, vuol dire che tu puoi credere in qualunque religione, ma tu non puoi professarla. Tu non puoi trovarti con degli amici a pregare Gesù. Tu non puoi trovarti a fare una messa. C’è la prigione per questo. È un po’ diverso da Stato a Stato. Prima vi ho detto, stiamo parlando di Stati diversi. Negli anni ’60, negli anni ’70, in Bahrain è cominciata un po’ di libertà religiosa nel senso che il re locale ha permesso la costruzione di una prima chiesa; i militari americani e inglesi hanno richiesto la presenza di cappellani e piano piano nelle varie aree, sia storicamente che per presenza di tutti questi immigrati, molti dei quali di fede cristiana, gli Stati, piano piano, hanno dato la possibilità di avere luoghi di aggregazione in cui fare le celebrazioni eucaristiche e qualunque altro tipo di professione. Tutto questo al di fuori dell’Arabia Saudita, in cui al momento la cosa non è ancora avvenuta. Ma c’è un progresso, c’è un’evoluzione nella società araba, c’è un’evoluzione che è quella di passare dall’integralismo di fine anni ’70, primi anni ’80 a un Islam moderato che si sta aprendo alla cultura del mondo, che si sta aprendo alla cultura europea, che si sta aprendo alla cultura non solo asiatica. E questa è una cosa importante perché nella Penisola Arabica ci sono sempre più cristiani. Ci sono veramente pochi cristiani arabi rimasti cristiani nonostante l’avvento dell’Islam, cioè da 2000 anni fa ci sono delle famiglie arabe che sono ancora cristiane e ci sono nuovi cristiani che arrivano da Paesi asiatici come l’India, le Filippine o dall’Europa stessa in cui ci sono dei cattolici. Oggi ci sono circa 4 milioni e mezzo di cristiani nell’area che dà sul Golfo Arabico. Una volta era il Golfo Persico quando studiavo geografia io, però adesso si chiama Golfo Arabico. E questi hanno realizzato una presenza di Chiesa. Quando sono arrivato in Arabia, è vero che non esisteva la Chiesa istituzionale in cui si celebra la messa, in cui ci sono preti, ma c’è un milione e mezzo di cristiani che in maniera molto prudente e rispettosa della legge si riuniscono e si fanno compagnia, una compagnia di Chiesa. Morale della favola: io sono arrivato in Arabia disperato perché non avrei incontrato, non avrei trovato la Chiesa di Cristo, ma nella Penisola Arabica c’è una Chiesa del Cristo vivente in evoluzione, che chiede una missionarietà a noi, una responsabilità di presenza missionaria inaspettata. Tutto questo si sta sviluppando soprattutto con uno sviluppo culturale, con un’apertura a uno scambio, a un dialogo culturale e attraverso uno scambio culturale stanno avvenendo delle cose molto significative. Ne dico una paradigmatica: ad Abu Dhabi poco tempo fa, vicino alla dependance del Museo del Louvre, è stata aperta la Abrahamic Family House, che è un luogo dove hanno fatto attorno alla stessa piazza una moschea, una sinagoga e una chiesa cattolica. Ci sono gli arabi musulmani che ti accompagnano a visitare questo luogo dove si fanno le messe, si fanno le celebrazioni in sinagoga, ma che è un punto di dialogo anche religioso. Tutto questo nasce da una reale apertura al dialogo interculturale, che nel tempo si sviluppa in dialogo interreligioso. Questo è quello che sta avvenendo.
Gonzalez. Il Movimento in Messico è arrivato nell’86, su invito del vescovo di Coatzacoalcos, monsignor Talavera, che aveva conosciuto padre Giussani a Roma e gli aveva chiesto che il Movimento potesse arrivare in Messico. E così sono arrivati i primi missionari, alcuni erano Memores Domini ed altri laici. Adesso vi dirò come ho conosciuto io il Movimento o come il Movimento ha incontrato me. Nel ’98 io ero uno studente di architettura ed ero tossicodipendente e alcolizzato, all’epoca. Mio padre era responsabile di una piccola ditta edile, mia mamma era casalinga e avevo le mie sorelle che andavano alla scuola media. A un certo punto all’autista di mio padre, che lavorava per l’impresa di mio padre, che era una persona molto vicina alla nostra famiglia perché noi lo conoscevamo da quando eravamo molto piccoli, a questa persona succede un fatto. Viene sequestrato, assieme anche ad altre persone, viene torturato e alla fine viene ucciso. Quando avviene questo fatto mia madre aveva già conosciuto, due anni prima, la realtà del Movimento di Comunione e Liberazione. E ricordo che io ero poi tornato a casa e i sentimenti che avevo sentito in quel momento, dovuti anche alla mia dipendenza dall’alcol e dalla droga e per quello che era successo all’autista di mio padre, erano di vendetta, vendetta immediata. Ma mia madre ebbe l’idea e la grazia di presentarmi agli amici del Movimento nella messa dei nove giorni. E da lì è cominciata una grande avventura di conversione, soprattutto perché conobbi due amici, due missionari, uno italiano e uno spagnolo: un Memores e un sacerdote, che erano totalmente diversi tra loro. Però, quello che ho trovato in loro era una paternità che, con molta pazienza e molta gratitudine, poco a poco mi ha rivelato la bellezza della fede. Questa circostanza di abbraccio e di accompagnamento non ha mai tolto però il dolore a me e alla nostra famiglia. Questo è un fatto che mi ha segnato per il resto della mia vita, perché ricevere questo abbraccio e questo sguardo di gratitudine ha fatto sì che adesso io e la mia famiglia viviamo nella ricerca di mostrare qual è la bellezza di vivere con la fede e con la religione. Quindi direi che c’è stato questo passaggio dentro di me, dal sentire la vendetta alla scoperta invece di quella che è una passione, anzi una vocazione, alla scoperta del bene comune.
Stoppa. “Noi viviamo di quello che vediamo”. Perché abbiamo scelto questo titolo per l’incontro? Perché è quello che Giussani disse più volte invitando a leggere la rivista e a costruirla raccontando la propria esperienza. Quindi a me interessa sapere da voi di cosa vivete e quindi ciò che vedete oggi. Mi ha impressionato nell’incontro inaugurale del Meeting il cardinale Pizzaballa quando ha detto: «Non c’è niente di più reale dell’incontro con Cristo e la resurrezione non si spiega ma si incontra». Quindi, vi chiediamo di raccontarci nel vostro presente che cosa state vedendo accadere.
Ferraro. Allora, vi racconto due cose. In maggio c’è stata una grandissima alluvione nel sud del Brasile. Una gigantesca tragedia dove centinaia sono morti e 600.000 persone hanno perso le loro case. Vi ricordate che il Brasile è nell’emisfero sud e quanto più si va a sud, più freddo fa. Si era all’inizio dell’inverno. Allora c’era la tragedia anche delle condizioni climatiche e queste persone erano senza casa. La prima cosa che mi ha colpito è che nei giorni in cui queste cose sono successe, alcune persone dall’Italia e dalla Spagna mi hanno scritto dicendo: «Cosa possiamo fare per loro?». Questo mi ha colpito perché ho pensato: “Ma queste notizie si leggono sui giornali di tutto il mondo”. E per questi nostri amici, educati alla fede, una notizia come questa c’entra con loro. Loro si sentono mobilitati a domandare: “Cosa possiamo fare noi?” Non è scontato che un’esperienza di fede si traduca in desiderio di azione e allora questa è la prima cosa che mi ha colpito. La misura della tragedia era così grande -e la nostra presenza al sud del Paese è praticamente nulla- che non riuscivamo a capire come potessimo aiutare in qualche modo. Ovviamente, come tutti, abbiamo fatto una colletta di soldi e li abbiamo inviati a enti caritatevoli del posto. Ma un prete amico nostro ha dato un suggerimento. Ci saranno le vacanze… Per motivi di soldi, le vacanze del Movimento le facciamo molte volte non a gennaio, cioè la nostra estate, perché è tutto più caro, ma le facciamo a luglio, il nostro inverno, perché costa di meno. Allora le vacanze dei nostri studenti, tra 12 e 16 anni, erano a luglio nella regione di Brasilia ed era tutto già preparato, e questo prete ha detto: «Ma perché non cambiamo tutta l’idea e invece di fare vacanze andiamo lì al sud a servire quel popolo?». Le vacanze originariamente pensate erano a mille chilometri al nord da dove viviamo e la tragedia era successa a 1200 chilometri al sud, quindi era implicata una grande spesa economica. Abbiamo lanciato questa idea a questi adolescenti e loro l’hanno accettata immediatamente, però era necessario trovare i soldi. Loro hanno cominciato a lavorare tutto il mese di giugno per autofinanziarsi, perché tutto era cambiato. Poi loro sono andati lì. Erano circa 70 ragazzi nostri e sono stati ospitati negli stessi capannoni dove vivevano le famiglie in quei mesi. Hanno cominciato a vivere con loro. In quella settimana, era un posto molto freddo. Durante la mattina, lavavano le parrocchie, pulivano le parrocchie perché erano tutte state sommerse e anche se l’acqua era già scesa, era necessario pulirle. Nel pomeriggio giocavano con i bambini che vivevano in questi capannoni e la sera stavano tra loro, celebravano una messa, restavano insieme e cantavano. Ma la bellezza prima è dei nostri, la bellezza che loro hanno incontrato, perché hanno incontrato un popolo che si donava per ricostruirsi. Hanno trovato pochissimo la presenza dello Stato, della polizia, ma hanno incontrato un popolo che viveva una donazione. I nostri ragazzi erano molto commossi. Ma ancora più commossi erano questi qua, che dicevano: «Ma perché voi ragazzini siete qua, ma perché i vostri genitori vi hanno lasciato fare 1200 km per servirci, per servire questa realtà?». E lì ho pensato a come la carità vissuta, la gratuità in sé, testimonia una novità della vita. E ho pensato alla potenza educativa per i nostri ragazzi di un gesto come questo. La seconda cosa che voglio raccontarvi è che un mese fa c’è stato un incontro di responsabili di tutto il Brasile, di quelle 42 città, in cui c’era una novità e una bellezza nata da una provocazione che il Papa e Davide Prosperi ci fanno sempre ultimamente con la parola corresponsabilità. Ovviamente noi siamo tutti corresponsabili, lo siamo sempre stati. Però il fatto che ci abbiano detto questa parola, noi l’abbiamo preso come “deve esserci una novità qui da verificare”. E quello che ci ha aiutato tanto, e secondo me è una cosa bella che volevo raccontarvi, è l’unità della storia che vediamo, cioè la bellezza della nostra esperienza degli ultimi vent’anni ci ha dato un’ipotesi positiva per questo passo che il Papa e Davide ci chiedono. È così unitaria la nostra storia, è così bella, che ogni passo fa una costruzione sulla costruzione precedente ed è un di più. Capire la vita del Movimento ci dà un entusiasmo per verificare qual è la novità di questo momento storico nostro. E per questo io direi che è uno dei periodi più belli del Movimento che vedo tra noi. Perché è il momento di questa verifica: come niente si perde e come tutto mi è ridato quando accetto le circostanze che il buon Dio mi offre. E la terza e ultimissima cosa che vi racconto è molto personale, che è questa responsabilità che mi hanno chiesto un anno fa. Cioè, sperimentare una responsabilità che viviamo, sia all’interno della Chiesa, sia al lavoro o nella famiglia, come servizio sembrerebbe una cosa ovvia, però non è assolutamente ovvia. Dovrebbe essere naturale, però tante volte si scivola in un’altra direzione. E io quest’anno, in cui non ho più avuto fine settimana, perché lavoro tutti i giorni, ovviamente otto ore, dieci ore come tutti, e il fine settimana devo pensare alle comunità di 42 città, per servirli, perché loro siano i protagonisti della loro storia, ho provato una grande bellezza. Va bene che sono molto più stanco e un po’ invecchiato probabilmente, però è di una bellezza e di una contentezza che mi pare sia una cosa bella da raccontarvi.
Falzoni. Noi del Movimento nella Penisola Arabica siamo circa 15-20 persone, dipende dal periodo storico, perché tutte le persone vengono per lavorare, poi vanno via e ne arrivano altre. Siamo 4-5 a Riyad, altri 4-5 a Doha, altri 4-5 in Oman, negli Emirati un’altra decina. Facciamo Scuola di Comunità insieme, una Scuola di Comunità fra persone che sono in un raggio di circa 3500 chilometri, ma una cosa ci accomuna: il dibattito che c’è fra noi è l’incontro con la realtà. Noi quando ci svegliamo la mattina andiamo a lavorare; quando andiamo a incontrare, a imbatterci in questa società che è musulmana, fondamentalmente e prevalentemente musulmana, ci incontriamo con una realtà che inaspettatamente contiene Cristo in molti modi diversi. Inaspettatamente perché incontri delle persone, che vengono dall’India o da altri posti, che hanno una fede che è la fede delle loro madri, cioè loro vengono e dicono le preghiere che le loro nonne hanno insegnato loro e quindi è una fede che quando cominci a parlare con loro di Scuola di Comunità si addormentano. Non è facile un dialogo speculativo come siamo abituati a fare in tante aree -come noi in Europa- ma è una fede impressionante. Cioè tu, quando vai, hai la possibilità di andare in alcune chiese dove ci sono queste persone che vanno a Messa e la chiesa è piena -si parla di chiese che hanno costruito per accogliere 3.000 persone-, è piena e c’è tanta gente in piedi. La cosa che mi sconvolge è la loro generosità. Loro, che hanno uno stipendio molto inferiore al mio, sto parlando degli espatriati asiatici o africani, quando danno l’offerta per la messa, danno un’offerta che è normalmente venti volte superiore a quella che mia moglie dà in Italia, perché loro devono mantenere la Chiesa, altrimenti la Chiesa non c’è da loro. Quando noi incontriamo queste realtà, incontriamo delle realtà parrocchiali, o di amicizie, o di amicizie di fedeli, che stupiscono. Ad esempio io a Riyad frequento un coro di origine filippina, dove molti di questi partecipanti al coro sono delle infermiere che vivono da sole, cioè che vivono all’interno degli stabilimenti ospedalieri. Negli ultimi sei mesi è accaduto che in una delle palazzine dove vivono 4-5 amiche che partecipano a questo coro, ci sono stati tre suicidi, cioè queste infermiere dall’ultimo livello si buttano giù perché non ce la fanno più per molti motivi a resistere alla pressione in cui sei in quei luoghi, in molti altri luoghi ovviamente, però anche lì. Ma quello che mi ha stupito è che la loro reazione è stata cominciare a trovarsi ogni sera alla fine del lavoro al piano basso di questo edificio per dire il rosario assieme e poi fare festa, fare le torte, fare festa e farsi compagnia assieme per tentare di evitare che altre amiche in depressione possano fare dei passi falsi. E ogni volta che siamo assieme, che le porto in macchina da una parte all’altra per degli incontri di preghiera o per delle prove di canto, ogni volta che salgono in macchina dicono sempre il rosario, sempre con uno scopo. Il rosario lo dicono mai per dire unicamente il rosario, ma sempre per un motivo. Un giorno sale in auto davanti una ragazza e mi dice: «Dietro ne ho 7-8 perché è una macchina grande, ma i filippini sono piccoli, ce ne stanno tanti e quindi ne porti in giro tanti, vero?» Vabbè, e un’altra davanti mi fa: «Luca, mia figlia – mi dice il nome, la conosco- guarda, mia figlia ha bisogno delle tue preghiere, perché ieri ha tentato di suicidarsi, abita a Manila e quindi per favore, preghiamo per mia figlia, perché spero di vederla viva quando tornerò a casa». Infatti lei sarebbe andata a casa dopo sei mesi. Cominciamo a pregare e loro sorridono, sorridono sempre. La presenza di Gesù trasfigura la realtà. E questo succede anche nel rapporto con gli arabi, nel rapporto con gli islamici. Vi racconto un aneddoto veloce. Un’altra nostra cara amica, una memores che abita a Doha e lavora in un ospedale, fa la ricercatrice in ospedale pediatrico, ha una collega che è locale, quindi è una qatariota, che ha problemi di gestazione della maternità. Il bimbo è circa 600 grammi, ma non cresce più, c’è un problema di alimentazione e quindi, in qualche modo, devono cercare di curare. A un certo punto i medici decidono che è un rischio per la vita della sua collega, di questa ragazza musulmana, e decidono di provocare il parto con un cesareo, un bambino di 600 grammi, non so che probabilità avrebbe avuto, quindi adesso non voglio dire parole che non servono. La sera si trovano con tutte le colleghe islamiche e i colleghi islamici a pregare perché la mattina dopo questa ragazza avrebbe avuto l’operazione. Tornando a casa, più o meno, adesso la tempistica è un po’ diversa ma non la faccio lunga, questa ragazza italiana riceve la telefonata da un’amica negli Stati Uniti che le dice: «Insomma, sto bene ma c’è un problema. Oggi mi hanno scoperto il cancro al seno. In vita mia ne ho avute tante, ho sempre affidato tutto a Gesù. Affiderò a Gesù anche questa». Questa amica Memores del Qatar, che si chiama Sara, chiede alla collega qatariota: «Io ho un’amica che prega Gesù affidando il suo dolore, posso chiedere a lei di affidare anche tuo figlio?». E lei risponde: «Va bene, è una ragazza cristiana, però siamo tutti del libro, prega lo stesso Dio, va bene». Alla mattina hanno programmato il parto forzato. Quindi prima di andare in sala operatoria, fanno l’ultima TAC. Il bambino è totalmente sano e sta crescendo normalmente. È nato qualche mese dopo, ora sta benissimo. Ho ricevuto delle fotografie quando avevo chiesto di poter raccontare questo. Sara ha detto: «Tu puoi raccontarlo, però prima lasciami chiedere a questa collega islamica se tu puoi raccontare che abbiamo chiesto a Dio, a Gesù un aiuto alla sua situazione». E la collega ha chiesto il permesso al marito, perché devi chiedere il permesso al marito, il quale ha deciso di dare nome al figlio, non Alì come era programmato, ma di mettergli nome Benedetto per la cosa che era successa, che in arabo si dice Mubarak, ma comunque Benedetto. E quest’uomo dice alla moglie: «Ma perché Sara ti chiede, anche lei è madre di questo figlio?». Il dialogo, la possibilità di dialogo è veramente il miracolo che sta accadendo, se tu riconosci la presenza di Gesù in quel luogo, ovunque, perché la presenza di Gesù trasfigura. Ne avrei mille da raccontare, ma abbiamo il limite di un’ora di tempo.
Traduttore. Prima di continuare, una precisazione sulla storia di Oliverio che ho raccontato prima. Nel sequestro che c’era stato, è stato il padre ad essere assassinato.
Gonzalez. Allora, cos’è che sto vedendo io in Messico e nella nostra comunità in questo contesto politico di cui vi parlavo prima, che ha anche generato una polarizzazione e una radicalizzazione della violenza nella vita quotidiana? Quello che io ho visto è che la compagnia del Movimento e della nostra Chiesa ha generato una grande speranza e un protagonismo nelle persone. Il che per me è stato molto evidente in due circostanze particolari. Prima di tutto il lavoro che abbiamo fatto per arrivare alle recenti elezioni, con la certezza che il risultato non era la cosa più importante. La cosa più importante era quello che noi, uomini di fede, riconoscevamo come qualcosa di pertinente nella proposta che stavamo facendo. E la cosa che mi ha commosso è che per fare questo, come sempre, abbiamo fatto una proposta educativa, che riprende proprio l’idea di don Giussani e che ha a che fare con Tracce. In Messico la nostra rivista si chiama Litterae Communionis. E così ci siamo riuniti tra sei, sette amici e abbiamo fatto questa proposta educativa, facendo un supplemento mensile per quattro mesi dove non si è dato nulla per scontato, abbiamo proprio approfondito quello che ci dava questa proposta politica e una nuova proposta per le elezioni. E l’altra cosa che mi ha anche sorpreso è stata quando è arrivato il risultato di queste elezioni, perché è stato un risultato inaspettato per tutti. Perché è stata una vittoria schiacciante di questo regime e in molte persone questo ha causato un senso di frustrazione, di perdita di speranza e di sconsolamento profondo. Invece per chi ha fatto questa proposta è stata proprio l’occasione per comunicare ancora in maniera più forte chi è il vero protagonista della storia, che non è il potere politico in sé. Per esempio, siamo stati invitati a un incontro –sono andato io in rappresentanza del Movimento in Messico- con i candidati che si erano candidati al posto di governatore di Stato in Messico. Una senatrice di un partito di opposizione, che è una grande referente della politica in Messico, Beatriz Paredes -tra l’altro il suo partito è arrivato ultimo e rischia quasi di scomparire. Prima era il primo partito in Messico, il PRI- mi ha chiamato al telefono due settimane dopo i risultati delle elezioni. Elezioni che sono state un disastro per loro perché possono perdere seggi in Parlamento. Lei mi ha detto: «Signor Oliverio, innanzitutto la voglio ringraziare per la sua esistenza e per quella degli amici del Movimento. Perché per me rappresenta la possibilità di capire come fare ancora nuovamente politica. E le chiedo di poter conoscere anche i suoi amici. E l’abbiamo invitata all’incontro Quatzal, ovviamente. E per me questo rappresenta proprio la portata e la forza che ha la nostra proposta in un contesto come quello messicano dove, ho detto, adesso c’è molta frustrazione e perdita di speranza. E poi, allora, la seconda cosa che volevo dire è cosa proponiamo noi in questo contesto. Una delle cose che mi commuove sono proprio le proposte di vacanze del Movimento. Ed è successa una cosa che mi dice molto di quello che noi stiamo generando rispetto al tema della violenza in Messico. Ho conosciuto nella comunità di Oaxaca una ragazza molto ribelle, Valentina e le persone ribelli sono le persone che preferisco, devo dire. Allora in questo incontro mi ha detto: «Io mi sono allontanata da voi perché a me piace vivere alla grande e vivere alla grande non corrisponde proprio a quello che proponete voi al momento». Si parla di feste e anche noi facciamo le feste, però nel suo caso parliamo di feste che durano veramente tanto, penso che mi abbiate capito. A un certo punto della vacanza, il responsabile del gruppo giovani mi dice: «Oli, voglio parlare con te, perché è successo qualcosa di serio». Che è successo? Mi dice: «Abbiamo trovato due ragazzi e due ragazze, a mezzanotte, che facevano i morosini in piscina, in camporella». Allora io ho detto: «Ma non è successo niente allora…» E cosa è successo allora con questi giovani? I due ragazzi sono stati fatti tornare a casa nelle loro città perché avevano già ricevuto alcuni avvertimenti. E Davide mi chiede: «Cosa facciamo però con le ragazze? Non possiamo mandarle a casa loro perché vivono molto lontano». Io chiedo: «Chi sono le ragazze?» Una di loro era Valentina, la ribelle. Allora, ho detto: «Più che dare una punizione, facciamo far loro un servizio per far capire a loro il senso della loro presenza qui. Valentina, che è la più ribelle, che vada con mia madre, con Eva, e l’altra che vada con un’altra amica che è sulla sedia a rotelle, che devono accompagnarle». Allora, c’era Valentina con mia madre e poi c’erano le mie figlie che in quel momento stavano facendo un ballo per preparare la festa finale e a un certo punto le ragazze cominciano a litigare pesantemente. Mia mamma dice a Valentina: «Vai tu a risolvere la questione». Valentina è rimasta sorpresa, però è andata da loro, è riuscita a risolvere il litigio e ha anche fatto sì che il ballo poi riuscisse molto meglio di come lo stavano facendo. Nell’assemblea finale delle vacanze, Valentina si alza per dare una testimonianza e dice: «Io con voi del Movimento ho sempre trovato qualcosa di interessante. E per questo sono venuta alle vacanze. Però nessuno mi aveva mai guardato e abbracciato come la signora Eva, perché per gli altri io sono sempre un problema. Però con questo abbraccio e con questo sguardo ho scoperto qualcosa di nuovo in me di cui voglio fare tesoro». E quindi con questa ragazza, così come la situazione di molti altri giovani, tutta questa storia mi riempie di speranza perché possono trovare veramente una forte energia da quello che è il Movimento.
Stoppa. Io vi ringrazio, che possano questi fatti, come questo sguardo che ci hai raccontato ora, essere la strada per ciascuno di noi a prendere coscienza del bisogno che siamo, di chi siamo e di chi è Cristo. Vi ringrazio, vi saluto con l’augurio che facciamo alla rivista, che io faccio alla rivista, che possa sempre lasciare spazio, sempre di più alla domanda che il Papa ha messo al centro del suo messaggio al Meeting, perché lui scrive: “Oggi più che mai è imprescindibile fermarsi e chiedersi se c’è qualcosa per cui vale la pena vivere e sperare.” Grazie.