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Santa Messa
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Presiede S.Em. Card. Mauro Gambetti, arciprete della Basilica Papale di San Pietro in Vaticano, vicario Generale di Sua Santità per la Città del Vaticano. Concelebrano S.E. Mons. Nicolò Anselmi, vescovo di Rimini; S.E. Mons. Filippo Santoro, arcivescovo emerito di Taranto
SANTA MESSA
SANTA MESSA
Domenica 25 agosto 2024 ore 11:00
Auditorium isybank D3
Presiede:
S.Em. Card. Mauro Gambetti, arciprete della Basilica Papale di San Pietro in Vaticano, vicario Generale di Sua Santità per la Città del Vaticano.
Concelebrano:
S.E. Mons. Nicolò Anselmi, vescovo di Rimini; S.E. Mons. Filippo Santoro, arcivescovo emerito di Taranto
Omelia di S.Em. Card. Mauro Gambetti
Oggi si conclude il lungo discorso di rivelazione di Gesù che ci accompagna da alcune settimane. Lui è il pane disceso dal cielo, carne da mangiare e sangue da bere, cibo di vita eterna. L’esito di questo lungo discorso non è felice. In un crescendo di drammaticità, scandito dalle reazioni sempre più scandalizzate dei Giudei, alla fine anche molti dei discepoli mormorano, come abbiamo appena udito: “Questa parola è dura. Chi può ascoltarla?” L’originale greco significativamente usa l’aggettivo *scleros*. Quello di Gesù è un discorso sclerotico, recalcitrante a ogni intelligenza e comprensione normale.
Ci riguarda poiché coinvolge la nostra teologia che, sul mistero del corpo di Cristo, balbetta, per lo più ancora con le categorie della scolastica non sempre ben intese, e perché la nostra testimonianza ecclesiale, a 60 anni dal Concilio, mostra di non sapere ancora dire che, come scrive Paolo, siamo membra del suo corpo. È una questione di fede.
Nella prima lettura, a Josué, il solo superstite di coloro che erano usciti dall’Egitto interroga la fede del popolo di Israele entrato nella Terra Promessa. Il popolo deve decidersi, nel senso etimologico di “decedere”, cioè tagliare via, per impostare la propria vita nella nuova condizione di libertà che la Terra Promessa garantisce. Josué non chiede al popolo quale organizzazione dare alla comunità, ma che fede ha. Qualcosa di simile vale per noi che siamo entrati nella Chiesa, che è fraternità, comunità, sinodalità, famiglia di famiglie, senza aver vissuto l’epopea conciliare. Ci troviamo nella Terra Promessa della comunione e quindi liberazione, per dirla con Don Giussani. E la domanda che ci viene rivolta non riguarda tanto la struttura ecclesiale, ma la fede: chi si vuole servire? Quale Dio servire?
Nel linguaggio biblico, servire Dio allude a un rapporto gioioso e liberatorio che esalta le energie dell’anima, sottraendola alla schiavitù di ogni giorno e all’oppressione del male. La decisione di fede non è semplicemente una scelta; è un atto generativo perché, pur non avendo libertà assoluta, l’uomo può decidere a chi consegnare la propria libertà, chi servire e di conseguenza di quale libertà vivere. Il problema è serio perché facilmente l’uomo può scandalizzarsi di Dio, forse per le attese o pretese che non abbandonano mai il nostro cuore: benessere, salute, successo, protezione, qualche miracolo. Tutte cose che periscono e che rischiano di essere degli idoli.
In cosa crediamo o in chi crediamo? Ogni giorno dobbiamo deciderci. E dice bene il popolo di Israele: “Noi serviremo il Signore, perché egli è il nostro Dio,” nostro nel senso che Lui ha mostrato il suo favore a noi e noi riconosciamo la sua opera. La decisione della fede comincia così dallo stupore per l’amore che ti nutre, ti contempla, ti rigenera. Quando veniamo al mondo, non sappiamo un granché di nostra madre o di nostro padre; semplicemente, affettivamente, li riconosciamo, rivolti verso di noi, e intuitivamente ci affidiamo alla loro cura. La decisione di fede è innanzitutto un atto spirituale dello spirito, che affonda le radici nel cuore, nel sacrario della libertà. Non una mera adesione intellettuale a delle formulazioni della verità o a dei sani principi dottrinali, ma un coinvolgimento della nostra intimità, fragile e vulnerabile, ma al contempo luminosa e pura come quella di un bimbo. Nell’intimo si è aperti all’azione dello Spirito. Lì si può iniziare a conoscere l’amore di Dio riversato nel cuore, che si mostra nell’umanità di Gesù, guarda caso sotto le categorie della debolezza e della stoltezza al giudizio del mondo.
Da lì, dal cuore, si origina un ascolto spirituale e non solo letterale del Vangelo e della persona di Gesù. E da lì si può cominciare davvero a comprendere qualcosa anche di questo mistero grande che è il corpo di Cristo, la Chiesa, noi. Altrimenti non si può credere nel corpo di Cristo, come lascia intendere Gesù: “Ma tra di voi vi sono alcuni che non credono,” e molti se ne vanno. “Volete andarvene anche voi?” È la domanda di un uomo consapevole di non poter dire meglio di così la verità di sé, un uomo consegnato alla sua missione, spoglio di ogni ragione e ancorato solo all’amore che lo fa prossimo e al contempo lo può rendere solo.
Dall’intimo di Gesù, scaturisce la parola vulnerabile di un amore che vuole assolutamente essere ricambiato, ma nella libertà. Pietro, come gli altri, non comprende, ma dà voce a quel bimbo che è in lui: “Signore, tu hai parole di vita eterna,” e dà voce a quell’adulto che confessa la sua fede: “Noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio.” Sentite l’eco del dialogo tra l’Angelo Gabriele e la Vergine promessa sposa. Maria, Maria aiutaci a mangiare il Vangelo e a comprendere il corpo di Cristo per avere in noi la vita e rendere presente Dio in mezzo al suo popolo, raccontando l’umanità divina di Gesù, la comunione e quindi liberazione, l’Evangelii Gaudium. Con Maria, con Pietro, con tutti gli apostoli, insieme a Papa Francesco, professiamo la nostra fede.