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“UNA RIVOLUZIONE DI SÉ”. DON GIUSSANI E IL SESSANTOTTO
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Sergio Belardinelli, professore di Sociologia dei processi Culturali e comunicativi, Università di Bologna; S.Em. Card. Kevin Joseph Farrell, prefetto Dicastero per i laici, la famiglia e la vita; Davide Prosperi, presidente Fraternità di Comunione e Liberazione. Introduce Alberto Savorana, responsabile attività editoriali di Comunione e Liberazione. Modera Monica Mondo, autore e conduttore TV2000
In occasione dell’uscita del libro “UNA RIVOLUZIONE DI SÉ. La vita come comunione (1968-1970)” di L. Giussani (Rizzoli). Negli anni incandescenti del Sessantotto, che segneranno un «cambiamento d’epoca» (papa Francesco), dal di dentro del suo appassionato slancio di comunicazione e di testimonianza di Cristo, dialogando con un gruppo di giovani don Giussani cerca di cogliere il segno dei tempi, e proprio tra il 1968 e il 1970 formula la sua risposta: solo il riaccadere dell’avvenimento cristiano ˗ come presenza carica di proposta e di significato per la vita ˗ può muovere l’uomo di oggi, generando «una rivoluzione di sé»; nella «vita come comunione» si rende sperimentabile la liberazione, cioè quel mondo più umano che ha rappresentato l’aspirazione più autentica del Sessantotto. Perché «comunione è liberazione».
Con il sostegno di Ars Aedificandi, Tracce
“UNA RIVOLUZIONE DI SÉ”. DON GIUSSANI E IL SESSANTOTTO
“UNA RIVOLUZIONE DI SÉ”. DON GIUSSANI E IL SESSANTOTTO
Sabato 24 agosto 2024 ore 15:00
Auditorium Isybank D3
Partecipano:
Sergio Belardinelli, professore di Sociologia dei processi Culturali e comunicativi, Università di Bologna; S.Em. Card. Kevin Joseph Farrell, prefetto Dicastero per i laici, la famiglia e la vita; Davide Prosperi, presidente Fraternità di Comunione e Liberazione. Introduce Alberto Savorana, responsabile attività editoriali di Comunione e Liberazione.
Modera:
Monica Mondo, autore e conduttore TV2000
Mondo. – 0:08:43 – Ben trovati a tutti, non vi vedo. Siete moltissimi. Grazie di essere qui e grazie al Meeting per avermi invitato, per averci qui riuniti a riflettere su un tempo che sembra lontano, ma che forse così lontano non è. Un tempo che ci viene raccontato e ci sarà spiegato come. Ho letto queste bozze che mi sono state mandate con molto anticipo e mi hanno fatto compagnia a lungo quest’estate. Mi hanno davvero stupito per la sconvolgente attualità di un periodo, il ’68-’69, anni in cui la maggior parte di noi forse non c’era, o era molto piccola, e che sono così vicini per molti aspetti a quelli che viviamo oggi.
A parte ovviamente sentire l’accento di un educatore, di un maestro, di un teologo che continua a stupire per la sua autorevolezza nei giudizi, nella passione, nella curiosità con cui guarda la realtà tutta, per la tenerezza con cui accompagna le persone e anche per la, direi, positività di sguardo. A volte pensiamo che i tempi che viviamo siano difficili, ma neppure quelli erano tempi più semplici, né quelli successivi, sia a livello politico, sociale, che ecclesiale. Stupisce tantissimo anche questa obbedienza tenace, certa e sicura alla Chiesa, nella compagnia degli amici che aveva messo insieme in quegli anni.
Qui con noi ci sono Linda Ghisoni, lo so, aspettavate forse il Cardinal Farrell, che all’ultimo momento è stato impedito dal partecipare, e Linda Ghisoni, che è sottosegretario al Dicastero dei Laici, la Famiglia e la Vita. È una filosofa, una teologa, un avvocato. È qui, naturalmente, non soltanto per portarci la parola del Cardinal Farrell, ma anche per offrirci la sua parola e la sua presenza come rappresentante del Dicastero. Davide Prosperi, lo conoscete tutti, è Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, docente universitario di Biochimica all’Università di Milano-Bicocca. Sergio Bellardinelli, sociologo, politologo, già docente all’Università di Bologna, lo leggiamo molto volentieri ne “Il Foglio” nei suoi editoriali. Alberto Savorana, anche lui qualcuno di voi dovrebbe conoscerlo, è responsabile delle attività editoriali di Comunione e Liberazione e autore di una monumentale biografia di Don Giussani. Allora, a te la parola per cominciare.
Savorana. – 0:11:55 – Vi ringrazio. Ho un compito molto semplice: offrirvi qualche piccola pennellata per entrare in quello che il Meeting ha intitolato “Il ’68 di Don Giussani”, e quindi negli interventi dei relatori che sono stati annunciati. Comincio così: da ragazzo, a soli 15 anni, Don Giussani era stato folgorato dalla scoperta che Cristo è il centro unificatore di tutta la realtà. È la risposta a tutti gli interrogativi umani, la realizzazione di ogni desiderio di felicità, di amore, di bene, di eternità, presente nel cuore umano. Lo stupore e il fascino di questo primo incontro con Cristo non lo hanno più abbandonato. Forse qualcuno ricorda queste parole: sono quelle con cui Papa Francesco, il 15 ottobre 2022, in Piazza San Pietro, ha celebrato il centenario della nascita di Don Giussani. Le ho lette perché mi sembrano introdurre nel modo più adeguato alla vita di Don Giussani nel momento segnato dall’esplosione della contestazione.
Io, da 30 anni, ho un’opportunità abbastanza singolare: quella di immergermi quotidianamente nel Mare Magnum dei testi inediti di Don Giussani. Di questo io non sarò mai abbastanza grato, innanzitutto a Don Giussani, con cui ho iniziato tutto, poi a Don Carrón e adesso a Davide Prosperi, che mi ha rinnovato la fiducia chiedendomi di ricominciare questo lavoro di scavo, di carotaggio. Ci sono alcuni interventi di Don Giussani proprio di quegli anni che mi sono sembrati una documentazione chiara dell’osservazione di Papa Francesco, perché in essi emerge chiaramente la portata della figura di Cristo, dell’incontro con Cristo che Giussani ha avuto da giovane nei suoi anni di seminario.
Si vede chiaramente, questa portata, proprio in quello che Giussani definì lo “scossone” più grosso subito dal movimento, da quella gioventù studentesca che in pochi giorni si dimezzò perché i suoi giovani, soprattutto a Milano, abbandonarono il movimento per aderire alla contestazione studentesca. Grazie alla lettura di questi inediti, ho potuto ripercorrere quei tre anni drammatici dal ’68 al ’70, quasi preso per mano da Don Giussani, scoprendo – e credo che lo ascolteremo dagli interventi – la profonda attualità e pertinenza di quelle parole per l’oggi della nostra vita, della vita del movimento e, oso dire, anche della vita della Chiesa.
Sempre nel 2022, il Papa ricordò che i tempi di crisi sono un’occasione paradossalmente propizia per un discernimento critico, un rinnovamento e una ricapitolazione. In questi interventi di Don Giussani, che abbracciano il periodo del ’68, vediamo proprio lui impegnarsi in questo lavoro di ricapitolazione, discernimento e rinnovamento. E come lo fa? Lo fa dialogando con un gruppo di giovani, più che altro laureandi e neolaureati, che nel 1964 avevano dato vita al Centro culturale Ciaspeghi di Milano con l’intenzione di continuare l’esperienza che li aveva raggiunti e conquistati nei loro anni liceali.
Le trascrizioni di sei di quei momenti con i giovani del PEGI costituiscono l’ossatura del libro “La rivoluzione di sé, la vita come comunione”, recentemente pubblicato dall’editore Rizzoli, che oggi in qualche modo detta il contenuto e l’ordine del giorno di questo dialogo. Che cosa si vede in questo testo? Innanzitutto, che Giussani non perde tempo a lamentarsi perché il mondo va a rotoli. Fa un’altra cosa. Descrive la fede che ritiene quei giovani del PEGI debbano riscoprire e ritrovare per affrontare quel momento storico così drammatico. E lo fa operando una sorta di conversione personale. Non certo rispetto al contenuto della sua fede, che era ben radicata e incrollabile, ma rispetto alla modalità di comunicarla in un tempo che stava cambiando profondamente.
Racconto questo perché, secondo me, è molto significativo. C’è un episodio: siamo nell’estate del ’68. Don Giussani scende da Milano e incontra un gruppo di giovani riminesi, i G.S., pochi, nella casa parrocchiale di un paesino qui vicino, a Torello, sulle colline riminesi, i pochi sopravvissuti a un’emorragia generale. Qui, dialogando con loro, capisce un segno dei tempi: non è più il discorso sulla tradizione che può fondare un’adesione al fatto cristiano. Ed è sorprendente che, in quella stessa estate, un cardinale di nome Josef Ratzinger pubblica in Germania “Introduzione al cristianesimo”, in cui afferma che non è più il discorso sulla tradizione che può fondare un’adesione al fatto cristiano. L’uomo non si sente a casa sua nell’ambito della tradizione. Una fede che gli si fa incontro con l’etichetta della tradizione deve apparirgli come qualcosa di superato.
E Don Giussani, da dove riparte per lanciare la sfida del cristianesimo ai giovani del ’68? Riparte da ciò che lo ha conquistato: quell’incontro che gli ha preso la vita, quell’evento che non è una dottrina, che non è un discorso – come ripeterà tante volte Papa Francesco riprendendo la “Deus caritas est” di Benedetto XVI – ma un avvenimento, l’incontro con una persona, Cristo. Ecco, gli incontri del PEGI che si dipanano ne “La rivoluzione di sé” vedono Giussani impegnato, scavando nelle parole per cercare di fare emergere quel nucleo eterno e originale che ripropone a quei giovani, a quel gruppo sparuto in mezzo al mare della contestazione giovanile.
C’è una parola che, insieme a “rivoluzione di sé”, cioè questa ricentratura sulla natura originale del soggetto cristiano, attraversa tutte le pagine del libro: “comunione”. Il coinvolgimento della tua vita nella mia e della mia nella tua. Questa comunione non è il mio volere o il tuo volere, ma è l’avvenimento che Cristo ha portato nel mondo, il mistero della Chiesa a cui apparteniamo e nell’ambito del quale siamo stati chiamati. Ecco allora il compito, e concludo, che Giussani indica a quei giovani del PEGI come risposta, unica risposta adeguata al ’68: Comunione e Liberazione. Senza averlo programmato, innesca un dinamismo che, alla fine del ’69, dà vita a Comunione e Liberazione, che è innanzitutto una sorpresa per Don Giussani. Dirà infatti in quei mesi: “Noi, noi più grandi, siamo il nome che si sono dati gli universitari”, che avevano cominciato a distribuire un volantino alla Statale di Milano intitolato “Comunione e Liberazione”.
E questa è la proposta che formula Giussani nel ’68 e che, credo, ha molto a che fare con il nostro oggi: l’incontro con Cristo, l’amicizia di Gesù che, nella comunione vissuta, cambia la vita e fa sperimentare la convenienza umana della fede cristiana. Ovunque, dice Giussani, fossimo, in mezzo a una piazza o dentro una prigione, avessimo in mano una scopa o una penna per scrivere. Grazie.
Mondo. – 0:22:12 – Grazie, Alberto Savorana. Professoressa Ghisoni, mi diceva stamattina a un amico che c’era a quei tempi, che sulle pareti del Centro Pegui c’era un cartello con scritto: “Costruire la Chiesa è liberare l’uomo”. Da qui forse l’idea del nome che è nato. A lei, prego.
Ghisoni. – 0:22:33 – Grazie, Monica. Un caro saluto a tutti, sono molto lieta di partecipare al Meeting di Rimini, un Meeting che in questa edizione si incentra sulla ricerca dell’essenziale. Partecipare a questo incontro che valorizza i testi, come abbiamo sentito dalle parole di Alberto Savorana, significa concentrarsi sull’essenziale, così come emerge dai testi raccolti nel volume. Quell’essenziale che è stato posto a fondamento da parte di Don Luigi Giussani nel dare vita, insieme a una compagnia di amici, a Comunione e Liberazione.
Sono molto dispiaciuta che non ci sia qui il Prefetto del Dicastero, il Cardinale Farrell, anch’egli a sua volta dispiaciuto e impossibilitato a partecipare. Mi ha pregato, però, di portare a tutti il suo saluto, la sua vicinanza, la sua stima, e di assicurare la sua preghiera per tutti gli organizzatori, per i volontari, per coloro che frequentano il Meeting, e per tutti i buoni frutti di cui il Signore vorrà benedire questo Meeting.
Da parte mia, nel darne lettura, mi attengo fedelmente al testo che il Prefetto aveva deciso di condividere con voi in questa sede per presentare il volume prezioso cui è dedicato questo incontro.
Nel 1968 la società occidentale fu attraversata dal fenomeno della contestazione, che in varie maniere e a più riprese modificò abitudini, comportamenti, valori e lo stesso modo di pensare, tracciando un solco profondo tra ciò che veniva prima – la società dei padri, delle autorità, della tradizione – e il presente, cui si legavano indissolubilmente le speranze per un nuovo futuro. Anche la Chiesa Cattolica, a meno di tre anni dalla chiusura del Concilio Vaticano II, fu investita da moti contrari alle tradizionali consuetudini e forme, in uno spirito definito di rinnovamento che poneva in discussione e in crisi situazioni di vita ecclesiale considerate insufficienti e inadeguate a comprendere e affrontare le esigenze e i segni dei tempi.
In alcuni casi la contestazione studentesca riunì le due istanze: antiautoritaria e libertaria da una parte, evangelico-innovativa dall’altra, in una sorta di disagio e ribellione non sempre chiari, ma ciononostante per nulla ininfluenti, come nel caso delle occupazioni dell’Università Cattolica di Milano, che diedero il via al diffondersi della contestazione studentesca in tutta Italia. Il mondo cattolico fu profondamente scosso dagli eventi di quegli anni, dalle parrocchie agli ordini religiosi, dalle tradizionali associazioni laicali alle nuove forme di comunità ecclesiale. La stessa gioventù studentesca subì un tracollo sotto la spinta della contestazione. Molti suoi aderenti, tra i quali diversi dirigenti o incaricati, videro nel movimento studentesco, come stava ricordando Alberto Savorana, la realizzazione piena degli ideali prima perseguiti, e abbandonarono l’esperienza in GS per buttarsi nell’impegno politico, sempre più ispirato, dopo una prima fase libertaria, all’ideologia marxista.
In questa situazione Don Giussani riprese con decisione il rapporto con i ragazzi di GS, nel frattempo divenuti grandi, che erano rimasti fedeli all’esperienza originaria e che avevano continuato a frequentarsi grazie al Centro culturale PEGI, una libera associazione culturale sorta nell’ottobre del 1964 per promuovere un’autentica cultura e un dialogo tra le varie forze ideologiche. I testi raccolti nel volume “Una rivoluzione di sé, la vita come una comunione” riportano i dialoghi, le lezioni, le giornate di inizio e gli esercizi spirituali degli anni dal ’68 al ’70 con gli aderenti al PEGI, documentando dal vivo l’atteggiamento e l’azione di Don Giussani nella vita civile e ecclesiale, costituendo una preziosa testimonianza per comprendere come nasce e rinasce un movimento.
Sin dalle prime pagine del volume appare chiara l’intenzione che, come atteggiamento e coscienza, anima Don Giussani. Le difficoltà esterne sociali, ideologiche, comportamentali non sono qualcosa da cui difendersi, ma l’occasione per crescere nella fede, vale a dire, come diceva ai suoi ragazzi, ai suoi ex ragazzi del liceo, il momento per affrontare il problema della maturità della fede, la posizione dell’adulto cristiano nella storia. Prende così vigore l’invito del primo testo a trovare un’intesa sui contenuti dell’esperienza cristiana, enucleata in precedenti occasioni ma ora posta esplicitamente a tema. Tanto è importante questa impostazione che Don Giussani fa dipendere da essa addirittura la possibilità di continuare a partecipare al nascente movimento.
“Io personalmente ritengo di poter continuare nella collaborazione tra noi” – dice Giussani – “solo in quanto questa fisionomia, indicata dai contenuti che ora richiamerò, è salvata”. I due pilastri della concezione cristiana, successivamente considerati, acquistano in questa luce un’importanza straordinaria, essendo la ragione del mettersi insieme ed delineando contemporaneamente il volto e la posizione del cristiano nel mondo. Il primo, la vita cristiana come comunione, e il secondo, la collaborazione all’avvenimento del mondo, del cosmo. Questi sono, sottolinea Giussani, i due punti cardine, esaurientemente tali della nostra concezione. “Questi sono i due punti e basta.”
Ora, la genialità di Don Giussani è di sostenere la profonda unità e correlazione di questi due punti cardine. La vita come comunione, infatti, tende ad abbracciare il mondo, a renderlo una casa abitabile per tutti. Analogamente, la collaborazione al miglioramento del mondo passa attraverso la comunione vissuta. Al contrario, la separazione dei due punti cardine porterebbe facilmente a chiudersi in comunità non più fondate sulla fede e la maturità cristiana, o a pensare il cambiamento del mondo e impegnarsi in esso, assumendo invece principi e schemi che nulla hanno a che fare con la proposta cristiana. E questa è stata una separazione di cui ha sofferto il mondo cristiano fin quasi ai nostri giorni. Egli avverte che questi due punti cardine non solo delineano il volto di una nuova presenza cristiana nella società – sarà la novità non sempre ben compresa dell’esperienza di Comunione e Liberazione nella società italiana a partire dal 1969 e poi negli anni a seguire in varie parti del mondo – ma investono direttamente la questione del rapporto tra Chiesa e mondo.
I capitoli successivi sono infatti dedicati a chiarire dall’interno dell’esperienza personale e comunitaria l’incidenza di questi due punti sulla fisionomia e sul volto del cristiano, sulla sua vocazione e il valore del suo impegno, sulla presenza della Chiesa nel mondo e sui rapporti tra l’esperienza cristiana e l’esperienza umana. Con formulazione semplice ma precisa, Don Giussani offre la sua risposta alla questione: “Il rapporto Chiesa-Mondo è tutto, a mio avviso, riconducibile a questo rapporto tra la verità della nostra immanenza nell’avvenimento della Parola di Cristo, la comunione cristiana, e la lealtà cordiale e appassionata con cui siamo dentro le esigenze e i bisogni dell’uomo. Provate a pensare: come facciamo a essere dentro le esigenze e i bisogni degli uomini se non siamo seri, leali, appassionati, attenti a noi stessi?”.
Dalla comprensione e realizzazione di questo rapporto dipende la testimonianza e il contributo dei cristiani nella società, o in altri termini il valore della missione della Chiesa nel mondo. Per comprendere tale missione, Giussani radicalizza il discorso cristiano portandolo alla sua origine, ossia all’essenza del cristianesimo. Ai giovani, travolti dai venti della contestazione, Don Giussani non propone una cristianità da difendere, ma un cristianesimo da vivere come avvenimento. Infatti, il cristianesimo – si chiede Giussani – come è sorto? Come è incominciato? Fu un avvenimento. Il cristianesimo è un avvenimento. La parola “avvenimento” ricorre spesso nel testo e qualifica in senso stretto l’itinerario della vita e della vocazione cristiana. Non può più essere né la storia, né la dottrina, né la tradizione, né il discorso a muovere l’uomo di oggi, ma solo un incontro. Un incontro con una presenza carica di proposta e di significato. Questo avvenimento, non una cosa o una conseguenza di fattori antecedenti, ma una novità che avviene, è la presenza di Cristo nella storia. E l’avvenimento che si prolunga nella storia è la Chiesa.
Se la missione della Chiesa è quella di rendere presente Cristo nella storia, si capisce perché Giussani consideri essenziale per la missione del cristiano nel mondo il “costruire la Chiesa”. Egli ricorda, a più riprese, che la Chiesa si costruisce lì dove si vive: sul posto di lavoro, nella scuola, in famiglia, nel quartiere o nella città, nei vari aspetti della vita sociale, civile e culturale. Questa responsabilità matura della fede, che valorizza indubbiamente il ruolo dei laici nell’edificazione della Chiesa nel mondo moderno, è richiamata in tutto il volume a più riprese e sotto diverse tematiche: dalla vita come comunione all’identità del cristiano, dalla fede che investe il quotidiano alla visibilità della comunità cristiana, dalla certezza della fede al saper giudicare fatti e situazioni che riguardano gli uomini e le donne di oggi.
Negli incontri di inizio d’anno e negli esercizi spirituali, Giussani insiste con convinzione e passione, sempre maggiori, nell’invitare i suoi amici a collaborare e a dedicare la loro vita alla costruzione della Chiesa, vale a dire della novità introdotta da Cristo nella storia dell’uomo. In particolare, nel capitolo quarto e nella lezione del 3 novembre 1969, mattina, Don Giussani si sofferma sulla nostra collaborazione alla costruzione della Chiesa, il modo più vero con cui si può amare il mondo e la sua salvezza. “Se Cristo è la nostra speranza e il mistero della Chiesa è la sua continuità”, egli dice, “allora collaborare a costruire la Chiesa è veramente l’unico modo con cui noi possiamo pensare con amore al mondo. È l’unico modo con cui possiamo rendere utile la nostra vita al mondo.” Questa idea è richiamata poco dopo, con grande chiarezza e decisione, con queste parole: “Collaborare a costruire e a edificare la Chiesa, questo è il nostro compito, questa è la funzione della nostra vita nel mondo. Non dobbiamo, non abbiamo nessun altro compito, non abbiamo nessun’altra funzione al di fuori di questa”.
Giussani non si limita a indicare una prospettiva, a chiarire un’intenzione; egli vuole anche indicare una strada fatta di condizioni, di criteri connotati sia oggettivi sia soggettivi. In poche pagine Giussani espone in nuce la sua ecclesiologia, non sotto forma di trattato teologico ma come proposta vibrante di vita e comunicabile alle generazioni di oggi. Distinguendo tra condizioni oggettive e condizioni soggettive, Giussani indica tra le prime due fattori strettamente congiunti: la comunione di vita che nasce dalla persona cambiata dall’incontro con Cristo e il riferimento di questa esperienza di comunione alla comunità della Chiesa totale. Non c’è costruzione della Chiesa se non come comunione vissuta, che interessa la vita in tutti i suoi aspetti. È questa l’iniziativa personale che nasce dalla persona. Ma non c’è costruzione della Chiesa se non nel rapporto alla Chiesa totale, alla sua autorità, alla sua vita e struttura. Due condizioni, dice Giussani, che non si possono disgiungere, che si rapportano dialetticamente in tensione tra loro.
Tra le condizioni soggettive sono annoverati i due tratti fondamentali del volto del cristiano per realizzarsi nell’uomo della conversione cristiana. Anzitutto, quello che Giussani chiama il “sentimento fondamentale della vita”, vale a dire l’attesa del compimento di ciò che nella vita è iniziato. Giussani lo esprime in vari modi, tra i quali, per bellezza di espressione e chiarezza di partecipazione, leggiamo questo che si trova alle pagine 149-150: “Nella misura in cui io sono così proteso al bene mio e del mondo, qual è la cosa che io desidero di più? L’avvenimento che desidero di più? Il momento che desidero di più? Il fenomeno che desidero di più? Il colmo dei miei desideri qual è? In concreto, qual è? Il colmo dei miei desideri è quello che il Nuovo Testamento chiama il ritorno di Cristo, la parusia, la sua venuta. Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione nell’attesa della tua venuta”. Questo è il sentimento sensibilmente, psicologicamente dominante, l’animo proprio, tutto il mondo interiore del cristiano consapevole.
A questo sentimento fondamentale si associa, e siamo alla seconda condizione soggettiva, un nuovo possesso delle cose, della realtà, una condizione interiore che definisce l’etica e la morale cristiana. Riprendendo San Paolo, Giussani afferma che partecipando all’avvenimento cristiano nasce un modo diverso di possedere i rapporti con me e con le cose. È il tema del “possesso nel distacco”. O più chiaramente, una parola audacemente proferita visti i tempi che si vivevano all’epoca, della “verginità”. Una parola che in Giussani acquista il valore di un vero e autentico rapporto con la realtà, propria e del mondo, e che può rendere protagonisti di una nuova costruzione umana. Cito: “Si chiama verginità in termini cristiani il nuovo modo di possedere le cose, il nuovo modo di possedere se stessi, i rapporti umani e le cose che instaura lo sforzo di costruzione della Chiesa”. È chiaro che questa parola così recuperata non rappresenta alternativa a nessuna particolare funzione nella vita; è l’ideale per qualunque funzione, anche se nella comunità della Chiesa Dio suscita una funzione che sia paradigma per tutti, richiamo a tutti di questo ideale di tutti.
In questo modo Giussani delinea il volto del cristiano, della sua collaborazione alla costruzione della Chiesa e chiarisce alla radice il rapporto intrinseco di un movimento ecclesiale con la vita della Chiesa nella sua totalità. Da questo rapporto intrinseco Giussani trae due conseguenze fondamentali. La prima riguarda il volto della comunità cristiana. Egli avverte che le forme tradizionali della comunità cristiana sono state messe in crisi e molte di esse non hanno retto alla prova dei tempi, di cui la necessità di rivederne non solo il volto, ma la natura e la funzione specifica nella società di fine Novecento e degli anni seguenti. Giussani individua nella costruzione o ricostruzione della comunità cristiana la condizione fondamentale del cambiamento umano e sociale che gli uomini e le donne del nostro tempo desiderano e attendono.
Egli comprende il disagio profondo che molti, soprattutto giovani, provano di fronte a una Chiesa invecchiata, a una Chiesa chiusa su se stessa, condizionata da forme più o meno esplicite di clericalismo, incapace di parlare agli uomini di oggi e ridotta a una sorta di agenzia dei sentimenti e delle inclinazioni religiose. Egli in un’occasione accenna a un volto di Chiesa ancora lontano da ciò che dovrebbe essere e umanamente poco attraente, proprio paragonato ai valori per cui gli si aderisce. Il volto o la faccia, un altro termine ricorrente, non riguarda solo l’aspetto esteriore ma il metodo dell’esperienza cristiana, ed è proprio su questo metodo che il volume offre uno dei suoi contributi più preziosi. Non solo per comprendere l’anima di Comunione e Liberazione e la sua stessa ragione d’essere, ma anche per aprire un confronto serio nella Chiesa sul valore e il modo della sua presenza nel mondo d’oggi.
L’idea di “gruppo”, un termine impreciso e solo provvisoriamente utilizzato, indica la prossimità di rapporti grazie ai quali la testimonianza della fede possa essere alimentata e sostenuta. Era l’idea che negli anni del seminario aveva affascinato Giussani e alcuni altri seminaristi, che fondando lo Studium Christi intendevano costituire un sodalizio in cui parlare sul serio di Cristo, impostare la propria vita come verifica di questo e creare una trama di rapporti tra compagni lieti per questo. A ciò si riallaccia la seconda conseguenza, l’idea di “movimento”. Un movimento non è fare delle cose, iniziative, creare strutture come qualsiasi altra associazione, ma è, per Giussani, rendere presente nella vita normale, quotidiana, fatta di problemi, difficoltà, attese, delusioni, la presenza di Cristo, una presenza carica di proposta, in grado di far affrontare positivamente la vita e di cambiarla.
Nel ’68, a partire da quella data per tutti gli anni seguenti, Don Giussani non tentò di rimediare agli sconvolgimenti di un’epoca e a una situazione di cambiamenti radicali, puntellando quanto si poteva ancora salvare per poter sopravvivere, ma pose un punto di origine diverso su cui costruire, pensare e vivere. Il cambiamento di sé, la rivoluzione dell’io, stava per lui all’origine di ogni autentica rivoluzione e di ogni serio cambiamento. Gli anni successivi avrebbero dimostrato come i cambiamenti promessi da uomini vecchi sarebbero presto naufragati, riportando alle antiche contraddizioni e agli errori che si volevano combattere. Ma tale cambiamento di sé si esprime e ha come metodo per realizzarsi la comunione. Una comunione, dice Giussani, che investe tutta la vita, dalle vicende quotidiane a quelle civili, dalle proprie capacità ai soldi, dal giudizio sugli avvenimenti sociali, economici, politici alle scelte morali, facendo rivivere la Chiesa, rendendo più consapevole la realtà cristiana, creando tante comunità legate l’una all’altra che rendano più umana la vita dell’uomo e contribuiscano a un nuovo assetto della vita sociale.
Questa idea di movimento, che in quegli anni prendeva piede e che questo volume aiuta a capire nella sua genesi, nella sua natura e anche nelle sue prospettive, non riguarda specificamente un singolo movimento, ma la dinamica stessa della Chiesa nella sua totalità e nella sua missione. Come ebbe a dire San Giovanni Paolo II, è movimento, dinamica e testimonianza della fede cristiana nella vita degli uomini. Tornano allora, per concludere alla mente, rileggendo i testi di Don Giussani contenuti nel volume che oggi viene presentato, le parole di Papa Francesco risuonate solennemente in piazza San Pietro in occasione dell’udienza già citata al Movimento il 15 ottobre 2022: “Comunione e Liberazione nacque proprio in un tempo di crisi quale fu il ’68, e in seguito Don Giussani non si è spaventato dei momenti di passaggio e di crescita della fraternità, ma li ha affrontati con coraggio evangelico, affidamento a Cristo e in comunione con la Madre Chiesa.”
Grazie per il vostro ascolto.
Belardinelli. – 0:48:07 – Grazie, professoressa Ghisoni. Grazie al Meeting per avermi invitato. Non so quanto fossero consapevoli dell’invito che hanno fatto, però sono veramente contento di essere qua, non fosse altro perché l’occasione è buona per manifestare un senso di gratitudine profondo che il sottoscritto ha sempre sentito nei confronti di Don Giussani e del suo movimento. Proprio negli anni in cui Don Giussani parlava e scriveva le cose che oggi presentiamo, io da allora, conoscendo pochissimo del movimento, sentivo una naturale simpatia per i temi che allora erano quelli più scottanti, e avevo la sensazione che Don Giussani li affrontasse in un modo assolutamente inaudito per quei tempi. E sì, perché io mi sono iscritto all’università nel ’71, il ’68 è stato lungo in Italia, quindi era ancora in corso, e noi sappiamo tutti quali erano i temi.
Oggi ho scoperto quali erano i temi che hanno indotto molti di GS ad abbandonare GS. Ciò che è straordinario, secondo me, in Giussani, che lo è stato allora, e lo capisco oggi, ma potrebbe esserlo anche oggi, è la capacità che quest’uomo ha avuto di trasformare una mezza catastrofe in una grande opportunità. Un’opportunità che ha spinto Giussani a puntare tutto sull’essenziale. “Domandiamoci perché crediamo” ricorre molto spesso nel libro. Non abbiamo che Cristo, non abbiamo che la presenza viva di Cristo, non abbiamo che da aggrapparci a Lui.
Alberto Savorana ha detto giustamente che allora era chiarissimo a Giussani che il cristianesimo aveva poche chance di rendersi credibile appellandosi a una pur gloriosissima tradizione. Ma, e Giussani lo dice espressamente, nemmeno la teoria è più in grado di toccare il cuore dell’uomo d’oggi, ed è per questo che punta tutto su cosa? Sulla persona di Cristo. Punta tutto sulla persona di Cristo e sulla persona di Cristo cerca di costruire quella che lui chiama un’autocoscienza nuova, che dovrebbe essere appunto poi un’autocoscienza fondata sulla comunione, la comunione con Cristo e la comunione con la Chiesa, come fondamento dell’opera di quest’uomo.
Consentitemi di leggere un passo su questa autocoscienza nuova, perché almeno per me – so che per voi sarà molto più familiare – ma per me ha una forza dirompente, davvero. Prima di qualunque operazione, prima di qualunque struttura da erigere, prima di qualunque progetto da stabilire, il compito da realizzare è un’autocoscienza nuova, cioè un accorgersi nuovo di un’altra realtà in me che io sono, e perciò l’accorgersi di strumenti di giudizio e d’azione totalmente diversi.
E questo è il cuore del discorso di questo libro e non solo, ma voi lo sapete meglio di me. Questa capacità di giudicare in modo del tutto nuovo, inaudito, che non ha niente a che fare con le logiche ipertrofiche dell’io e non ha niente a che fare con le logiche ipertrofiche del noi, perché c’è anche una logica ipertrofica del noi, appiattita appunto su quegli slogan che io ricordo benissimo in quel tempo. Esisteva un “noi”, il movimento studentesco era un “noi” fortissimo, altro che! Ricordo quasi tutti gli slogan, che tra l’altro erano anche molto belli, come “l’immaginazione al potere”, quello per esempio è indimenticabile per me, perché tanto più erano belli e tanto più erano, come dire… poveri di pensiero.
Gaston Bachelard ha scritto da qualche parte che una poesia può essere bella anche quando una filosofia è pessima, e chi ha la mia età ha fatto proprio l’esperienza dirompente di belle poesie con pessima filosofia. Giussani, secondo me, cerca di proporre uno sguardo nuovo, qualcosa di inaudito, un criterio di giudizio sulla realtà che dipende totalmente da un altro; da un mio amico, lo chiama nel libro più di una volta, da Cristo. La mia misura, si dice in questo libro, non è mia. Queste sono parole che suonavano sconvolgenti nel 1970, quando sono state scritte, ma secondo me suonano ancora più sconvolgenti oggi, perché allora ponevamo i germi proprio di quel soggettivismo, un po’ all’acqua di rose, che andava dietro – Benedetto XVI avrebbe detto – esclusivamente all’io e alle sue voglie.
Bene, Don Giussani, rispetto a questa cultura sicuramente dominante, che cominciava a essere dominante allora ed è dominante oggi, cosa ci dice? Ci dice qualcosa di appunto molto provocatorio: la forma più sublime di libertà potrebbe essere la libertà da noi stessi. Il punto più alto che possiamo raggiungere riflettendo sulla nostra libertà potrebbe essere guadagnare la libertà da noi stessi, metterci in comunione con quell’altro, con quell’amico che abbiamo incontrato, l’avvenimento cristiano, la vita come comunione. Quante sciocchezze in meno avremmo detto se fossimo stati veramente ancorati a questa comunione.
Le declinazioni di quest’altro che è in noi possono essere tante. Ho detto che, se l’articolassimo come merita, saremmo al riparo, per esempio, da tutta quella sciatteria assai diffusa sull’identità dell’io, l’identità dell’Europa, l’identità delle culture, la difficoltà a incontrare l’altro. Io sono io, l’altro mi spaventa, ma come può spaventarci un altro se l’altro ce l’ho dentro? Come posso costruire una teoria dell’identità senza tener conto di quest’altro che ho dentro di me?
Quanto all’Europa, sappiamo bene qual è il problema dell’Europa, sotto sotto. Lo dico con una battuta che spero mi venga perdonata, ma fondamentalmente l’Europa ha bisogno di Cristo e della Chiesa. Il resto, come è sempre successo nella storia – ed è il nostro grande privilegio – ci è stato dato in sovrappiù. Tutto il resto, lo stato di diritto, la bellezza del nostro paesaggio, tutto quello che conosciamo essere al fondo di quella che chiamiamo identità europea, grata grata, è un sovrappiù che ci è stato dato per essere stati e per essere cristiani.
Questo è anche, secondo me, un elemento di ottimismo, perché cascasse il mondo, come diceva Benedetto Croce, ma cascasse il mondo ci sarà sempre materia per fare del bene. Ed è un pensiero che potrebbe essere anche giussaniano. Non dobbiamo piangerci addosso. Non è tempo di piangerci addosso. È tempo piuttosto di essere fedeli a questa ispirazione. Non dobbiamo neanche perder tempo, secondo me, a fare troppi programmi a tavolino. Perché se abbiamo dimestichezza con quest’altro che è in noi, la realtà ci appare, ci si configura in un modo tale che ci aiuta anche a capire ciò di cui questa realtà avrebbe bisogno. Non c’è bisogno di farci sopra tanta teoria.
Chiudo su questo tema, anche perché Alberto Savorana su Don Giussani, la comunione, eccetera, ha detto tutto quello che si poteva dire. Ho ancora tre minuti e molto sbrigativamente vorrei… Due, mi dice Monica. Allora, due minuti: è il tema della speranza. Mi ha colpito molto perché, dicevo, in un tempo difficile, anziché piangere, si guarda al futuro. San Paolo dice: “Voi non dovete affliggervi come gli altri che non hanno speranza.” Benedetto XVI nella Spe Salvi scrive cose bellissime al numero due sul privilegio dei cristiani che hanno futuro. Avere futuro vuol dire avere la certezza – sono parole di Benedetto XVI – che la nostra vita non cade nel vuoto, non finirà nel vuoto. Il mondo, nonostante tutto, ha senso. Il mondo, nonostante tutto, in qualche modo, è grazia.
Giussani parla di speranza come giudizio storico. Mi sarebbe piaciuto soffermarmi un po’ su questo tema: un giudizio storico… Monica mi dice di no e quindi non mi dilungherò di più. Però ecco, un giudizio storico che ha nella storia e trova nella storia la sua conferma, dice Giussani. E più ancora, dice anche che è un giudizio storico che i cristiani realizzano nella pace. C’è, sembra, un riferimento casuale, solo che coi tempi che corrono, sentire che la parola speranza, come giudizio storico, viene associata alla pace ha quasi del… insomma, rimbomba in modo piuttosto clamoroso nel nostro tempo.
E poi l’ultima, e mi taccio: la speranza come qualcosa che non è che ci metta al riparo dalle nostre responsabilità, che ci renda dei faciloni, magari ci risparmi i rischi e gli imprevisti della vita. È la speranza come qualcosa che soprattutto ci mette al riparo dalla paura. Questa è la vera forza della speranza cristiana: metterci al riparo dalla paura, farci stare al mondo, cascasse il mondo, con tutte le brutture, con tutto quello che sappiamo esserci. Nonostante tutto, noi sappiamo che c’è un destino di bene. Siamo tutti raccolti nell’oggi di Dio grazie alla comunione con Gesù Cristo. Monica, mi dici di fermare?
Mondo. – 1:02:42 – No, ma non è Monica. Monica sta fremendo perché di domande ne avrei tantissime e vedo purtroppo che… Se volete, potete crocifiggere me, ma io ho un cronometro davanti e almeno la soddisfazione di una domandina per uno me la devo tenere.
Prosperi. – 1:03:04 – Davide Prosperi, prego. Bene, grazie a tutti, buon pomeriggio. Io per prima cosa voglio ringraziare Sua Eminenza, il Cardinal Farrell, per averci fatto pervenire questo suo intervento molto importante, molto prezioso, e altrettanto la dottoressa Ghisoni per aver contribuito a condividerlo e aver accettato quindi il nostro invito a partecipare oggi. Così come anche ovviamente ringrazio il professor Belardinelli per le sue parole che sento, sentiamo così consenzienti. E come?
Mondo. – 1:03:53 – Calorose.
Prosperi. – 1:03:54 – Calorose anche, certo. Grazie Monica, grazie Alberto e grazie a tutti. E grazie anche al Meeting che ci ospita, ma al Meeting siamo noi in fondo, no? Ecco, negli interventi che abbiamo già ascoltato, si semplifica un po’ il lavoro, perché sono già immerse molto bene le principali dimensioni che caratterizzano gli interventi inediti di Don Giussani, inediti finora perlomeno. Voglio dire subito qualcosa riguardo lo scopo di questa pubblicazione; magari poi ci torneremo, ma qui si delinea chiaramente in modo molto efficace e deciso quali sono i tratti peculiari del carisma, quello che lui chiama “il nostro discorso” o “la nostra concezione”. Nel carisma, che gli è stato donato dallo Spirito per il bene di tutta la Chiesa e del mondo, si capisce chiaramente che Giussani da subito acquisisce questa consapevolezza, e che poi ha dato origine a quello che oggi tutti conoscono come il movimento di Comunione e Liberazione.
Ma prima di approfondire questi tratti peculiari, già in parte descritti dalla dottoressa Ghisoni, vorrei esprimere come brevissima premessa il grande entusiasmo e l’enorme gratitudine che ha caratterizzato il lavoro compiuto dalla Fraternità di CL per realizzare questo volume. Rileggendo e riorganizzando questi testi, ci siamo sorpresi ogni giorno di più della straordinaria attualità dei contenuti e della forza profetica delle parole di Don Giussani pronunciate in quegli anni. Le preoccupazioni educative e gli insegnamenti che Don Giussani esprime qui, in un momento, come sappiamo, particolarmente drammatico della storia del nostro Paese, e anche della Chiesa, assumono oggi, a mio parere, un valore ancora più significativo anche per CL stessa.
Vorrei provare a focalizzarmi su alcuni di questi fattori costitutivi, i due pilastri di cui parlava la dottoressa Ghisoni, attualizzandoli al tempo presente secondo tre articolazioni che, a mio avviso, rendono così importante oggi tornare a guardare a questi fattori. Dico subito quali sono queste articolazioni: primo, la vita cristiana come comunione; secondo, il giudizio e la cultura nuova; e terzo, la vita come missione. Inevitabilmente, nel riprendere passo passo il discorso sviluppato da Giussani, il mio intervento conterrà molte sue citazioni tratte direttamente da questo volume, mentre io mi limiterò a tracciare un filo conduttore per facilitare l’ascolto e la comprensione dei punti che voglio sottolineare.
Allora, cominciamo. Il primo punto è la vita cristiana come comunione. Questo tema emerge già nelle prime pagine; Giussani parte subito su questo argomento. Non è solo una scelta editoriale: abbiamo seguito un andamento cronologico nella raccolta degli scritti. Le lezioni che Giussani teneva al PEGI, rileggendole a posteriori, sembrano seguire un percorso predefinito, anche se in realtà Giussani seguiva gli eventi del tempo. Questo è significativo anche come metodo di proposta.
La categoria di comunione viene proposta nel suo orizzonte universale, così come in quello particolare. Dio non è entrato nel mondo come una meteora divina che ha solcato il cielo della storia in un istante; Dio è venuto tra noi per rimanere nella storia, in un segno umano. L’incontro con Cristo oggi avviene attraverso l’imbattersi nella comunione tra persone legate a Lui, parte di Lui, forma contemporanea del Suo avvenimento. Normalmente, questo significa incontrare una persona o un gruppo di persone che hanno già fatto questo incontro e la cui vita è stata trasformata da esso e dall’immanenza alla comunione cristiana. Queste persone portano nel loro modo di vivere e stare insieme, nel loro sguardo e nelle loro azioni, l’annuncio della Sua presenza.
Credo che per molti di coloro che sono qui, sia effettivamente avvenuto così, l’incontro con un evento umano. Ma se la comunione ha il suo perimetro totale nella comunità della Chiesa universale, questa rimarrebbe astratta se non diventasse concreta nei rapporti quotidiani, cioè nei contesti in cui viviamo. Se non la percepissimo e non la vivessimo nel rapporto quotidiano con coloro a cui è accaduto lo stesso incontro e lo hanno riconosciuto come noi, la comunione perderebbe il suo significato. Questa concretezza di comunione non è però una scelta particolare o un di più che alcuni aggiungono; no, essa è la vita cristiana come tale. Dove essa manca, è la fede che viene indebolita, diventando astratta e incapace di incidere sulla vita. Questo, a mio avviso, è un passaggio veramente decisivo.
Don Giussani dice che i cattolici oggi perdono ampiamente la fede, compresi molti teologi (parlando del ’68, ma penso sia ancora attuale), perché non hanno alle spalle nessuna vita di comunità, nessuna esperienza della Chiesa come comunità. È una situazione che dovrebbe farci riflettere e anche riconsiderare il modo di concepire e riproporre il cristianesimo oggi. La fede, infatti, è un’esperienza personale, ma non solitaria. La comunione, cioè l’unità, non solo ci rende segno visibile della Sua presenza nel mondo, ma alimenta anche la fede in noi.
Giussani si sofferma a indicare le dimensioni della comunione con una radicalità che lascia stupefatti, una radicalità che non ha nulla da invidiare a quella che troviamo nelle pagine degli Atti degli Apostoli. Infatti, parla dell’autorevolezza della comunione, rispetto alla quale dobbiamo vivere un atteggiamento di ascolto e di dipendenza, poi di comunione di gesti, comunione di beni, comunione del giudizio, lanciando quindi l’idea di gruppi di comunione in cui queste dimensioni si rendano effettive, puntuali, quotidiane, e possano comunicarsi nei propri ambienti di vita.
Sul terreno di questa proposta nasce il nome “Comunione e Liberazione”. È la formula più bella che abbiamo trovato in tutti gli anni del nostro cammino: comunione e quindi liberazione. Non si può fare l’inverso, dice Giussani. È attraverso la comunione che sperimentiamo quella liberazione che è Cristo, una liberazione che il nostro cuore desidera e che il mondo attende, da cui scaturisce un imperativo che ci mostra come la comunione sia un dono, ma al tempo stesso un compito, una responsabilità. Ce l’ha detto anche Papa Francesco nella lettera che ci ha inviato lo scorso 30 gennaio. Giussani lo esprime con una sorta di neologismo: “Noi vogliamo fare la comunione, qualunque sia il nostro futuro”. Ma su questo poi torno nel terzo punto.
Secondo passaggio: giudizio e cultura nuova.
In merito alla comunione del giudizio, in particolare, a cui ho appena accennato, Giussani osserva che se io sono in comunione, il formarsi del giudizio, che è all’origine di tutte le mie decisioni, ha come humus, come terreno, la comunione stessa. Un giudizio si forma in base a criteri e a sensibilità, e il luogo dei criteri e della sensibilità, dentro cui io formulo il mio giudizio sulle cose, sulle problematiche che la vita mi pone, è la comunione. Non è per nulla un’affermazione scontata. Anzi, oggi, nella mentalità comune, comunione e appartenenza sono termini avvertiti con sospetto, quasi con ostilità. Talvolta, anche noi, che siamo figli del nostro tempo, possiamo sentirlo così.
Basti pensare a come, nel sentire comune, il fatto che tu appartieni a qualcosa susciti in qualche modo sospetto. Si può anche dire, prosegue Giussani, che il mio giudizio sulle cose, e quindi le mie decisioni, nascono e si formulano in dialogo con la comunione. Io voglio pescare le ragioni del mio comportamento nella vita della comunione. Desidero paragonare e confrontare quello che faccio con la comunione e con la sua vita. E questo, dice, diventa nel tempo atteggiamento normale, diventa fisionomia, la mia fisionomia. È così che, secondo Don Giussani, fiorisce uno sguardo di fede.
Un simile sguardo sulla realtà delle cose è un occhio plasmato dall’incontro con Cristo e dall’impegno ad affrontare tutti i problemi e le situazioni dell’esistenza alla luce della presenza di Cristo, cioè Cristo presente come comunione. Se la fede non determinasse un modo diverso, più vero di vedere se stessi e la realtà, più disponibile a dire pane al pane e vino al vino, più spalancato a riconoscere il significato delle cose e coglierne il valore, non avrebbe connessione con la vita e lascerebbe tutto esattamente come prima, sarebbe irrilevante. Le categorie di giudizio, i criteri delle decisioni, i motivi dell’azione resterebbero tali e quali a quelli degli altri, cioè a quelli della mentalità corrente del mondo.
Ma attenzione, la fede così non potrebbe generare uno sguardo diverso se Cristo venisse ridotto a un’idea, se non fosse riconosciuto come presenza reale nella vita, se non diventasse nella comunione un termine concreto di paragone, di ascolto, di sequela e quindi di appartenenza. Non si tratta, sia chiaro, di eliminare il fattore agente, l’attore coscienza, come lui lo chiama, cioè la persona. Anzi, tutt’altro, è l’opposto: comprendere che alla fine i tipi di coinvolgimento sono due, quello del mondo e quello di Cristo.
La comunità cristiana si presenta come la condizione oggettiva perché la coscienza sviluppi criteri, colga, percepisca, chiarisca criteri esatti, e il mio coinvolgimento con essa, cioè con la comunione, è il terreno su cui tutto ciò può avvenire per me. E nella misura del nostro coinvolgimento, della nostra appartenenza al fatto di Cristo, che la fede diventa criterio per giudicare il mondo e quindi diventa giudizio sul mondo, su ciò che ci accade, su ciò che vediamo, fuori e dentro di noi. Anche dentro di noi, è fondamentale che avvenga questo passaggio.
Giussani dice che una vera teoria è una vita, è una realtà viva, sempre in cammino, capace di evolversi, di rispondere ai segni dei tempi. Non che debba cambiare contraddicendosi nel suo volto fondamentale, ma in essa un’anima, un principio di unità interiore, continuamente affronta le circostanze e le situazioni sempre nuove, in cui le esigenze e i bisogni antichi, fondamentali, perenni dell’uomo come tale, vengono a trovarsi.
È interessante notare qui la sintonia con le parole che ci ha rivolto Papa Francesco, quando dice, in Piazza San Pietro, il 15 ottobre del 2022 (lo ricordiamo bene), che “la potenzialità del vostro carisma è ancora in gran parte da scoprire. Vi incoraggio a trovare modi e linguaggi adatti perché il carisma che Don Giussani vi ha consegnato raggiunga nuove persone e nuovi ambienti perché sappia parlare al mondo di oggi.”
Ma affinché si formi questo giudizio, e si esprima la posizione culturale, oltre all’immanenza nella comunione, occorre un altro fattore. Questo altro fattore è, uso le sue parole, “essere fin nel midollo delle ossa dentro le esigenze e i bisogni dell’umanità, dell’uomo”, perché è nel rapporto e nell’immedesimazione con le esigenze e i bisogni dell’uomo che quel principio, che è l’avvenimento della comunione, si arricchisce, sprigiona tutte le sue intuizioni e tutte le sue affermazioni, chiarisce tutte quante le sue prospettive.
Allora, è il rapporto drammatico tra questi due fattori ciò che fa maturare il giudizio, che dà luogo a una posizione culturale adeguata, potendo offrire così un contributo al mondo. E vorrei sottolineare che l’avventura del giudizio, della cultura, è una forma di testimonianza al fatto di Cristo, e può anche andare incontro all’incomprensione e all’ostilità del mondo. Non è che vada per forza incontro al consenso; anzi, come abbiamo già potuto sottolineare nella recente assemblea dell’Associazione dei Centri Culturali.
Giussani si sofferma su questo aspetto nelle battute finali del volume. Lo ritroverete quando cita la lettera ai cristiani d’Occidente di Josef Schwergina, il più grande teologo cecoslovacco del secolo scorso, perseguitato per la sua fede. Lui rivolge una critica esplicita ai cristiani d’Occidente per la loro acquiescenza alle ideologie mondane e ruota tutto intorno alla frase paolina: “Non conformatevi a questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente.” Giussani commenta: “Non conformatevi al mondo, non prendete lo schema di altri divenendone schiavi.”
Questo ci introduce al terzo e ultimo passaggio: la vita come missione.
Nel quinto capitolo di questo testo, Giussani sollecita questo nuovo passo: la realtà del mistero di Cristo che abbiamo incontrato e in cui diciamo di credere resta ancora una realtà fuori di noi, un discorso esterno a noi. Ora, tutto questo deve diventare, l’ha detto prima il professor Brasi-Dinelli, autocoscienza. La realtà a cui diciamo di aderire, in nome della quale ci muoviamo, deve diventare — qui usa parole forti — “struttura del mio cervello, del mio cuore, della mia sensibilità, del mio spirito, del mio corpo.” Questa è la vera immedesimazione con Cristo.
Bisogna, insomma, che quel discorso, che quella parola, sia una parola su di me e che quella realtà sia me. Questa è la conversione: il passaggio a un’autocoscienza nuova. Il contenuto della nostra autocoscienza è un Altro che è me: è il mistero di Cristo, il suo fatto presente nella storia, che coinvolge tutte le persone che Cristo ha chiamato insieme a me. Se non alimentiamo questa autocoscienza, dice, “smarriamo, smarginiamo, sfuochiamo, perdiamo le categorie, perdiamo la faccia.”
Ma come questa autocoscienza può essere sostenuta e alimentata? Qui dice: è un circolo vizioso provvidenziale. È nella comunità che questa edificazione avviene, è attraverso la comunità che siamo nati ed è nella comunità che ci edifichiamo. Allora, il fenomeno di questa conversione, di questa trasformazione — ecco il punto che mi interessa ora evidenziare — si chiama missione. Non è innanzitutto un problema di iniziative da intraprendere, di opere, di attività da svolgere: è la vita stessa che è missione.
Se l’autocoscienza è diversa, se sono un uomo diverso, il fenomeno di questa diversità è la missione. Ma il senso della missione, se non l’ha innanzitutto nei rapporti quotidiani con la moglie, con gli amici, nel lavoro o nei luoghi di vita, non può averlo per la società o per la politica, per la cultura e per il lavoro. Non può averlo. Inversamente, può averlo se l’ha nei rapporti elementari della sua vita. Dunque, la missione definisce la dinamica della vita, con quella interezza che è contenuta nella frase di San Paolo, sempre citata da Giussani: “Sia che mangiate, sia che beviate, sia che dormiate, sia che siate svegli.” Se non è così globale, non è vera. Non è vero il concetto di missione. Non è vera autocoscienza. Non è vita cristiana.
Ma se è globale, certo, arriva alla moglie e al bambino, ma arriva anche alla politica, all’impegno sociale e al lavoro nello stabilimento. Investe, insomma, tutta la vita, senza steccati, senza delimitazioni di dimensioni e di ambiti. Cosa vuol dire che la vita è missione? Vado a concludere. Significa vivere tutto con la coscienza di essere mandati dal Padre e portare il fatto di Cristo, e perciò il fatto della comunione cristiana, ovunque si vada.
Anche noi, nella scia e sull’esempio di Don Giussani, nell’immanenza alla compagnia cristiana che da lui è nata, desideriamo che la nostra vita sia spesa per questo, perché non c’è nulla di più affascinante e drammaticamente corrispondente che portare il fatto di Cristo e perciò il fatto della comunione cristiana dovunque si vada. Il primo frutto di tutto questo è un soggetto nuovo nella storia, una personalità la cui caratteristica fondamentale è un cuore indomito.
Abbiamo visto anche in tante mostre, qui per esempio la mostra del nostro caro Enzo Piccinini, indomito perché libero, libero perché è tutto determinato esclusivamente dall’unico amore della vita, Cristo. Un soggetto che non teme il giudizio degli altri, se non del suo grande amore. Mi viene in mente quello che diceva sempre Bernadette Soubirous quando le chiedevano di convincerli a credere nelle apparizioni di Lourdes, un fatto difficile da accettare per la ragione naturale. Lei rispondeva con la sua semplicità di bambina tutta affidata al suo grande amore e per questo mai scoraggiata dal mancato riconoscimento degli altri: “Non sono incaricata di farvelo credere, sono incaricata di dirvelo.” Grazie.
Mondo. – 1:28:17 – Professoressa Ghisoni, se questa certezza, espressa in maniera anche così calorosa, in qualche modo ci ha presi, ci ha coinvolti, ci appartiene, la sentiamo nostra, prevale tuttavia spesso, anche tra i cristiani, forse in altri momenti, uno scetticismo evidente, anche il peso di una fatica, qualche volta anche la rassegnazione, la disillusione, il senso di impotenza. C’è poco ascolto, è difficile, è complicato, non c’è questo desiderio. Come sollecitarlo? Allora, per il ruolo che lei ricopre, i movimenti nella Chiesa, oggi, in questo tempo che pare così faticoso, in paragone anche a quello di cui abbiamo parlato prima, agli anni lontani, che ruolo possono avere oggi? Perché per qualcuno il ruolo forse non ce l’hanno neanche più, è cambiata la storia. A suo parere, invece?
Ghisoni. – 1:29:23 – Grazie per questa domanda, ma io direi che valga la pena veramente avvalersi di questo libro, perché in esso sono raccolti interventi di Don Giussani che si rivolgono a una platea di persone che viveva in un contesto di tremendo scetticismo, lo scetticismo degli anni del ’68, uno scetticismo ben diverso da quello che attraversiamo oggi. Quello era uno scetticismo molto oppositivo, contro l’autorità, di reazione alle regole, alla tradizione, dunque di grande resistenza, anche molto ideologico. Tuttavia, anche se di matrice ben diversa da quello di oggi, era una platea di persone che vivevano il confronto quotidiano con uno scetticismo. Noi oggi, invece, viviamo quello che Papa Francesco chiama sempre “un grande cambiamento d’epoca”. Il nostro è uno scetticismo forse molto più difficile da afferrare, perché non è così oppositivo; è anche molto contraddistinto dall’indifferenza, da una fluidità o forse post-fluidità inafferrabile. Dunque, è una sfida diversa quella che attraversiamo noi oggi. Pensiamo anche al fatto che a quei tempi, comunque, ciascuno veniva da un contesto che fondamentalmente era cristiano; c’erano alcuni valori di fondo assodati, legati alla famiglia. Oggi, per molti, questo non è così; lei ha parlato di uomo post-cristiano, e ce ne rendiamo conto.
Mi vengono in mente alcune parole che l’allora Cardinale Ratzinger scrisse nella prefazione a un volume di testi di Don Giussani: era un avvenimento di vita. Ecco, per sintetizzare un po’ il pensiero di Don Giussani di quel tempo. Il Cardinale Ratzinger parla dell’utopia e la contrappone al cristianesimo, dicendo che l’utopia, tutto sommato, ha condotto ad avere dei vuoti fantasmi che però allontanano dalla realtà. Il cristianesimo, invece, propone un fatto, un avvenimento certo, un incontro — e oggi se ne è parlato ampiamente — una presenza. Ecco, i movimenti ecclesiali, in questo contesto, è evidente, soprattutto quelli sorti proprio negli anni ’50, ’60, ’70, hanno avuto il ruolo di testimoniare una presenza; testimoniare che vale la pena la ricerca di senso perché c’è un incontro con il Cristo vivo che ti trasforma la vita e da annunciare come corpo, come amici agli altri.
Allora, questo compito storico dei movimenti, che hanno avuto soprattutto in quegli anni, non si è esaurito oggi. È un compito che urge di essere affrontato in modo adeguato all’oggi. All’epoca, i movimenti hanno avuto il compito di annunciare in modo nuovo il cristianesimo, portare Cristo e l’esperienza di Cristo con nuovi linguaggi, con nuovi strumenti. Oggi non è assolutamente venuto meno, ma la sfida consiste — e il professor Prosperi ha citato le parole di Papa Francesco del 15 ottobre del 2022 — nel conoscere gli uomini e le donne di oggi, affiancarli, ascoltarli e proporre con un linguaggio adeguato e nuovo niente meno che Cristo. I movimenti devono annunciare questo; non si tratta ora di inventare nuove ricette, ma non meno dell’annuncio cristiano in questa fluidità, in questa post-fluidità.
La grande sfida dei movimenti è di tenere vivo quello slancio missionario che fa sì che non rimangano solo a conservare ciò che sono stati, a vivere nostalgicamente di testi, di parole, di esperienze vissute. La sfida è quella di, rimanendo fermi e fedeli al contenuto della fede e al carisma specifico di ciascuno, essere dialogici, dialoganti, e incontrare gli uomini e le donne di oggi non preservando uno status quo, ma mettendosi in gioco in una missionarità, in un’evangelizzazione che implica però un aspetto fondamentale. Mi piace chiudere con ciò che Paolo VI scriveva nell’Evangelii Nuntiandi al numero 41: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni”. Ecco, direi che Don Giussani è stato indubbiamente un grande maestro, così come la sua compagnia di amici, ma è stato seguito — e ora come movimento chiede di essere seguito — in quanto testimoni, prima ancora che maestri. Grazie, Monica.
Mondo. – 1:35:42 – Grazie. Professor Bellardinelli, vorrei solo una cosa veloce perché stiamo veramente sforando con i tempi, ma tantissime cose che lei ha citato andrebbero appuntate e approfondite con la riflessione. Mi spiega bene il termine “giudizio” che lei ha utilizzato, come lo intendeva, perché ne ha parlato anche il professor Prosperi, come posizione culturale. Noi sappiamo che la cultura, insieme alla carità e alla missione, è una delle dimensioni importanti della fede. Ecco, c’è spesso un’ambiguità, anche tra i cristiani, che secondo me può portare alla deriva del relativismo, cioè di non capire bene la differenza tra giudizio e pregiudizio. Giudicare la realtà, che vediamo con passione e con attenzione, non è un pregiudizio.
Belardinelli. – 1:36:34 – Una domanda difficile. Io credo che ogni giudizio, nella prospettiva del libro che stiamo presentando, in qualche modo, con molto realismo, ci viene detto che è un pregiudizio. Il problema è che tipo di pregiudizio poniamo a fondamento, qual è la visione che mettiamo a fondamento di ciò che diciamo. Un conto è mettere l’amore o Gesù Cristo come pregiudizio alla base dei nostri giudizi. Altro conto è mettere altri padroni, diciamo così. C’è proprio un saggetto di Don Giussani sul potere, da questo punto di vista, che è interessante, perché se non ci mettiamo alla sequela di Cristo, ci mettiamo inesorabilmente alla sequela di qualcos’altro che non lavora per la nostra libertà. Anche il giudizio cristiano può diventare qualcosa di stantio, qualche volta. Può diventare una struttura che non ha dentro di sé nessuna vitalità, può succedere, nella storia è successo. Io parlavo dell’Europa prima: se c’è un luogo di cristianità diffusa, anche di giudizi cristianamente ispirati, è sicuramente l’Europa. Solo che l’Europa oggi, diciamo la verità, lo accennavo prima, è diventata semplicemente un parassita del giudizio cristiano che l’ha generata, nel senso che abbiamo forme, abbiamo inclinazioni, ma non abbiamo più la forza vivificante del cristianesimo, la forza vivificante di Cristo. Questo è il punto vero. Forse faremmo bene a domandarci ogni volta qual è l’ispirazione profonda dei nostri giudizi. Perché il cristianesimo è veramente, come ha sottolineato anche Davide prima, la generazione di un altro modo di guardare la realtà. Questo è certo, un’autocoscienza nuova. E quanto questa autocoscienza diventi veramente nostra e diventi a sua volta fonte di giudizi sulla realtà, beh, questo non possiamo dirlo a priori. Ce lo dice la realtà volta per volta e ce lo dicono anche gli altri.
Mondo. – 1:39:27 – Grazie Ministra, solo una cosa, scusate anche la fretta, solo una cosa Prosperi, me lo sono perso. È capitato di leggere, studiare, lavorare su questi testi e quindi avevi detto: “Mettiamoli insieme perché vale la pena?” O c’è una volontà precisa di pubblicarlo proprio adesso questo libro?
Prosperi. – 1:39:53 – Allora, sarò molto breve perché ho già rubato più tempo prima: la seconda che hai detto. No, perché… C’è la volontà, ma la volontà deriva dal fatto che Giussani ha detto tantissime cose, ha scritto, ha fatto tante cose e ha fatto fare, ha dato il via a tante cose che sono nate e molto di questo è vero, come ci ha detto il Papa, c’è ancora molto da scoprire. Ma non solo quanto è avvenuto nel passato, il problema è che tutte queste cose in qualche modo trovano una loro traiettoria dentro la descrizione di un’esperienza vissuta, che è l’esperienza cristiana, secondo un modo e un metodo soprattutto di intendere l’esperienza cristiana che è per tutti, non è solo per i ciellini. Allora, per questo motivo tutto questo, che è avvenuto in un certo momento storico rispondendo a delle domande precise, ha in sé un fattore universale. Tanto è vero che vale oggi, tanto è vero che ciò che è nato da lì è continuato a crescere fino ad oggi, diversificandosi anche in tante forme espressive. Come vediamo, il Meeting dove siamo oggi è una delle tante forme espressive di questa esperienza e ha come scopo e quindi come sua autocoscienza quell’origine. Allora questo è il momento in cui Giussani intuisce che quell’esperienza iniziale, iniziata nei banchi di scuola, proposta ai ragazzini delle scuole superiori per non fargli perdere l’entusiasmo per la fede cristiana, in realtà è possibile come traiettoria di una vita; cioè deve diventare, acquistare la maturità di un’esperienza adulta. Così nasce Comunione e Liberazione. Se noi oggi non desideriamo solo andare a rivedere cosa aveva in mente Giussani quando ha avuto questa intuizione, ma qual è l’integralità della proposta che, attraverso questo suo percorso personale vissuto insieme a quelli con cui aveva comunione, con cui viveva questa esperienza, se noi non riviviamo per noi stessi questa cosa, non possiamo continuare a portare avanti un’esperienza come questa. Altrimenti il cuore smette di battere. Allora io dico, questo è un inizio, a questo volume ne seguiranno altri perché c’è tutta una stagione che è ancora da riscoprire.
Mondo. – 1:42:51 – Grazie a Alberto Savorana, a Linda Ghisoni, a Davide Prosperi, a Sergio Bellardinelli, grazie alla vostra pazienza nell’ascolto così attento e partecipe e grazie a tutti i volontari che adesso devono sistemare velocemente la casa per il prossimo incontro. Ma a proposito di cuore, ricordate che ci sono dei punti dove troverete un cuoricino con la scritta “Dona Ora”, perché il Meeting viene fatto da tutti noi, da tutte le persone che vi partecipano, che sono state invitate, che ci lavorano e che godono di questi incontri. In particolare ricordo che in questo tempo, sempre più incognito, ci aiutano a capire, pensare e ragionare su come costruire il dialogo e la pace. Ricordiamo la provocazione del Cardinal Pizzaballa nel suo intervento all’incontro inaugurale. Il Meeting devolverà parte delle donazioni che vengono raccolte nel corso di questa settimana per l’emergenza in Terra Santa. Un motivo in più per passare dai ragazzi che hanno la maglietta “Dona Ora” dove c’è il cuore che batte e dare una mano tutti insieme. Grazie.