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UN BENE PER TUTTI: VALORIZZARE LA PERSONA CON DISABILITÀ A SCUOLA
In diretta su Play2000
A cura di La Mongolfiera ODV e Sostieni il Sostegno
Luigi D’Alonzo, professore ordinario di Pedagogia Speciale, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano; Giulia Guglielmini, presidente Fondazione per la Scuola; Matteo Severgnini, rettore della scuola Regina Mundi, Milano. Introduce Tommaso Agasisti, Politecnico di Milano
Accompagnare i bambini/ragazzi con disabilità nell’avventura educativa a scuola è lo strumento per accompagnarli alla scoperta dell’essenziale di sé: la possibilità di un cammino verso il proprio compimento. Durante l’incontro, saranno anche presentate alcune esperienze positive o critiche viste dalla prospettiva di genitori di figli con disabilità, appartenenti all’esperienza delle associazioni proponenti, anche per suscitare domande e spunti di riflessione per i relatori invitati.
Con il sostegno dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Tracce
UN BENE PER TUTTI: VALORIZZARE LA PERSONA CON DISABILITÀ A SCUOLA
UN BENE PER TUTTI: VALORIZZARE LA PERSONA CON DISABILITÀ A SCUOLA
Sabato 24 agosto 2024 ore 17:00
Auditorium isybank D3
Partecipano:
Luigi D’Alonzo, professore ordinario di Pedagogia Speciale, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano; Giulia Guglielmini, presidente Fondazione per la Scuola; Matteo Severgnini, rettore della scuola Regina Mundi, Milano.
Introduce:
Tommaso Agasisti, Politecnico di Milano
Rachele. – Testimonianza video – 0:09:23 – Buonasera a tutti, mi chiamo Rachele. Sono sposata con Luca, ho quattro figli e il maggiore dei miei figli si chiama Benedetto ed è affetto da una rara sindrome genetica. Ha appena compiuto 18 anni e sono qui per raccontarvi alcuni spunti preziosi della storia scolastica di Benedetto. Per lui, mio marito ed io abbiamo scelto fin dall’asilo nido di iscriverlo in un istituto privato nato dall’esperienza di ICL, perché siamo convinti che in queste scuole lo sguardo alla persona è tentativamente uno sguardo all’umanità intera e si fonda sulla certezza che c’è un positivo che guida la vita. Questa tensione l’abbiamo sempre riscontrata negli insegnanti, ma è capitato che spesso facesse fatica a tradursi in un lavoro adeguato alla persona di Benedetto, e ci sono stati diversi momenti difficili, di incomprensioni. Ci siamo chiesti: perché questa fatica? La domanda rimane aperta; tuttavia, ci è parso che questa difficoltà fosse talvolta legata alla poca esperienza o alla paura di dover affrontare qualcosa di sconosciuto, oppure alla mole di lavoro che uno immagina implichi avere un bambino così speciale. Talvolta abbiamo trovato persone intimorite dall’imponenza del problema e quasi quasi toccava a noi rassicurarle. Come nel delicato passaggio dalle elementari alle medie, incontrando i futuri professori di Benedetto prima di iniziare l’anno, ci dissero che volevano ridurgli l’orario, senza nemmeno conoscerlo. Abbiamo appunto dovuto rassicurarli noi sul fatto che una strada era possibile trovarla e che valeva la pena provare. E i primi mesi della prima media sono stati molto duri. Mi chiamavano una mattina sì e una mattina no per qualcosa che era successo. Piano piano però, mettendosi insieme, con gli insegnanti e accompagnati dal dottor Sangalli, un pedagogista che insegna all’Università di Verona e che conosceva Benedetto fin dalla scuola elementare, è stato possibile accorgersi delle sue potenzialità, così come mettere a tema i punti di maggior difficoltà, elaborandoci e ipotizzare dei passi utili per un cammino scolastico. Ad esempio, riguardo alla relazione con i compagni che alle medie diventa particolarmente faticosa, una professoressa ci disse: “Niente prediche ai ragazzi perché accolgano Benedetto, ma lavori a piccoli gruppi dove anche lui possa portare il suo contributo”. E così qualcuno dei compagni ha iniziato a conoscerlo e si è accorto di lui e gli si è sinceramente affezionato. Poi, finite le medie, il grave problema è pensare alle superiori e noi eravamo veramente spaesati, come in ogni passaggio, ma qui ancora di più. Abbiamo iniziato a girare per tante scuole, anche alcuni licei statali noti per la loro esperienza di inclusione, cento colloqui. Alla fine decidiamo per una scuola professionale che ci piace, ma va a vuoto anche qui perché viene escluso, perché viene fatta un’estrazione, perché i posti erano pochi. E a questo punto, rimasti a piedi, visto che Benedetto comunque a lui piace studiare, anche su consiglio del dottor Sangalli, che ha sempre provato a far alzare la sticella, ci siamo rivolti al liceo scientifico interno all’Istituto, fino ad allora frequentato da Ben. Ci sembrava un azzardo perché è una scuola molto alta, ma abbiamo chiesto al presidente di fare un tentativo e di prenderlo per il primo anno o il biennio; se ce l’avesse fatta, altrimenti in caso si sarebbe cambiato. Il problema è che in quella scuola casi così ne avevano avuti pochissimi nel passato; perciò, gli insegnanti rimangono molto perplessi alla richiesta. Tuttavia, da quel momento un lavoro tra di loro si sono confrontati con colleghi di altre scuole, con il pedagogista, e alla fine questo lavoro li ha portati a rendersi disponibili a prenderlo, anche se si trattava di un impegno totalmente nuovo. Il Presidente mi ha raccontato che, dialogando con Sangalli per decidere, Sangalli gli ha proprio lanciato una sfida, gli ha detto: “Se lo prendete per gli insegnanti sarà impegnativo come avere una classe in più e per i ragazzi dovete mettere in pagella una riga per un voto in più. Quella materia si chiama Benedetto. Ma quello che impareranno tutti attraverso di lui non potranno impararlo nelle altre materie”. Non posso ora dettagliare le tante cose successe che hanno fatto sì che in questi anni di liceo ci sia stata una crescita positiva per lui. Faccio solo un piccolo esempio di una cosa successa quest’anno. Durante le prime settimane si ragionava con i professori riguardo alla biologia e alla chimica, che in terza diventano più astratte e troppo difficili per lui. E tra le idee c’era quella che potesse fare altro o comunque fare un programma diverso. Nel mentre si stava ragionando, lui un giorno torna a casa con degli appunti di genetica che aveva preso in modo sconclusionato e mi dice se lo aiuto a studiare. Proviamo a studiare la duplicazione cellulare e alla fine mi dice: “Vorrei fare un approfondimento sulla mia sindrome e presentarla ai compagni”. Io ero dubbiosa, l’argomento era complesso e delicato, poi davanti alla classe. Ho sentito la professoressa di scienze e quella di sostegno e alla fine abbiamo deciso di aiutarlo. Ha presentato tutto da solo davanti ai compagni, tutto, spiegando la parte di genetica ma anche facendo esempi su di sé delle difficoltà che porta la sua sindrome. Quando sono andata a prenderlo quella mattina era felicissimo, poche volte l’ho visto così felice. È stata per lui la possibilità di rendersi conto e soprattutto di dire di più chi era. E poi la sorpresa, andando a mangiare una pizza con le mamme dei suoi compagni che mi hanno raccontato di come i ragazzi da quel momento avevano cambiato lo sguardo verso di lui, come se non riconoscessero tanto in Benedetto uno che porta una disabilità, ma un’alterità. E tutto a partire da un aspetto di conoscenza che veniva dalle materie di studio. Mi ha colpito questo episodio anche per questo. La scuola vissuta così, come luogo di conoscenza della realtà e di sé, dove gli adulti, insieme, si fanno compagni di strada di chi viene loro affidato. Così oggi, dopo questi anni, in cui pure ci siamo fatti tutti quanti il mazzo, ci troviamo grati nel guardare lo spettacolo di nostro figlio che diventa un uomo. Vi lascio con questa poesia che ha scritto Benedetto a giugno, finita la scuola. Anno fruttuoso, tempo produttivo, giorni interessanti, mesi di serenità, cuori in tranquillità, in pace perché è finito un altro anno importante, giorni felici, mesi di conoscenza, tempo di gioia. Questo tempo io me lo sono goduto, lo ho amato e ho imparato molto. Grazie.
Agasisti. – 0:16:10 – Allora buon pomeriggio a tutti. Abbiamo voluto iniziare l’incontro di questo pomeriggio con la testimonianza di una famiglia perché lo scopo del nostro dialogo oggi non è anzitutto quello di fare un quadro teorico sull’inclusione, ma di guardare all’esperienza delle famiglie con figli speciali nel loro cammino educativo. Oggi dunque parleremo di scuola, parleremo di bambini e ragazzi con disabilità e lo faremo con il desiderio di guardare alle tante esperienze positive che ci sono, ma anche alle difficoltà ancora presenti e da superare. Lo faremo oggi qui con tre personalità che hanno accettato il nostro invito e che ringrazio di cuore. Il professor Luigi D’Alonso dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, uno dei più grandi esperti di pedagogia speciale nel nostro Paese che dirige il Centro Studi e Ricerche sulla Disabilità e la Marginalità. È il coordinatore nazionale dei direttori dei corsi di specializzazione per gli insegnanti di sostegno. Luigi D’Alonso. La professoressa Giulia Guglielmini, Presidente della Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo, da molti anni si occupa di disabilità, di metodologie di insegnamento efficaci, di governance, di innovazione di scuola e d’alta complessità. Ha partecipato a numerosi gruppi di lavoro presso il Ministero dell’Istruzione e per il suo lavoro nel campo dell’educazione ha ricevuto l’onorificenza di Chevalier dell’Ordre des Palmes Académiques su iniziativa del Ministero dell’Educazione francese. E il professor Matteo Servignini, rettore della scuola Regina Mundi di Milano, con un passato recente di direttore della Luigi Giussani High School a Kampala, e oggi responsabile di Gioventù Studentesca. Allora, questo incontro è promosso da due associazioni che si sono date come scopo proprio quello di accompagnare le famiglie nel loro cammino, le famiglie con figli con disabilità nel loro cammino, in particolare in ambito educativo. Sostegno il Sostegno, che opera in Lombardia dal 2009, e La Mongolfiera ODV, nata in Emilia Romagna ormai dal 2011. Noi oggi vogliamo affrontare alcune questioni che sono emerse proprio dal dialogo, dall’esperienza con le famiglie che fanno parte di queste associazioni. È una sorta di condivisione delle domande che con queste famiglie sono emerse. Accade spesso che le famiglie che incontriamo si trovino sole di fronte ai passi che devono compiere nelle loro scelte anche educative. E non è sempre scontato che le scuole riescano a stare al loro fianco in questi passi. Talvolta, come abbiamo sentito, le scuole sono disponibili ma impreparate. L’esperienza delle famiglie con le scuole talvolta è fatta di incomprensioni, fatiche ed illusioni. Ma altre volte, invece, ci sono relazioni costruttive, belle, positive, come ha testimoniato Rachele in apertura di questo nostro incontro. Noi vogliamo guardare a queste esperienze per imparare, per trarre indicazioni su quali siano i passi da compiere, per rendere l’avventura educativa un percorso sempre più bello e profondo per i nostri figli speciali. Noi siamo pienamente coscienti che ogni bambino ragazzo ha una storia a sé, che ciascuna disabilità richiede di costruire un percorso di formazione personalizzato. Ogni bambino, ogni ragazzo, ogni persona merita uno sguardo particolare. Come unico e irripetibile è il suo contributo al mondo e il suo percorso di compimento. Ci sono però dei temi ricorrenti e delle condizioni anche nella vita delle scuole che vogliamo guardare e su cui ci vogliamo confrontare insieme. Io vorrei evidenziare due punti, molto sinteticamente, che ci sono emersi come importanti nel dialogo con le famiglie. Il primo è che nelle classi e nelle scuole in cui ci sono bambini speciali, tutti i bambini fanno una grande esperienza di ricchezza, di profondità, di amicizia, di apertura senza eguali. È per questa ragione che abbiamo voluto chiamare questo nostro incontro “Un bene per tutti”. E il secondo punto è che la responsabilità che viene imposta alla scuola è quella di provare ad identificare dei percorsi per i bambini e i ragazzi speciali che abbiano a che fare con la loro educazione, la loro cura, la loro crescita. Allora vogliamo iniziare da questi due punti di lavoro, con un paio di domande a cui vi chiederei di reagire. La prima è questa. Perché includere gli studenti disabili nelle classi ordinarie, come è previsto in modo innovativo dal nostro ordinamento scolastico già da tanto tempo, è un valore positivo per questi bambini e ragazzi, ma anche per i loro compagni di classe e per tutta la comunità scolastica? E poi quali obiettivi educativi devono essere posti al centro dell’azione della scuola per favorire un loro sviluppo integrale oggi e per il loro futuro? Comincerei da Luigi e poi Giulia e poi Matteo.
D’Alonzo. – 0:21:33 – Grazie, grazie mille, grazie per l’invito. Io partirei da un’esperienza che ho vissuto a Bruxelles, molto forte. Eravamo a Bruxelles per un progetto di ricerca europeo, non tanto sulla scuola, anche se la scuola contava molto. Progetto di ricerca europeo con i colleghi turchi, francesi, olandesi, spagnoli, tedeschi. Questo progetto è un progetto che è tuttora molto valido e che voleva in qualche modo arrivare a comprendere, a capire come aiutare i ragazzi con disabilità intellettiva e con autismo a salvarsi durante le grandi tragedie che possono accadere, terremoti, alluvioni, esondazioni, fuoco, eccetera. Ma non ve lo racconto, perché a un certo punto la collega tedesca, importante associazione tedesca sui bambini Down, a un certo punto si è alzata in piedi e mi ha indicato. Io mi sono un po’ spaventato, perché quando le persone ti indicano col dito, soprattutto se sono straniere, io mi spavento. E questa collega mi fa: “Luigi. Voi italiani avete una grande responsabilità perché siete il faro del mondo dell’inclusione”. Ci ha definiti “faro del mondo dell’inclusione” e questo è vero. Perché? Per quale motivo? Perché in Italia la scuola o è inclusiva o non è scuola. Ma anche l’università, o è inclusiva o non è scuola. Ma perché questa scelta così totale, così inclusiva? Il motivo a mio parere è fondamentalmente di tipo pedagogico e civile. La persona con disabilità non è il suo deficit, non si identifica con la sua cecità, con la sua sordità, con il suo autismo, con il suo disturbo fisico. Ma la persona con disabilità è una persona e come tale, come diceva Rosmini, non ha il diritto ma è il diritto, ossia ha una dignità umana che non è elargita dagli altri, ma in sé proposta a tutti perché nasce con lei in quanto persona fatta immagine di Dio. L’apertura delle nostre scuole alle persone con disabilità. Con l’apertura abbiamo dato attuazione anche all’articolo 3 della nostra Costituzione, che dice che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione. E anche l’articolo 34 della nostra Costituzione dove si cita che la scuola è aperta a tutti. Questi due articoli fondono il concetto di inclusione, lo innervano, sottolineando il diritto alla pari dignità e il dovere di accettare nella scuola proprio tutti, compresi coloro che a causa di condizioni personali hanno bisogno di più aiuto e di più competenza. Per lungo tempo la nostra società civile ha pensato di poter aiutare le persone con disabilità proteggendole dal mondo come in istituzioni chiuse, in scuole speciali, in classi differenziali. Pensate che all’inizio degli anni ’70 erano operanti circa 1400 scuole speciali in Italia, con circa 8000 classi differenziali e con ancora oltre 40.000 persone in istituto. Ma abbiamo capito che questo è sbagliato e dobbiamo sottolinearlo che è sbagliato. Non si prepara la vita se non si cresce nella vita. Perché? Perché la vita è un porto di mare e nel porto di mare ci sono tutti. C’è il riccone con lo yacht, con l’elicottero, ma c’è anche la povera massaia, c’è anche il povero pescatore, perché la vita è davvero un porto di mare. E se guardiamo con occhi attenti e sereni a questi lunghi anni, sono più di 50 anni, che noi abbiamo aperto le porte delle nostre scuole alle persone con disabilità, constatiamo che il cammino effettuato non è stato vano e questa scelta si impose con tutto il suo valore. Non è stato vano perché? Perché abbiamo capito tante cose. Abbiamo capito che la persona con disabilità può stare con gli altri suoi compagni. Abbiamo capito, e questo ce l’ha fatto capire la persona con disabilità all’interno della classe, che dobbiamo abbandonare i vecchi metodi tradizionali se vogliamo arrivare a tutti e soddisfare i bisogni dei nostri allievi. Abbiamo capito che se vogliamo lavorare bene nelle nostre scuole dobbiamo lavorare insieme in piena unitarietà di intenti, scardinando i vecchi riti tradizionali dove il singolo docente faceva tutto. No, dobbiamo lavorare insieme. Abbiamo capito soprattutto che occorre cambiare anche il nostro modello tradizionale di fare didattica. Infatti nelle scuole dove si lavora bene attualmente, ce ne sono dove si lavora bene, noi vediamo insegnanti capaci di innovare la propria didattica, capaci di non aver paura di abbandonare il castello della cattedra, di entrare a contatto con i propri ragazzi, di creare innovazione. Sì, perché dove si lavora bene abbiamo visto che i risultati si possono ottenere, si possono ottenere con gusto. D’altra parte, abbiamo anche la prova che questi 50 anni non sono stati vani ma abbiamo raggiunto risultati eccellenti sul piano inclusivo. E dove l’abbiamo la prova? L’abbiamo al termine della filiera scolastica, a mio parere, in università. Abbiamo oltre 36.000 persone certificate che attualmente sono iscritte in università e frequentano i nostri corsi, nonostante il loro deficit, nonostante le loro problematiche. Questo perché? Perché l’Italia è stato il faro del mondo dell’inclusione.
Guglielmini. – 0:28:33 – Sì, dunque, io sono qui oggi, arriva anche una fotografia, rappresento anche Davide che è mio fratello, adesso lo vedrete, eccolo qua, è mio fratello, ha 52 anni, una grave tetraparesi spastica, dovuta a un trauma perinatale. Grazie all’intelligenza dei miei genitori, in particolare di mia madre. In famiglia siamo tre figli e diciamo che io mi occupo di scuola, l’altro fratello fa il medico e Davide fa il disabile. E lo diciamo con profondo rispetto, ma è come se fosse una professione, cioè è un suo modo di essere in famiglia ma è un suo modo di essere e lui da 52 anni fa il disabile per come riesce ma con grande serenità anche con grande tranquillità. Oggi non vi voglio parlare di Davide ma certamente quello che vi racconterò è anche influenzato da quello che lui in questi 52 anni ha condiviso con noi, con le sue modalità, con le sue possibilità. Inclusione. Nel 1977 la chiamavamo integrazione degli alunni portatori di handicap. Mi ricordo molto bene quella legge, ho iniziato come insegnante di sostegno. Però sì, l’inclusione, quella legge, ha trasformato la scuola italiana, quindi un grande processo di innovazione. Forse non eravamo così consapevoli quasi 50 anni fa, ma lo è stato. Io credo davvero di poter testimoniare questo cambiamento avendolo vissuto non solo in famiglia, ma anche nella scuola. Un processo importante che soprattutto ha apportato che cosa? Nella mia esperienza, ma in quello che ci dicono anche le indagini internazionali, quelle dell’OCSE, che vanno a valutare in particolare le competenze trasversali, quelle che tecnicamente l’OCSE chiama competenze socio-emotive, quello che ci viene detto è che le classi all’interno delle quali c’è un alunno o più portatori di disabilità, sono classi in cui certamente tutti sviluppano con più facilità le competenze socio-emotive, che sono quindi quelle trasversali, ci abituano a collaborare meglio con gli altri, a essere empatici, a essere creativi, a essere tolleranti, a essere più capaci di riconoscere le nostre emozioni e più capaci quindi anche di gestirle nel senso proprio di raggiungere quell’equilibrio, quel benessere che è necessario quando siamo a scuola ma non solo a scuola e quindi la comunità scolastica tutta, dico tutta, ha un potenziamento delle competenze trasversali, il bidello come l’assistente amministrativo, tutti i genitori e quindi non c’è solo un bene per gli alunni tutti ma per tutta la comunità scolastica che, più solidale, immagina un mondo più equo perché alla fine questo è quello che succede nelle scuole in cui cerchiamo davvero di operare nell’interesse di inclusione. Il termometro che io utilizzo per analizzare un po’ una classe e quindi un istituto rispetto al livello di inclusione è la programmazione delle gite scolastiche. Perché guardate che da quello si vede la capacità di pianificare e di volere fortemente includere tutti gli alunni di una classe. Non si può arrivare ad aprile a dire: “Come facciamo ad andare in gita lì se non può venire Tizio, Caio e Sempronio?” Quindi quello è un modo in cui possiamo capire molto bene che è la preparazione, la programmazione, la pianificazione di che cosa? Del contesto. Oggi ci sono moltissime associazioni, siti che ci permettono di andare a fare le famose gite di istruzioni ovunque tutti gli alunni di una classe. È possibile e quindi questo dobbiamo pensarlo possibile. Perché? Perché se lavoriamo sul contesto, questo ci insegnano i disability studies. Sono degli studi che sono nati in Inghilterra nel 1970 circa, poi negli Stati Uniti, e sono quel modo di interpretare la disabilità da un punto di vista sociale, un approccio sociologico di costruzione delle relazioni, laddove, a partire da un certo Donald Mays, quello che possiamo fare non è tanto cercare di capire quali sono i bisogni della persona con disabilità, oppure certamente sì, ma forse ancora di più cercare di capire come dovrebbe essere il contesto affinché possa essere la vita e in questo caso a scuola l’apprendimento di tutti gli alunni a prescindere dalle diversità. Alcuni adesso le chiamano nemmeno le neurodivergenze ma le neurodiversità. Le classi italiane oggi sono ancora di più ricche di neurodiversità e quindi quale può essere questa idea di educazione? Lavorare di più sul contesto, quindi non tanto come dovrebbero essere, quali obiettivi specifici, il PEI, insomma sappiamo benissimo tutta la questione, ma come il contesto potrebbe essere più accessibile a tutte e a tutti. Quale può essere l’accomodamento ragionevole? Questo è quel concetto fondamentale che ci permette di modificare il contesto e di renderlo accessibile davvero a tutti, non teoricamente, ma anche nella pratica. Pensate agli scivoli. Nelle scuole abbiamo iniziato così nel 1977. C’erano le scale, c’era l’ascensore, hanno incominciato a essere presenti gli scivoli. Ora l’idea dei disability studies è proprio che se immaginiamo la scuola e vogliamo entrare a scuola in realtà tutte e tutti possiamo utilizzare gli scivoli. Non per forza qualcuno deve utilizzare le scale e qualcun altro deve utilizzare gli scivoli. Ci sono delle modalità che vanno bene per tutti ed è su queste modalità che la scuola può fare la differenza. Sono assolutamente d’accordo sul fatto che l’inclusione è stata anche un’occasione per la scuola italiana di sperimentare metodologie didattiche assolutamente innovative che hanno permesso di imparare meglio non solo agli alunni con disabilità ma davvero a tutte e a tutti. Quindi l’idea del contesto è proprio un’idea che deve essere lavorata attraverso ovviamente l’impegno. Sì è vero è necessario coinvolgere in primo luogo i portatori di disabilità intanto perché la disabilità per alcuni è una situazione cronica e stabile, ma tutti noi possiamo vivere dei periodi di disabilità e quindi più la disabilità fa parte di quello che è la vita e tutti impariamo nella fatica, a volte nella disperazione, la solitudine, a superare, ad affrontare quello che può essere la disabilità, temporanea o no che sia, più ci raccogliamo intorno all’idea di poterla affrontare e più io credo che davvero la nostra scuola italiana possa continuare a essere inclusiva, un faro per tutto il mondo e lavorare per ancora di più il contesto, quindi cambiare le domande. La domanda è come possiamo essere capaci di insegnare a tutte e a tutti. Grazie.
Severgnini. – 0:36:34 – Buonasera, io volevo affrontare la domanda posta: perché è importante accogliere questi bambini, questi ragazzi preziosi e speciali? Che è come dire quanto un io può costruire un noi, quanto fa crescere un noi. E la ribalto anche: come un noi può far crescere sempre di più un io. Perché è quello che io esperimento ormai da 20 anni nelle scuole. Queste due binari vanno insieme, perché non sono due binari, è una comunità. Dentro una comunità educante emerge un io e questo io continuamente ridona significato alla comunità educante. Allora io a queste due domande vorrei proporvi due episodi che mi sono capitati, che mi hanno fatti capire dove sta l’importanza. Il primo episodio vuole rispondere alla domanda come un noi può far crescere un io, un io speciale. Io ho vissuto in Africa per dieci anni e mezzo, quindi non parlerò adesso della scuola italiana, a cui sono ritornato soltanto da un anno e mezzo. In Africa avevamo un’opera che si chiamava Welcoming House dove poliziotti portavano bambini, anche molto piccoli, trovati per la strada abbandonati. Questa è la prima vera disabilità, la solitudine e l’abbandono. E li portavano in questa casa dove altre mame accoglievano questi bambini. E io andavo la domenica, il sabato, tutti i sabati andavo lì perché li facevo giocare, facevo i compiti con loro e poi gli ho fatto vedere tutti i film della Pixar e della Walt Disney. Ma mi colpiva perché questi bambini quando arrivavano, la cosa mi metteva un po’ a disagio perché questi bambini pur piccoli non ridevano e non piangevano mai. Non ridevano e non piangevano e io non riuscivo a capire il perché e all’inizio allontanavo questo disagio, al quale andai dalla direttrice della Welcoming House che si chiama Rose che è un’infermiera e chiesi, consegnai questa mia domanda a questo mio disagio e lei mi disse: “Ma Matteo, ma questi bambini fino ad oggi non hanno mai avuto nessuno per cui e con cui ridere, per cui e con cui piangere”. E mi colpiva perché dopo mesi in questa Welcoming House, accuditi dalle mamme accolte a loro volta da Rosa, questi bambini finalmente ridevano e finalmente piangevano. Cioè l’esempio di un noi che dice di un’appartenenza così come sei, perché così come sei puoi fare il cammino al destino che ti è promesso. Ho un altro episodio che risponde all’altra domanda: un io che costruisce un noi, che fa crescere un noi. E questo l’ho visto proprio con i miei occhi nella nostra scuola, io sono nuovo e lavoro alla Regina Mundi a Corvetto a Milano e esattamente l’anno scorso una famiglia si presentò dicendo che voleva iscrivere la propria figlia nella nostra scuola e questa figlia adottata con sindrome fetoalcolica, adottata dopo 8 anni di orfanotrofio nell’Est Europa, quindi una situazione molto difficile. Questi due genitori che vanno ad adottarla la portano a casa, non si capiscono, non parlano la stessa lingua. E a un certo punto, dopo poche settimane, questa bambina di 9 anni apre la finestra della cucina e comincia a urlare qualcosa che ancora i genitori non riuscivano a capire. Una sola parola. Una sola parola. Alché dopo qualche giorno che lei apriva la finestra della cucina e urlava questa cosa, i genitori cominciano a intuire sostanzialmente che questa bambina urlava, adesso cambia il nome, Elisa, urlava il suo nome perché dopo otto anni per la prima volta questi genitori l’avevano chiamata per nome e lei si sentiva autorizzata ad aprire la finestra e a urlare a tutti: “Io sono di qualcuno ora, io ho un nome, io sono Elisa”. Perché questo secondo me è l’aspetto di crescita che un io porta in una comunità educante: io sono Elisa e sono qui per urlare il mio nome e dirti che ci sono e sono tua. Perché di fronte a queste persone noi abbiamo un’opzione. La prima è aver paura e fuggire perché loro non possono nascondere quello che noi nascondiamo, il limite. E questo a noi ci fa paura o dall’altra poterli abbracciare perché ci dicono della nostra condizione umana, io sono bisogno, io sono dipendenza, io senza di te non ci sono, io senza di te non sono Elisa. E allora star di fronte a questo è ciò che continuamente riabilita ciascuno a star di fronte alla grande domanda di significato che la scuola deve poter affrontare sempre. Ma io, chi sono? Io, che valore sono? Ed è soltanto uno che continuamente manifesta questa dipendenza e urgenza che richiama tutti a essere seri umanamente, didatticamente, professionalmente, cioè di fronte alla vita, come lo è Elisa, come lo sono i bambini della Welcoming House, come ci ha raccontato prima la mamma di Ben. Ho finito il mio tempo. Grazie.
Agasisti. – 0:44:04 – Prima di passare al secondo giro di domande, abbiamo un contributo video. Abbiamo chiesto a Renzo Vianello, già professore ordinario di psicologia dello sviluppo e dell’educazione dell’Università di Padova, di raccontarci gli esiti di alcuni suoi studi e in particolare l’esperienza sui risultati positivi che si possono ottenere attraverso l’educazione dei bambini e dei ragazzi con disabilità intellettive. Oltre al lavoro accademico, il professor Vianello si è sempre implicato nel concreto, nel costruire percorsi, scuola, famiglia in tante parti d’Italia, quindi anche una grande esperienza sul campo. Ci è sembrato un tema importante per mostrare come anche la ricerca scientifica mostri l’enorme potenziale di un cammino positivo per i nostri figli speciali.
Vianello. – In Video – 0:44:55 – Propongo alcune riflessioni, alcuni dati, relativamente all’inserimento dei bambini con disabilità, in modo particolare con la sindrome di Down a trisomia 21. La prima riflessione riguarda l’influenza dell’ambiente sullo sviluppo dell’intelligenza nella sindrome di Down. Abbiamo tre ragazzi di 18 anni, paragonabili tra di loro, ma col passare degli anni però le cose cambiano. Tanto che a 18 anni noi vediamo differenze notevoli, però vedete, Barbara 45, Carlo 27, per chi hanno vissuto in ambienti educativi diversi e quindi l’ambiente influisce molto. La seconda riflessione riguarda il fatto che le abilità adattive nella sindrome di Down tendono ad essere superiori a quello che tu prevederesti sulla base dell’intelligenza che tu vedi. Questo l’abbiamo chiamato, io l’ho chiamato, l’effetto surplus, cioè c’è un surplus rispetto a ciò che tu immagini data la loro intelligenza. L’altra riflessione che vi propongo è questa. Noi abbiamo scritto un articolo che avevamo proposto, a livello internazionale, sull’effetto surplus. La domanda cruciale era perché noi lo troviamo nel resto del mondo un po’ meno e noi abbiamo formulato un’ipotesi, forse perché i nostri vanno tutti in classe normale. Quindi in classe normale qui non è scritto che stanno bene, c’è scritto che se fosse una scuola speciale sarebbero peggio. Ma in che cosa stanno bene? Prima imparano di più, poi progrediscono di più nell’evoluzione relativa dell’autonomia, in quello sociale, è l’effetto surplus. In che aree? La prima area è dell’amicizia. Uno dice, ma scusa, non fa più amicizia se gli altri sono come te, tu sei disabile anche loro, pare di no, nei rapporti sociali, ha migliori rapporti sociali. Stanno meglio quando sono coetanei, sono più accettati socialmente, distruttivo. Possiamo concludere che hanno la miglior qualità della vita. Non sto dicendo che è ottima, sto dicendo solo che è migliore. Ci sono delle ricerche che evidenziano come i compagni non sono danneggiati. Uno dice, ma come, pensano di dietro quelli con disabilità sacrificano i nostri figli? Non è vero. Ci sono delle ricerche che dicono che le prestazioni scolastiche sono equivalenti. Altre ricerche che dicono che sono addirittura superiori, come se nelle classi in cui sono inseriti ci fosse un qualcosa in più che in qualche modo aiuta un po’ tutti. Da queste ricerche emerge anche quali sono le classi ottime. Prima è ovvio quasi che è importante che ci sia programmazione e monitoraggio, cioè tu controlli ogni volta com’è la situazione. Poi che bisogna modificare l’istruzione. C’è poco da fare, l’istruzione non è più quella prima del ’94, non può essere, perché adesso sono classi per tutti, non per gli eletti. E ti vuole una didattica flessibile. Ma guardate che bello, buoni, indipendentemente dalla presenza di allievi con disabilità. Non è che tu sei flessibile e hai con noi. Ormai il tuo stile è l’insegnamento. Questo è bellissimo. Un atteggiamento accogliente nei confronti di tutti gli allievi. L’ultimo messaggio per gli insegnanti, dell’ultima slide. Le classi migliori sono quelle in cui gli insegnanti danno per scontato che l’istruzione delle allievi con disabilità è normale, la responsabilità di un insegnante. Abbiamo fatto anche delle ricerche per tanti anni, 30-40 anni, un posto di atteggiamenti e mi sembra opportuno proporre anche questa cosa. Gli atteggiamenti nei confronti delle leggi con disabilità degli insegnanti, abbiamo cominciato fino agli anni ’70, che hanno avuto un’esperienza diretta, sono risultati chiaramente migliori di quelli dei colleghi senza esperienza. Non è una cosa da poco, perché questo significa che chi non ha esperienza si immagina problemi superiori a quelli che in realtà ci sono e constatano quelli che hanno esperienza, mi sembra molto interessante. Una bella riflessione riguarda anche i coetanei, tutti, quasi tutti, 90% dalle ricerche sempre, e ti dicono chiaramente che l’esperienza di integrazione è, dicono loro, innanzitutto utile proprio a noi, in quanto favorisce una migliore comprensione e accettazione delle differenze individuali. E infine, le ultime cose riguardano i genitori di bambini e ragazzi con disabilità. Loro confermano la positività dell’inserimento per i loro figli. Certo, poi critiche se ne possono sempre fare, ma noi dobbiamo avere presente il trend generale, ok? Bene, anche su questo vi invito a riflettere.
Agasisti. – 0:49:49 – Allora, mi pare che questo video vi abbia ripreso alcuni dei temi che abbiamo discusso nel primo giro di domande. Allora vi chiederei una seconda riflessione a partire da questo interrogativo. Stanti questi benefici che abbiamo discusso, che abbiamo messo in luce, che abbiamo evidenziato, quali sono i principali ostacoli nella vostra esperienza di natura culturale, organizzativa, didattica, economica, per favorire una reale inclusione dei bambini con disabilità, dei bambini e ragazzi con disabilità nelle scuole? Quali sono nella vostra esperienza le strade per provare a superare questi ostacoli e questi problemi? Vi chiederei un breve intervento, qualche minuto ciascuno, riprendiamo sempre da Luigi.
D’Alonzo. – 0:50:43 – Quali sono i principali ostacoli? Sto vedendo una cosa nella scuola, una grande sofferenza, una grande crisi, soprattutto divisione. Una crisi di visione. Io sto notando che molti dirigenti, molti collegi docenti stentano a capire le vere ragioni di lavorare in un certo modo. Questo forse è causa del fatto che viviamo in un mondo complesso, in un mondo molto difficile ed è per questo che io dico sempre a tutti che chi deve parlare di scuola dovrebbe respirare la polvere delle scuole. Non parlare di scuola solamente perché si ricorda di quando andavano i tuoi figli a scuola, no, devi respirare la polvere delle scuole. Cosa intendo dire? Intendo dire questo: anche che se ti manca quella visione ti manca anche una cosa fondamentale che realizza quello che prima lui diceva, ossia riconoscere il tuo bambino, il tuo ragazzo, il tuo allievo. E a mio parere è la passione per il tuo lavoro, la passione. Egle diceva che niente di grande è stato compiuto, né può essere compiuto senza passione. Ma anche Don Milani, quando divenne un pochettino un po’ famoso, arrivavano i giornalisti e gli chiedevano come fai a fare scuola. Lui si arrabbiava, era un prete, ma si arrabbiava. Si arrabbiava e diceva: “Non chiedermi come faccio a fare scuola, chiedimi come bisogna essere, essere per fare scuola”, ossia la passione. Dobbiamo lavorare su questo perché un insegnante può fare la differenza, un insegnante che riconosce i bisogni dei propri allievi può fare la differenza. Noi insegnanti possiamo essere benedizione per i nostri ragazzi. I ragazzi infatti non apprendono da coloro per i quali non nutrono attrazione. E come fai tu ad attrarre i ragazzi verso di te? Come fai se non hai passione? Se non li sai affascinare col tuo modo d’essere? E infatti l’insegnante che non ha cordialità al giorno d’oggi non ottiene risultati. Cordialità che significa incontro di cuore, vero? Il cuore, ti mette il cuore in mano. E allora cosa bisogna fare? A mio parere abbiamo una formazione professionale degli insegnanti ridicola, ridicola. Dobbiamo impostare meglio la formazione degli insegnanti. La scuola sta vivendo una grande crisi, stanno esplodendo in tutta Italia, ne parlavamo prima anche il correttore, le problematiche comportamentali, ma non degli allievi con disabilità. Il problema ormai in molte classi non sono più gli allievi con disabilità, ma sono gli altri, ragazzi difficili, ragazzi educati male, che io chiamo male-trattino-educati, ragazzi stranieri che non parlano la nostra lingua, ma che hanno bisogno di supporto ulteriore, ragazzi difficili, ansiosi, abbiamo bisogno di capire come lavorare bene in questi contesti, se no l’inclusione non la facciamo. Dobbiamo gestire bene le nostre classi e per gestire bene le nostre classi occorre una profonda formazione, perché sappiamo lavorare bene, sappiamo come si include, sappiamo come gestire la classe, sappiamo come lavorare bene per tutti. E la via di uscita qual è? La via di uscita, a mio parere, io vedo il futuro in questo, è la differenziazione didattica, ossia in classe non avere un’unica testa, ma pensare che ci sono 20-25 teste. E tu hai bisogno di pensare ad ognuna di loro, non facendo 25 programmi, perché neanche Nembo Kid riuscirebbe, neanche Superman. Però a pensare ai bisogni specifici dei miei ragazzi, dei miei bambini, questo è possibile. La via è la differenziazione didattica.
Guglielmini. – 0:55:21 – Grazie. Io mi concentro invece un po’ sulla questione dell’orientamento. Che cosa succede dopo la scuola? Perché la famosa domanda “Che cosa farai da grande?” Già, che cosa farai da grande? Allora non siamo ancora pronti, anche se ci sono esperienze meravigliose, a gestire il dopo. Per alcuni anche il dopo scuola secondaria di primo grado, per altri il dopo scuola secondaria di secondo grado, per altri per i numeri prima citati il dopo università. Ma il dopo? Dove finisce la Convenzione dell’ONU del 2006 sui diritti, diritto all’autonomia, diritto alla vita indipendente, diritto all’autodeterminazione? Su questo dobbiamo lavorare. Certamente è difficile, è difficile a quella domanda “Che farai da grande?”, tutti siamo stati in difficoltà e tutti sappiamo che non è una domanda facile, ma è una domanda che non viene nemmeno posta se il futuro non si immagina, soprattutto un futuro possibile. Allora quello che abbiamo visto e hanno usato in questi anni è la capacità di fare rete, fare rete davvero. Tavoli, tavoli informali, sì, tavoli informali ancora di più, riunioni, sì, ma anche gruppi di WhatsApp se funzionano. L’importante è che ci si trovi intorno a un problema, per esempio, come potrà essere la vita indipendente di Giulia? Come potrà essere? Dobbiamo provarla e immaginare. E più la rete sarà di tipo territoriale, cioè davvero costruita nell’ambiente intorno a Giulia, e più potrà avere un senso. Conosco storie in cui l’associazione dei commercianti ha fatto la differenza, tollerando che alcune persone con disabilità potessero andare a fare la spesa da soli e farla come riuscivano, sapendo che c’era una rete che era voluto, che era una possibilità coordinata, gestita, ma curata, nutrita, perché alla fine queste reti devono essere curate, qualcuno dice, come dei fiori di serra. Fiori di serra fanno fatica, bisogna essere un po’ più capaci, non avere solo il pollice verde, però poi sono meravigliosi, esattamente come gli altri. Quindi io credo che si debba parlare di più di orientamento, le competenze orientative devono essere favorite anche per alunni e alunni con disabilità, si deve parlare, si devono trovare dei percorsi possibili, bisogna pianificarli, programmarli, tutti devono essere coinvolti, dall’amministrazione comunale, il ministero, la scuola stessa, la comunità dei genitori, la famiglia, per esempio il territorio, la circoscrizione, perché più poi riusciamo a lavorare nel piccolo e più davvero ci sono delle possibilità che abbiamo visto, che bisogna poi sempre monitorare, bisogna curare, bisogna osservare, però sono possibili, le storie, tante storie, sempre di più ci sono e io credo che questo davvero possa essere l’essenziale di cui abbiamo bisogno, poter guardare al futuro insieme con alunni e alunni con disabilità insieme con non da soli.
Severgnini. – 0:59:08 – Io per poter rispondere a questa domanda ho messo giù tre punti veloci. Il primo è già stato detto, l’esigenza di formazione. Cioè che ci sia il desiderio, innanzitutto, che adulti possano sentire l’esigenza di imparare, di essere formati di fronte a quello che la realtà ti sta chiedendo, che è diversa da quello che hai in mente, l’hanno già visto e lo stanno vivendo i genitori di questi bambini, e tu sei di fronte a qualcosa che non avevi preventivato, un imprevisto, per i tuoi schemi, ma non è imprevisto per Dio, e tu ti tiri indietro. Un aspetto sicuramente è la formazione comune. A me colpisce che alle medie nella nostra scuola tutti i bambini speciali non vengono presentati all’inizio dell’anno soltanto agli specialisti, soltanto al consiglio di classe, ma vengono presentati a tutto il collegio docenti. Affinché quello possa essere accolto da tutti, perché quel bambino è di tutti. Ma allora deve esserci una formazione mirata a chi ha il compito per fare questo, ma che a cascata tutti possano non avere paura di quello che è quel dono prezioso che è fuori dai tuoi schemi. Secondo aspetto, l’esigenza economica. Noi lavoriamo in una scuola paritaria. Gli aiuti che arrivano coprono sicuramente la primaria, ma alle medie le superiori vengono aiutati per un terzo. Chi aiuta per i due terzi mancanti? Questa è un’altra problematica che fa il paio con la formazione e mi colpisce perché all’esigenza estrema di un io che si presenta desideroso di conoscere tutto e conoscersi si può mettere davanti un aspetto che di persa non dovrebbe esserci, non ho i soldi per accoglierti. Mi colpisce che alla Regina Mundi si diventa creativi perché una volta che tu capisci che è un valore l’accogliere, allora non tiene l’aspetto economico, si cerca insieme, borse di studio, si chiede agli amici, si chiede alla famiglia stessa di contribuire per come si può, altrimenti facciamo. Questo è un altro aspetto che vi chiama a una comunionalità, a una comunione, a un villaggio. Terzo aspetto, esigenze, un’esigenza organizzativa e didattica. A me colpito, tornando dall’Africa, come a volte si intenda, ed è anche giusto, che l’inclusività sia far partecipare ai bambini speciali alla vita della classe. Quindi ogni tanto perché si ha l’esigenza che loro possano stare di fronte e si sentano inclusi. Ma l’inclusività non è soltanto dei bambini speciali. La vera inclusività, cioè la vera accoglienza ad cumlegere, legare insieme, legare ciò che è sparpagliato, richiede la libertà di un rapporto. Io ti accolgo, lascio spazio dentro di me per te, e tu la libertà di essere accolto in un rapporto nuovo. Ma allora l’inclusività non è soltanto che i bambini speciali entrano in classe per imparare, ma come tutta la classe impara da te. Non è detto allora che bisogna creare nuovi spazi. La classe standard probabilmente deve essere ripensata. Nuovi laboratori dove si entra ma si esce insieme. A me ha colpito sempre da noi alle medie e finisco prendo 30 secondi in più del tempo se posso, una bambina, una ragazza che ha fatto un percorso da noi alle medie con sindrome della Cornelia de Lange e che per tre anni ogni giorno lei sceglieva due compagni di classe che potessero uscire alla prima ora a fare colazione con lei. All’inizio un disagio di tutti nel star di fronte a una bambina così, nel tempo, nella convivenza, nella condivisione di quell’atto, la possibilità esplosa di un’amicizia. I bambini facevano una gara a essere scelti e da lì la condivisione del cosa ti piace di musica, cosa ti piace dipingere, hanno cominciato ad usare l’ora della colazione a dipingere insieme. Alla fine dei tre anni è uscito un libricino dove a ogni disegno fatto da questa ragazzina insieme ai suoi compagni un pensiero di come i suoi compagni, di cosa i loro compagni avessero imparato da questa ragazza, creatività nuova. E voglio dire l’ultima cosa se mi permettete perché di scuola ci si può ammalare, insegnanti si ammalano, i genitori si ammalano per la scuola, ma di solitudine si muore. Questa è una frase che ha detto la nostra responsabile dei sostegni e mi ha colpito perché è al netto che la scuola è una casa e deve avere una porta per raccogliere, deve aprirsi e a volte si deve anche chiudere, perché se non sei in grado di accogliere, faresti soltanto del male. Una porta sfondata è un’invasione della casa, non è un’accoglienza. Allora i tre punti che ci siamo detti di aiuto reale. Ma di scuola ci si può malare, di solitudine si muore adesso. Allora questo incontro secondo me può essere veramente un punto di luce a che l’accoglienza sia dalla vera domanda. Io chi sono? Questo è il cammino che secondo me noi dobbiamo fare.
Agasisti. – 1:05:40 – Grazie. Allora, prima di concludere tre brevi cenni a questioni che riteniamo importanti, credo anche alla luce di quello che ci siamo detti. Primo, accanto ai problemi che tante nostre famiglie vivono sulla loro pelle, ci sono tante esperienze positive da cui partire. E allora noi vogliamo guardare a questi quadri di speranza per rendere il nostro sguardo pieno di una speranza maggiore per oggi e per domani. Noi vogliamo decidere di non partire dal lamento per ciò che non va, ma dalla certezza di ciò che va. Secondo, queste esperienze positive, come ci avete testimoniato, non si costruiscono da sole. Bisogna avere il coraggio di guardare i problemi che ci sono e l’incontro nasce anche da questo, l’incontro di oggi. Allo stesso tempo, a ciascuno di noi ha chiesto tempo, impegno, attenzione, azione per fare in modo che i nostri bambini, i nostri ragazzi speciali possano vivere una bella esperienza positiva a scuola. Le associazioni che hanno promosso questo incontro cercano di fare questo mestiere insieme con le scuole. E poi possiamo proprio dire, il terzo aspetto, che i bambini ragazzi speciali sono un bene per tutti. Questo oggi è emerso, a mio parere, con grande chiarezza. Chiunque di noi li abbia incontrati nella propria esperienza scolastica sa di cosa parlo. Potrebbe raccontarlo a tutti. Ecco perché abbiamo deciso di concludere il nostro incontro con un breve video, in cui abbiamo raccolto delle testimonianze degli insegnanti di sostegno a cui abbiamo chiesto di dirci in poche parole cosa abbiano imparato loro, accompagnando i bambini ragazzi speciali che sono stati loro affidati. Lo guardiamo insieme.
Video – 1:07:53
Agasisti. – 1:11:41 – Allora, una battuta finale. Abbiamo visto che grande positività emerge dalle esperienze che ci hanno raccontato. Qualche mese fa, preparandomi ad un incontro sul tema dell’inclusione, che dovevo fare un incontro pubblico, mi sono confrontato con il presidente della nostra associazione, della Mongolfiera, su cosa dire in alcuni passaggi. Lui ha usato una formulazione che mi è sembrata molto giusta. Ha detto: “Se una scuola non avesse bambini speciali dovrebbe andare a cercarli per farli iscrivere”. Ecco a me sembra un’intuizione geniale, vorrei che ci lasciassimo con questa consapevolezza e con questo desiderio e ringraziamo davvero i nostri ospiti per il bel dialogo che hanno consentito. Un avviso del Meeting che ci teniamo a dire a tutti, in questo particolare momento storico, dove sempre più incognita ci fanno chiedere come sia possibile costruire dialogo e pace, non potevamo non sentirci provocati e riaccesi da quanto ci ha detto il Cardinal Pizzaballa nel suo intervento all’incontro inaugurale. Per questa ragione, il Meeting devolverà parte delle donazioni raccolte nel corso di questa settimana per l’emergenza in Terra Santa. È possibile donare al Meeting, ora, qui nei padiglioni e poi anche nei giorni successivi. Grazie di nuovo a tutti e tutte.