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PER LA VITA: UNA RESPONSABILITA’ DI OGNUNO, UN COMPITO PER TUTTI
In diretta su Famiglia Cristiana, Teleradiopace
Elvira Parravicini, director of the Neonatal Comfort Care Program, Professor of Pediatrics, Columbia University Medical Center; Luciano Violante, presidente Fondazione Leonardo–Civiltà delle Macchine. Introduce Andrea Simoncini, vicepresidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli ETS, professore di Diritto Costituzionale, Università di Firenze
Il tema della vita fa sempre più fatica ad affermarsi. Il contesto socio-culturale in cui viviamo considera sempre meno la vita come un dono, immenso e gratuito, ma sempre più come una performance, da svolgere solo a certe condizioni. L’incontro vuole fare riemergere la domanda su come favorire e (dove possibile) garantire una vita degna ad ogni persona, in qualunque situazione si trovi, mettendo in luce la responsabilità di ogni persona fino alla responsabilità di chi gestisce la cosa pubblica.
Con il sostegno di isybank
PER LA VITA: UNA RESPONSABILITA’ DI OGNUNO, UN COMPITO PER TUTTI
PER LA VITA: UNA RESPONSABILITA’ DI OGNUNO, UN COMPITO PER TUTTI
Venerdì 23 Agosto 2024 ore 19:00
Auditorium isybank D3
Partecipano:
Elvira Parravicini, director of the Neonatal Comfort Care Program, Professor of Pediatrics, Columbia University Medical Center; Luciano Violante, presidente Fondazione Leonardo–Civiltà delle Macchine.
Introduce:
Andrea Simoncini, vicepresidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli ETS, professore di Diritto Costituzionale, Università di Firenze
Simoncini. – 0:02:48 – Buonasera, buonasera, benvenuti. Meeting, Meeting di Rimini, Meeting come sapete tutti vuol dire incontro ed è la sostanza di questo evento. È incontro innanzitutto perché migliaia di persone, come stasera, si incontrano partecipando a conferenze, mostre, ma è anche Meeting perché spesso siamo testimoni di un incontro che avviene qui da questa parte sul palcoscenico, e stasera questa è un po’ l’occasione. Un incontro un po’ sorprendente, un po’ inusuale, un po’ inatteso, perché le due storie, le due vite, le due professioni che questa sera si incontreranno e dialogheranno sono molto diverse. Ve li presento subito. Alla mia destra estrema, Luciano Violante che, come io dico sempre e mi trovo a ripetere spesso, non ha bisogno di presentazioni, anche perché, al di là del fatto che la sua carriera di protagonista della vita pubblica italiana è lunga e ben nota, qui al Meeting è veramente un compagno di strada da tanto tempo. Di questa amicizia, di questa compagnia, di questo suggerimento, di questo sostegno, non finiremo mai di essergli grati abbastanza. Quindi Luciano, tra di noi. Elvira Parravicini, anche lei in realtà, un volto conosciuto per il Meeting, brianzola molto convinta e, come spesso è successo per gli italiani, ha fatto fortuna all’estero. Ascolteremo tra un attimo: neonatologa nella prestigiosissima Columbia University. Ma la domanda è: cosa hanno in comune queste due storie? Una vita pubblica, una vita di impegno politico-istituzionale nella magistratura, una professoressa e un medico. Lo spunto nasce dal fatto che abbiamo letto questo libro, si chiama *Ma io ti ho sempre salvato*, è l’ultimo libro scritto da Luciano Violante, un libro particolare, molto diverso dalla lunga lista di pubblicazioni che lui ha e che rispecchiano un po’ le varie stagioni dei suoi impegni: pubblicazioni sulle indagini, sull’attività della magistratura, sulla mafia, e poi sulle istituzioni, sulla politica o come professore di diritto. È un libro personale, in parte saggio, in parte anche biografico. Leggo una breve frase: “Nella condizione umana del nostro tempo bisogna espellere il silenzioso protagonismo della morte. Sarebbe per caso scandaloso difendere la vita? Sarebbe eticamente inaccettabile porre alla democrazia un problema morale? Perché la vita deve essere difesa? Perché è in pericolo? La vita è il fondamento dell’esistenza, della creazione del mondo, della conoscenza, della civilizzazione, della continuità della specie.” E più in là, in maniera ancora più incisiva: “Nel dibattito pubblico discutiamo su come garantire il diritto a una morte degna, ma non ci interroghiamo su come garantire il diritto a una vita degna.” Il tema che c’è tra queste due testimonianze così apparentemente distinte è questo: il tema della vita. Il tema della vita e del suo confine vertiginoso, che è la morte. E proprio su questo tema di cosa sia una vita degna e di come possa essere degna la vita anche quando apparentemente non ha quei requisiti che a noi ce la fanno ritenere tale, è un po’ il mistero e il brivido della professione di Elvira, e quindi vi chiederei di cominciare chiedendo alla nostra gloriosa regia di mandare un video che ci illustri un po’ quale è il lavoro di Elvira.
Parravicini. – 0:07:43 – Il neonato a conforte che programma?
Speaker. – 0:07:46 – Il programma di cure per il comfort neonatale è iniziato nel 2008. Incontrai una mamma che coccolava un neonato affetto da una grave malattia genetica e, come neonatologa, volevo aiutarla, ma mi resi conto che non c’era possibilità di aiutare quel neonato a stare meglio. Ma questa madre cercava speranza, e allora misi a punto un piano insieme a lei, sulle sue esigenze e, soprattutto, quella prima esperienza mi insegnò quali sono i bisogni di questi neonati. Il nostro lavoro sta proprio nel riconoscere e nel preparare interventi postnatali che forniscono un supporto emotivo e psicologico durante la gravidanza ma anche dopo. Si tratta a volte di gravidanze a cui molti genitori non sono preparati e quindi bisogna aiutare le famiglie ad accettare questa realtà, a prepararsi al travaglio e al parto in un modo che possa anche trasmettere i loro valori. Uno degli aspetti più importanti della cura è proprio il legame tra madre e neonato. E nelle tecnologie intensive questo legame viene interrotto, ma allora cerchiamo comunque di portare poi questi neonati nelle braccia della mamma appena possiamo, e questo è fondamentale finché una famiglia possa diventare una famiglia. Il nostro programma si basa su quattro valori fondamentali: il primo e il più importante è il comfort del bambino. Se il neonato è felice, anche la famiglia lo sarà. E quindi neonati che vengono nutriti, tenuti al caldo, coccolati, sono neonati felici, che stanno bene, e questo conforta anche la famiglia. Poi abbiamo la continuità delle cure, quindi incontriamo le famiglie ogni volta che necessario, durante la gravidanza siamo con loro in sala parto e siamo con loro anche in fase postparto, stiamo con il neonato, la mamma e il papà e li seguiamo anche nel corso della vita del bambino e anche dopo. Quindi, quando il bambino lascia la struttura, oppure se non ce la fa, noi siamo, e questa è la bellezza del nostro programma, sempre accanto a questi genitori con una relazione di lunga durata. Io mi vedo proprio come una sostenitrice, una compagna che fornisce informazioni fidate. E qui la formazione è fondamentale. Proprio uno dei nostri obiettivi è quello di mettere a punto un approccio che possa essere proposto a qualsiasi famiglia neonatale affinché possano celebrare questa nuova vita che inizia. Ecco perché ci concentriamo anche sulla ricerca, proprio per vedere quali sono le pratiche replicabili e anche per poter diffondere quello che abbiamo scoperto nella nostra esperienza, affinché altri possano applicare la stessa metodologia di cura. C’è il lavoro di squadra. Per poter soddisfare i bisogni di questi neonati e delle loro famiglie, c’è bisogno di un team e noi davvero contiamo gli uni sugli altri. Il nostro team è dedicato esclusivamente a questo lavoro e ci prendiamo tutto il tempo necessario da trascorrere con queste famiglie per dare loro il giusto supporto insieme ai loro bambini.
Simoncini. – 0:10:53 – Bene, abbiamo visto questo video. Elvira, ci puoi raccontare un po’ meglio come sei arrivata a New York e come nasce questo progetto Neonatal Comfort Care? Che cos’è?
Parravicini. – 0:11:10 – Allora, io sono neonatologa e ho studiato all’Università di Milano, ho lavorato alcuni anni all’ospedale di Monza e poi mi sono trovata a New York dove ho superato gli esami e sono diventata una dottoressa americana. Perché sono una neonatologa? Io amo i bambini e di fronte al momento della nascita, quando si vedono questi bambini nascere, quando hanno problemi seri, il mio desiderio più grande è di aiutarli a guarire e avere una vita felice. Quando mi sono trasferita negli Stati Uniti, appunto perché lavoravo in questo ospedale molto grande, mi sono resa conto che c’erano un numero di patologie che non potevano essere guarite, ma io questo desiderio di salvare la vita di tutti i bambini ce l’avevo e lo dovevo risolvere. Sono rimasta con loro, sono rimasta con queste famiglie, con questi bambini, cercando con la mia esperienza medica di fare quello che potevo. Io non ho mai molto stimato la medicina palliativa, perché la mia missione era salvare i bambini. Però come neonatologa sapevo come far star bene un bambino anche se vive per poco tempo. E per cui tenendo vivo questo desiderio e lavorando con queste famiglie mi sono accorta a un certo punto che salvare la vita di questi bimbi voleva dire rispettare la loro vita. Ho sempre in mente un caso che mi è successo, ho curato una bimba nata molto prematura, 26 settimane, nella mia terapia intensiva e la mamma si è presentata alcuni anni dopo, aspettava un bimbo senza reni, cioè una patologia che non è guaribile. E lei si è affidata alle mie mani e mi ha detto: “Lei mi ha salvato la prima bambina, mi salverà anche questo”. E lì insieme, nel rapporto con loro, con la famiglia, abbiamo proprio capito che salvare questo bimbo era rispettare la sua vita per quello che sarebbe stata. Per tornare alla storia di questo programma che ho, devo dire che all’inizio ho iniziato un po’ da sola, nel senso che incontravo queste mamme, poi, anche se non ero di turno, andavo in ospedale quando nascevano questi bambini. Sentivo che potevo curarli bene, per cui mi rendevo disponibile. Poi altri operatori sanitari mi osservavano. Infatti, nel video che avete visto, avete visto delle altre facce, delle altre donne che lavorano come quella con i capelli rossi un po’ lunghi, Fran. È un’infermiera che lavorava in terapia intensiva, e sognavamo insieme, un giorno magari lavoreremo insieme, ecc. Comunque, ad un certo punto, con l’aiuto di donatori, fondazioni, ecc., sono riuscita a costruire dei posti di lavoro e li ho offerti a questa Fran. Le ho detto: “Guarda, sono 30 anni che lavori in terapia intensiva, io ti offro lo stipendio per tre anni, vieni con me”, e lei ha detto: “Ma certo!” e abbiamo iniziato. Poi, appunto, ci è andata bene, perché lavora ancora con me da 15 anni. Comunque, abbiamo poi iniziato anche a lavorare con i colleghi ginecologi. Per loro era una grande novità, no? Ma hanno visto come queste famiglie si sentivano supportate, no? Perché quando c’è qualcuno che vive con te la gravidanza ed è pronto alla nascita poi a cogliere questi bambini, sono aiutati in modo che questa cosa che sembra impossibile diventa possibile. E per cui abbiamo iniziato questo lavoro anche con loro. Io ho iniziato nel 2008, avevamo 13 casi e in questi anni qua abbiamo visto centinaia di casi per cui molte, molte famiglie. Cosa offriamo semplicemente a questi bimbi? Quello che offriamo agli altri bimbi: offriamo il bagnetto, offriamo da mangiare. Questo è molto importante perché molti ospedali sono convinti, anche in Europa, anche in Italia, che a questi bambini non si debba dare niente da mangiare, ecco perché vivono poco. Noi rispettiamo la vita naturale e per cui li nutriamo ovviamente. Mi ricordo il caso di una bimba con una malattia genetica gravissima che è vissuta per 48 ore e alla fine la mamma è venuta a ringraziarmi perché mi ha detto: “Grazie, perché almeno è andata in paradiso con la pancia piena”, perché mangiare per esempio per un bimbo è uno dei piaceri. Insomma, in questo programma c’è tanto dolore, dramma, ma c’è anche ironia e sorrisi. Direi magari mi fermo qua, grazie.
Simoncini. – 0:16:31 – Abbiamo ascoltato questo racconto attorno alla protezione della vita anche se dura poche ore, questo valore assoluto della vita. Tu hai deciso di concentrare tutta l’attenzione di questo libro proprio su questo tema. Ma perché? Perché adesso e come mai hai deciso di scegliere questo argomento?
Violante. – 0:17:06 – Dovrebbe esserci un quadro, è arrivato, ecco. Questo quadro si chiama *La salita al Calvario* ed è stato dipinto da Bruegel il Vecchio nella seconda metà del Cinquecento, quando le Fiandre erano ricchissime, piene di banchieri, trafficanti, mercanti, e ciascuno badava in modo particolarmente ossessivo al suo guadagno, a sé stesso, insomma. Lui dipinge questa salita al Calvario, che è un po’ strana perché Gesù è difficilmente distinguibile in mezzo alla folla. C’è una colonna di cavalieri che a sinistra torna dalla caccia, ci sono persone che chiacchierano, che giocano, c’è la Madonna in basso a destra con le sue amiche, ma è separata dal resto, c’è una folla di persone. Alcuni sono già arrivati su e aspettano che arrivi, c’è perfino l’albero della cuccagna, vedete? È una scena ordinaria. Sta succedendo una delle cose più importanti nella storia dell’umanità. Un uomo di poco più di 30 anni sta per essere portato al patibolo. Lui segnerà la storia del mondo e dell’umanità, ma nessuno se ne accorge. E se guardate, se riuscite a vedere, Gesù è a piedi, gli altri sono su una carretta, gli altri due sono su una carretta. Quindi, magari se non riuscite a vederlo lì su un telefonino, ve lo prendete e lo vedremo. Che cosa ha voluto dire Bruegel? Ha voluto dire che a volte ci accadono cose fondamentali delle quali non ci accorgiamo. Nessuna di quelle persone si è accorta di quello che stava accadendo. Guardate, se poi guardiamo i quadri successivi sulla salita al Calvario, Gesù è in prima fila, no? Lui qui invece è la folla che non capisce che cosa sta accadendo e non sa quello che sta succedendo. Io fino a un mese fa non sapevo quello che fai tu, noi l’abbiamo appreso adesso. E allora con questo quadro, che io mostro sempre all’inizio delle mie lezioni, per far capire ai ragazzi: “Ragazzi, guardiamoci attorno, cerchiamo di capire che cosa sta accadendo attorno a noi.” Ecco, il secondo passaggio è questo: che cosa sta accadendo? Sta accadendo, come diceva prima Andrea, che noi siamo circondati in questo momento dalla morte. La morte a Gaza-Israele, la morte in Russia-Ucraina, ci sono 56 guerre in corso in questo momento, con circa un milione complessivo di morti e feriti gravi. Ma ne stiamo parlando? O ci stiamo abituando all’idea della morte? Il telegiornale ci dice: “40 morti secondo Hamas, 20 secondo gli israeliani.” E poi una cosa che mi ha stupito è questa. Noi ci commuoviamo per i giovani ucraini uccisi. Ma amici, i giovani russi mandati da Putin senza nessuna preparazione a farsi uccidere là, non ci devono commuovere anche loro? O il fatto di stare con gli ucraini ci deve vietare di pensare alla morte di quei ragazzi? Allora, vedete, ci sono delle cose che sfuggono. E io ho voluto richiamare l’idea della morte, prima perché sono tanti, si muore. Si muore nel Mediterraneo affogati, si muore in carcere, ci si uccide impiccati. Allora, perché questo? Perché io credo che dobbiamo riprendere in mano le fila del valore della vita. Vedete, io sono credente, ma come ho detto in un’altra occasione per precisare, non ho nessuna religione. Finora, poi magari ne trovo una, non mettiamo limiti alla provvidenza insomma. Ma il punto qual è? Che è l’alleanza di cui si parla nelle scritture, perché cos’è? E come dice l’evangelo di Luca nell’ultima cena, Gesù dice: “Quello è tra voi, io me ne vado, ma quello è tra voi.” Allora il senso della vita è la lotta tra il bene e il male, che non è finita e non sappiamo quando finirà, e se c’è un’alleanza da costruire è l’alleanza contro il male. Insomma, scusate se lo dico così, occorre dare una mano al nostro Signore nella lotta contro il male che non è finita, ripeto. E allora se noi cogliamo il senso del valore della vita, capiamo quanto è, come dire, irresistibilmente idiota andare verso la morte. Io credo, per esempio, che si parli molto di pace ed è giusto. La pace però riguarda i governanti. Le persone comuni hanno interesse alla vita. No, bisogna fare campagne per la vita che integrino le campagne per la pace. La pace non vuol dire che smettiamo di ucciderci. Vuol dire mettere in primo piano, come tu dicevi Andrea, il valore della vita. Se la vita è questo rapporto che dobbiamo costruire contro il male, come dire, nell’attuazione dell’Alleanza, se ho mandato il mio figlio sulla croce per l’Alleanza, e lui vi ha lasciato delle cose da dire, da fare, da costruire, allora è quello che dobbiamo fare e questo è il nostro compito. Allora c’è l’accordo per una morte dignitosa, ma bisogna impegnarsi per una vita dignitosa anche. E qui i governanti hanno un compito di fondo. Chi governa ha il compito di suscitare fiducia e governare le speranze. Perché se tu non hai speranza, tu non guardi, non fai figli, non pensi al futuro. E la politica deve organizzare la speranza dei cittadini, dar loro la possibilità di realizzare quello che vogliono, i loro desideri e le loro aspirazioni. Io credo che questo sia il senso. Questo toglie, come dire, la tragicità della morte. Certo, la vita e la morte sono fatti irripetibili, che riguardano l’essere umano e perciò hanno la loro sacralità laica dal mio punto di vista, ma sono sacri, e c’è una cosa sulla quale mi permetto di richiamare la vostra attenzione. L’essere umano, da cinque mila anni prima di Cristo, seppellisce i propri morti. È l’unico vivente che seppellisce i propri morti, quindi che coglie una specificità del rapporto vitale tra chi c’era, chi c’è e chi ci sarà. Questa è la nostra specificità, a differenza di tutti gli altri esseri viventi. Poi c’è chi dice “immagini di somiglianza”, per carità, non discuto, ma noi, i nostri progenitori, hanno fatto una cosa che non faceva nessuno: hanno custodito i corpi dei defunti, evidentemente pensando che lì ci fosse un valore da rispettare, che la vita vissuta da quelle persone meritasse di essere rispettata, rispettata non buttandolo, buttando il corpo nella giungla, ma custodendolo. E credo che allora se noi fissiamo l’attenzione sul valore della vita e sul valore di essere donne e uomini, a differenza di altri esseri viventi, forse riusciamo in qualche modo a emarginare questa ossessione della morte che ci circonda e può essere combattuta soltanto con battaglie che riguardano la vita. Questa è la mia opinione.
Simoncini. – 0:26:30 – Grazie. Dunque, siamo, come dire, ingaggiati in questa battaglia, in questa alleanza, come dicevi Luciano, in cui dobbiamo cercare di dare una mano al nostro Signore in questa difesa della vita contro questa ossessione della morte. Però tante volte difendere la vita, accettarla, la responsabilità che pone sembra un peso troppo grande di fronte alla vita malata, disabile, che non ha futuro. E tu, nel tuo lavoro, nella tua professione, ti trovi tante volte vicina a questa fatica del difendere la vita. Ci puoi raccontare qualcosa su questo?
Parravicini. – 0:27:21 – Io direi che la prima cosa, giustamente tu hai usato la parola “ferita”, la prima cosa è che bisogna lasciarsi ferire. Io quando apro la porta di una sala dove entro per fare un consulto prenatale, anche adesso dopo 15 anni, non vorrei mai aprire quella porta, perché sicuramente per dei genitori è un dolore infinito, ma anche per me è difficile perché io vorrei poter dire “salvo il tuo bambino, facciamo questo, facciamo quell’altro”, cioè riuscire nel mio compito come medico e far finire le cose bene. Invece, lasciarsi ferire vuol dire stare lì con loro e stare di fronte a questo mistero di cui noi non sappiamo il significato, nel senso che è troppo grande. Perché dal punto di vista scientifico si può dire: “Beh, perché questo bambino ha un numero di cromosomi sbagliato, questo bambino ha avuto un’infezione”, cioè c’è una spiegazione biologica, ma non c’è una spiegazione del perché, del perché profondo. E allora quello che ho imparato da queste famiglie è stare lì col cuore aperto, il cuore come lo definisce Don Giussani, ho imparato da lui che è quella cosa che abbiamo dentro tutti noi e che ci fa desiderare di amare anche di fronte alla morte, desiderare di essere felici, desiderare di vivere per sempre, perché per questo bambino, sia io come medico ma ancora di più i genitori, vogliono che viva per sempre. Però in questa situazione come si gioca il cuore? Io mi rendo conto, incontrando questi genitori, che tante volte il cuore è un po’ nascosto, ma lo capisco benissimo, perché il dolore per una diagnosi così è così forte che un genitore quasi vorrebbe non incontrare quel bambino lì, no? È troppo, no? E allora io capisco che il compito nostro di dottori, di infermiere, di persone che appunto sono lì a contatto con loro sia quello di sostenere il loro cuore. Allora di solito quando inizio a fare questi consulti parto sempre dicendo: “Ma è un maschio o una femmina? Come si chiama?” Cerco di sentire dai genitori quanto ci tengono per quel bimbo perché comunque ci tengono davvero, non è una formalità. E ho notato che questi genitori mi vengono dietro, no? Perché questa è un’altra cosa che ho imparato: un genitore non può sopportare che ci sia qualcuno che voglia più bene ai loro bambini che loro stessi. E niente, perché poi mi rendo conto che amare non è un’opzione, non è una scelta neutrale. Noi amiamo i nostri figli, no? E per cui, appunto, quello che cerco di fare è di sostenere questo amore. Per cui la prima cosa è questa. E un breve esempio. Ho incontrato una famiglia che aspettava dei gemellini: una gemellina femmina normale e un bambino invece maschietto a cui mancava il cervello, si chiama anencefalia, in linguaggio medico. E quando mi trovavo con loro parlavano sempre della bambina, mi avevano detto come si chiamava e di questo maschietto non osavano parlare. Un certo giorno li ho un po’ provocati e gli ho detto: “Ma cerchiamo un nome per questo bambino”, perché ho detto: “Poi il tempo sarà breve”, cioè ho cercato di sostenerli un po’ eccetera. Quando questi gemellini sono nati, la bambina, vabbè, l’hanno accarezzata, tenuta in braccio, eccetera, però è finita nella cullina. Tutto il tempo, dopo la nascita, sono stati col maschietto. Sono andata a salutarli, così, a controllare il bambino e loro mi guardano e mi dicono: “Eh sì dottoressa, perché il tempo sarà breve, allora vogliamo che questo bambino sia tenuto in braccio tutto il tempo.” Per cui hanno fatto questo passo. Penso che, come medico, sia una vittoria. E poi la seconda cosa è seguire la realtà. In queste situazioni ci sono dei drammi inimmaginabili, però se noi guardiamo la realtà troviamo una via di uscita, se posso dire. Questo è un altro esempio che mi ha molto segnato. Doveva nascere un bimbo con una malattia genetica molto grave, anche una cardiopatia gravissima, per cui ci aspettavamo che questo bimbo vivesse per magari, non so, un paio di giorni o qualcosa. Il bimbo nasce e però sembra, respira, piange. Allora diciamo: “Dai proviamo a dargli da mangiare.” Appena mettiamo giù un paio di goccine, il bambino diventa blu, non respira più. E allora come medico mi è venuto il dubbio, se c’è un neonatologo in sala immaginerà che mi è venuto il dubbio che avesse un’atresia esofagea. Controlliamo ed è così. E lì il dramma perché o lo lasciamo morire di fame oppure lo dobbiamo portare in terapia intensiva e mettere una flebo. E sia a me che ai genitori le due ipotesi non andavano bene, perché nel primo caso lasciare morire di fame un bambino, no; nel secondo caso i genitori mi hanno detto: “No, questo bambino lo vogliamo in braccio 24 ore su 24 per tutta la sua vita.” Allora chiamo il chirurgo e dico: “Ma riusciamo a mettere, non so, un tubo gastrico così d’urgenza?” E lui mi fa: “Ma con questa cardiopatia congenita questo qua ci muore sotto i ferri.” Per cui eravamo noi medici in questo dilemma senza via di uscita. Nel frattempo, la mia infermiera dice: “Lasciamo che i dottori parlino tra di loro.” E lei dice: “Mamma, perché non facciamo il bagnetto, poi vestiamo il bambino, lo teniamo in braccio, eccetera eccetera,” cioè si focalizzano sul comfort, no? Rientro dopo un po’ per vedere cosa succede e vedo che questo bimbo respira sempre più piano, sempre più piano, diventa un po’ blu e praticamente dopo qualche minuto ascolto il cuore e se n’era andato. E lì ho capito, questo bambino ha deciso lui. Ha risolto la situazione drammatica, il dilemma, dei genitori e del dottore. Il destino l’ha preso chiarificando cosa avrebbe dovuto succedere. Anche di una grande umiltà, il destino si fa presente e si fa capire. L’ultimo esempio è la storia invece un po’ all’opposto di una bimba che era nata con solo metà cuore. I suoi genitori non volevano assolutamente fare le tre operazioni chirurgiche a cuore aperto come si potrebbero fare, finire col trapianto cardiaco, eccetera, perché hanno detto: “Noi non vogliamo che questa bambina soffra in ospedale per tutta la vita, vogliamo tenerla in braccio.” Ok. La bimba, quando è nata, stava bene, cioè mangiava, sembrava una bambina normale, eccetera, e allora dico: “Vabbè, vediamo.” Insomma, con gli infermieri, i dottori della medicina palliativa, la seguiamo a casa. Penso che vivrà qualche mese perché aveva degli shunt interni al cuore. E questa bambina cresce e arriviamo a due mesi, tre mesi e lei cresce, mangia, dorme, cresce. Arriviamo a sei mesi, viene al controllo, sta bene, un pochino cianotica appena appena però sta sempre bene. Insomma, per farla breve, è vissuta sette anni. Praticamente ha sviluppato dei collaterali che le permettevano di avere il flusso sanguigno ai polmoni ed ha vissuto sette anni meravigliosi con la sua famiglia. È andata a scuola, giocava con i suoi fratellini e poi quando aveva sette anni, piano piano se n’è andata. La medicina palliativa non è per bambini che nascono e muoiono così. Bisogna seguire la realtà. Il destino decide lui. Qui mi fermerei ancora.
Simoncini. – 0:36:17 – Grazie. Queste cose che ascoltiamo, uno non le penserebbe possibili se non le ascoltasse. Se non fossero successe e noi avessimo dovuto immaginarle. E allora volevo tornare a una parola che hai usato prima, che secondo me è legatissima a questa cosa. Tu prima hai accennato il tema della speranza. Nel libro, in un passaggio, il primato della vita è strettamente legato al principio di speranza, che a sua volta anima la fiducia nell’impegno e nel miglioramento futuro. L’impressione che ho io è che oggi ci sia tanta paura, che so, di avere figli. L’Italia è penultima, mi dicevi, ultima in Europa come natalità, lo sappiamo. Spesso noi cerchiamo di scaricare anche giustamente perché ci sono questi aspetti su fattori esogeni: manca il lavoro, mancano gli asili, mancano le infrastrutture. Ma c’è sotto la sensazione che in realtà, in fondo, sia un problema di speranza, cioè che non si vuole dar vita perché si ha paura del futuro, si ha paura di non farcela, di non farcela a sostenere, si ha paura di dover diventare dipendenti di questi figli, perché i figli piccoli sono un impegno. Ecco, tu parli di speranza.
Violante. – 0:37:50 – Guarda, ti devo dire una cosa. Questo libro è diviso in due parti: diciamo la prima parte in cui parlo delle questioni della morte, eccetera, così; la seconda parte è stata scritta mentre mia moglie stava morendo e io avevo la speranza che i medici potessero salvarla, però insomma mi dicevano che non era fondata. Quindi ho pensato attorno alla speranza, alla fiducia che io avevo in quello che i medici mi dicevano e alla mia speranza che mia moglie potesse farcela, ma poi è finita qualche settimana dopo, qualche mese dopo, a dicembre. E poi mi sono misurato con un’altra morte, quella di mia madre. Non la faccio lunga perché sarebbe molto lunga, ma insomma negli ultimi giorni in cui lei stava male, insomma aveva dei deliri, io sono nato in un campo di concentramento in Etiopia, poi le donne e i bambini furono mandati via. Arrivammo a Napoli, mia madre era milanese, non poteva andare certamente a Milano, perché c’era la linea gotica da guerra, e decise di andare nel paese di suo marito, appunto che è una cittadina pugliese, che si chiama Rutigliano. Salivano sull’ultimo… Insomma io, durante i deliri di mia madre, ho capito che lei era stata violentata più volte durante questo viaggio. E l’alternativa che le avevano posto i violentatori era: o ammazziamo tuo figlio o ci stai. Lei mi guardava e diceva: “Ma io ti ho sempre salvato,” che è il titolo del libro. Cioè, aveva sacrificato il suo corpo per salvare il mio. Anche lì c’era una speranza, da parte di mia madre. E la fiducia poi di arrivare a salvare questo figlio. Perché in un campo di concentramento poi la vita non era particolarmente… Sapete cos’è un campo di concentramento? Anche se non si trattava di lager tedeschi, era pur sempre un campo di concentramento. E mio padre era giornalista, comunista, non iscritto al partito fascista, quindi insomma una situazione così. E allora ho pensato attorno alla fiducia e alla speranza come due elementi non soltanto personali miei, ma come elementi generali, quelli che tu Andrea, con il tuo solito acume, hai richiamato. Voglio dire, io credo che il compito della politica sia quello di animare la fiducia e, come ho detto prima, costruire e organizzare la speranza. Io credo che oggi si facciano meno figli. Forse non perché, sì, c’è il problema degli asili, del lavoro delle donne, ma se ci fosse speranza nel futuro io un sacrificio lo faccio. Allora ci vuole un certo politico che organizzi questa speranza e che metta insieme le politiche della vita, perché la politica dell’infanzia è una cosa, la politica della scuola è un’altra cosa, la politica della famiglia è una terza cosa, la politica della sanità è una quarta cosa, le politiche del lavoro sono una quinta cosa, ma tutte riguardano la vita. Non possono essere in contraddizione l’una con l’altra. Io credo che il compito dei governanti, o di un governante accorto, dovrebbe essere quello di fare un grande dipartimento di biopolitiche, in cui sono tutte le politiche della vita, per dare dignità alla vita. Perché io prima di impegnarmi per la dignità della morte, devo impegnarmi per la dignità della vita, perché chi non ha i mezzi, non ha possibilità, possa trovare nella politica qualcuno che organizza la sua speranza, gli dà la forza di venire fuori. Altrimenti che senso ha? Perché della politica ha bisogno chi non ha gli strumenti di per sé, no? La politica sempre ha questo, la distribuzione, tutto quello che c’è. Ecco, io credo che quindi in questo senso mi è venuta l’idea di puntare non soltanto sul piano soggettivo mio in quel momento particolare, e come potete immaginare difficile. Sentivo questo conflitto tra la mia speranza e quello che i medici dicevano che la speranza non aveva fondamento. È un discorso più generale, una politica che organizzi le speranze. Guardate, io credo che abbiamo un quadro netto nel dibattito politico che c’è negli Stati Uniti. Da una parte c’è la speranza, dall’altra c’è, come dire, l’indicazione dei mali del paese. E va bene, ognuno può fare le sue scelte, ma il discorso di Kamala Harris che ho sentito ieri punta su questo, sul futuro. E io credo che chi ha compiti politici deve sempre guardare al futuro, a come costruire il futuro, come andare avanti, come portare avanti che ciascuno di noi, guardate, darebbe molto per quello che dà se c’è un traguardo da raggiungere. L’Italia è stata, guardate, l’Italia ha avuto otto stragi, tre tentativi di colpi di Stato, un uomo di Stato sequestrato e ucciso, poi un’intera classe dirigente fatta fuori, 21 magistrati e 11 giornalisti uccisi da terroristi e mafia. Quali altri paesi avrebbero resistito a questo? Siamo ripresi, abbiamo una forza dentro di noi, certamente, che viene dalla nostra storia di nazione, dalla nostra cultura e così via. Però io credo quindi che sia necessario che chi governa, comunque si chiami, pensi a questo aspetto. Pensi a come mettere insieme le politiche che possono dare speranza. Perché se io cittadino ho speranza, io mi impegno di più. Io mi impegno di più. Perché so che c’è un traguardo da raggiungere. Se io devo vivere giorno per giorno nell’incertezza del domani, è chiaro che poi il mio modo di vivere è profondamente diverso. Questo io credo che sia appunto un compito che la politica deve assumersi. Anche perché c’è un dato che mi ha preoccupato che è questo, e finisco: il Canada è uno dei paesi più esposti al tema dell’eutanasia. Addirittura circa il 35% dei canadesi ritiene che la povertà possa essere un elemento sufficiente per l’eutanasia, che non avere casa possa essere un elemento sufficiente per l’eutanasia. In alcuni paesi l’eutanasia si può fare anche nei confronti dei bambini e dei malati di mente, cioè di coloro che non possono esprimere un giudizio, e il Ministero delle Finanze canadese ha detto che se passa una certa legge che estende l’eutanasia in Canada si risparmiano 118 miliardi di dollari per le pensioni. È agghiacciante. Cioè, la morte è messa sul piatto del bilancio dello Stato. Ma questo perché? Perché non c’è un impegno per la vita. Ecco, allora io credo che sarebbe importante, molto importante, che su questa questione, guardate non quelle cose, scusatemi spero di non offendere nessuno, quella di andare a criminalizzare la ragazza o la donna che ha scelto, che sta scegliendo cosa fare mostrandogli il feto, il battito del cuore, quelle cose lì, scusatemi, spero di non offendere nessuno, sono cose che servono soltanto a creare un muro, non ad aiutare. Tu aiuti la donna, le parli, le stai vicino, quel bambino morirà ma tu comunque stai vicino. Beh, guardate, tutti noi abbiamo bisogno di qualcuno che ci stia vicino. Anche nei momenti più duri, più terribili, più atroci. C’è bisogno di qualcuno che ti stia vicino. Ecco, lei riesce a farlo con questa enorme capacità. E io credo che se il cittadino sa che c’è un governo che sta vicino, perché ha messo insieme queste politiche per dargli speranza, io credo che poi siamo tutti più forti. Ecco, questo voglio dire.
Simoncini. – 0:47:55 – Il Meeting è anche una grande platea da cui nascono le idee, quindi questa proposta per un dipartimento di biopolitica che conglobi tutte le diverse funzioni che governi assieme l’idea della vita come un insieme di fattori che possono sostenerla. Beh, dal Meeting parte anche questa proposta, vediamo i governi cosa faranno. Allora, siamo al giro conclusivo del nostro incontro. Nel nostro titolo, cioè “Per la vita, una responsabilità di ognuno è un compito per tutti.” Io volevo chiedere a Elvira, dall’esperienza che vivi dal punto di vista che hai, qual è la responsabilità che abbiamo? Tu fai una cosa particolare, in un punto particolare della vita, da lì cosa vedi che può essere di aiuto per tutti?
Parravicini. – 0:49:00 – Certo, perché si parlava prima della speranza, io dico che la responsabilità è il compito nostro di tenere aperta la speranza. E lo dico a livello personale, cioè nei miei rapporti con questi genitori, lo dico coi miei colleghi, ma lo dico anche a livello di creare strutture dove la speranza può essere sostenuta. Voglio citare una breve frase di Don Giussani che dice: “Voglio citare un caso umano dove si vede chiaramente come la speranza è una parola umana. È là dove c’è un desiderio e uno spera di soddisfarlo.” Poi lui nel libro parla di Leopardi, sviluppa questo tema, ma io lo penso per le mie famiglie e i miei bambini. E continua Giussani: “Quello che nasce per la contraddizione, il no, cioè di fronte alla contraddizione c’è il no, è la risposta della testa, ma il cuore è uno struggimento, non è un no.” Io direi che la mia responsabilità, vedendo queste famiglie, è che mi rendo conto che questa speranza che abbiamo tutti dentro è impossibile da abbattere, per cui è proprio vero quello che dicevi prima, no? Che è il motore, è il motore perché è una cosa di cui siamo fatti, che abbiamo dentro. E lo vedo per esempio, non so se vi facessi vedere delle foto che facciamo alla nascita di queste famiglie e questi bambini sono tutti sorridenti, fanno festa in quel momento. Perché in quel momento, no? Perché la speranza può stare? Perché la vita è fatta di tanti adesso, no? In quel momento, per esempio, della nascita è un momento in cui la speranza trova l’oggetto del suo desiderio, saranno cinque minuti, saranno tre ore, ma è tutto lì. E, prima cosa, seconda cosa nasce una gratitudine, perché io lo imparo proprio, no? Per dei genitori in cui il bimbo sta per morire, un minuto in più, due minuti in più, un’ora in più, è dato, è dato, no? Per cui una gratitudine incredibile. E poi, a livello invece più strutturale, io mi sono trovata, per esempio, a costruire questo programma come dire spinta dalla realtà, cioè come dicevo prima, all’inizio la medicina palliativa non mi interessava molto, però la realtà mi ha chiamato e poi a un certo punto ho detto: “Ma quello che sto facendo è medicina palliativa.” Per cui sono andata a Harvard a imparare a fare medicina palliativa, per esempio. E poi appunto voglio, la mia visione è che questo approccio rispetto alla vita, alla vita anche breve e brevissima, deve essere in tutto il mondo. Tutte le famiglie, tutti i bambini del mondo devono fare così. E allora, per esempio, organizzo un training internazionale ogni anno nel mio ospedale e ho avuto operatori sanitari da tutti gli stati americani, da 20 paesi del mondo. È proprio uno strumento per sostenere questa speranza. Tutto nasce dal fatto che la realtà mi ha provocato, ha provocato il mio desiderio di salvare questi bambini, ho capito che salvare vuol dire rispettare la vita e poi tutto nasce da lì. Grazie.
Simoncini. – 0:52:40 – A te la stessa domanda: che compito per una realtà come il Meeting? Tu ci conosci, una comunità così, qual è la nostra responsabilità su questo tema della vita? Abbiamo… C’è un altro quadro.
Violante. – 0:52:55 – C’è un altro quadro, sì. Poi sono finiti. Questo è un quadro di Kiefer, che è esposto a Palazzo Strozzi, a Firenze. C’è una mostra di un grandissimo pittore. Vedete, c’è un grande angelo che non si capisce bene se precipiterà o salverà. Non lo sappiamo. Dipende da quello che faremo noi. Io tra i 10 comandamenti sono fanatico del secondo: “Non nominare il nome di Dio invano.” Per tante nostre responsabilità, noi le attribuiamo a Dio, come “Dio ha permesso Auschwitz”. Ma chi c’era a Versailles quando le potenze vincitrici della Prima Guerra Mondiale imponevano alla Germania degli obblighi praticamente impossibili da rispettare? C’era Dio o c’erano dei signori che pensavano che in questo modo rastrellassero più denaro, più risorse e così via? Tante volte noi chiamiamo in causa il nostro Signore che non c’entra perché lui ci ha lasciato liberi, ci ha lasciato liberi di scegliere tra il bene e il male, altrimenti quella questione sarebbe già risolta. Allora io credo che abbiamo il dovere di partecipare in modo consapevole e attivo a quell’alleanza, questo serve. Se c’è la vita e la morte, poi guardate, quelle persone sotto mi pare che siano il segno di quello che è un modello del nostro tempo, che è il fuggitivo. C’è gente che fugge da Gaza, che fugge da Israele, che fugge dall’Ucraina, che fugge dalla Russia, gente che fugge dai paesi africani in guerra. Il fuggitivo. Guardate, quando c’è la morte e il fuggitivo, ovviamente c’è qualcosa che non funziona. E non possiamo dare la colpa soltanto ai governanti perché ci siamo anche noi che abbiamo la nostra testa, possiamo pensare, possiamo riflettere. Ecco io credo che un impegno maggiore da parte dei… io sono felicissimo di venire al Meeting perché qui trovo comunità di persone che pensano, che pensano. I partiti politici dibattono sui voti, sono comunità votanti quasi sempre, non mi pare che si attrezzino per essere comunità pensanti. Qui ci sono comunità pensanti che pensano e per questo mi permetto di dire, cerchiamo di fare il modo di rendere quell’alleanza di duemila e passa anni fa, quella alleanza una cosa concreta, reale, fare come fa lei che se non può salvare il bambino aiuta la madre, aiuta i genitori a vivere questo momento tragico del passaggio. Ciascuno di noi può fare un po’ di più, un po’ di meglio, credo, questo voglio dire. E credo che possiamo farlo in questo modo, allora l’angelo ci porta su, non ci precipita addosso, ci porta su e noi compiamo la missione che ci è stata assegnata vivendo.
Simoncini. – 0:56:38 – Grazie, grazie davvero. Per chiudere questo nostro incontro, prima di dire solo un’idea, io vorrei però che tutti assieme facessimo un piccolo gesto di ricordo, di memoria, perché l’ultimo capitolo di questo libro è dedicato a Giulia, e tu l’hai richiamata, tua moglie. E io ricordo benissimo quante volte Giulia è stata qui con noi al Meeting e vorrei che innanzitutto tutti noi esprimessimo questa solidarietà e questa vicinanza e questa, e io mi permetto di aggiungere, questa preghiera per Giulia. Amici, amici miei, *Ma io ti ho sempre salvato*, pensavo mentre ascoltavamo che è la cosa più simile, è la frase più simile a quella che può descrivere quello che ha fatto Gesù con gli uomini, che ha fatto Dio, il Dio cristiano, per come noi l’abbiamo incontrato, perché il tema della vita è che la forza di viverla viene quando ci si sente amati, quando si sente su di sé qualcuno che gratuitamente, sia che tu viva un’ora, un minuto o 80 anni, come dicevi, se ti sono donati, ma qualcuno che affermi te come la cosa più bella e più importante del mondo, quello che tua mamma ti ha testimoniato e che hai voluto ricordare a tutti. L’esempio che abbiamo ascoltato da Elvira è qualcosa di eccezionale, oltre per le cose che ci ha raccontato o perché ci ha fatto vedere che si può. Si può. Si può essere così. Si può vivere così. Il Meeting ha questo scopo, quello non tanto di fare teorie sulla vita, spiegare, dibattere teologicamente, ma far vedere che questa alternativa, questa alleanza che dicevi Luciano, è possibile. E per questo io ringrazio ancora i nostri relatori e quello che ci hanno raccontato. Grazie di cuore. E il ricordo, come sempre facciamo, e non è formalmente, che ognuno di noi può dare un contributo al Meeting, perché il Meeting, se esiste, se ha questa libertà di pensiero, come tu ci hai ricordato, lo deve al fatto che si sostiene da sé. Non ha qualche finanziatore occulto e quindi ora trovate tutte le possibilità di finanziare e sostenere il Meeting e ricordo in particolare che abbiamo deciso dopo l’introduzione con il Cardinal Pizzaballa, per l’impegno e per l’emergenza e la richiesta che c’è da quella parte martoriata del mondo, di devolvere parte delle donazioni raccolte nel corso di questa settimana per l’emergenza in Terra Santa. Perciò vi chiedo di essere particolarmente generosi. Grazie a tutti e buon Meeting.