SOSTENIBILITÀ DEL DEBITO E SVILUPPO ECONOMICO

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In collaborazione con Fondazione per la Sussidiarietà
Fabio Panetta, governatore Banca d’Italia. Introduce Giorgio Vittadini, presidente Fondazione per la Sussidiarietà

Conti pubblici in rosso, salari più bassi d’Europa, tessuto imprenditoriale in affanno, inverno demografico. Sono ombre sul futuro del nostro Paese. Verso quale tipo di sviluppo ci stiamo dirigendo? Lo stato sociale continuerà ad esserne parte integrante? Tra gli strumenti per rilanciare la crescita, quale ruolo possono giocare la tecnologia, il debito comune europeo e il sistema del credito?

Con il sostegno di isybank, Forma.Temp, Illumia

SOSTENIBILITÀ DEL DEBITO E SVILUPPO ECONOMICO

SOSTENIBILITÀ DEL DEBITO E SVILUPPO ECONOMICO
In collaborazione con Fondazione per la Sussidiarietà

Mercoledì 21 agosto 2024 ore 13:00

Sala Neri Generali-Cattolica

Partecipano:
Fabio Panetta, governatore Banca d’Italia.

Introduce:

Giorgio Vittadini, presidente Fondazione per la Sussidiarietà

 

Vittadini. Buongiorno, benvenuti a questo incontro dal titolo **”Sostenibilità del debito e sviluppo economico”** che avrà come ospite e relatore Fabio Panetta, Governatore della Banca d’Italia, che invito ad accogliere con un grande applauso, poi lo vedremo. Abbiamo previsto questo incontro in questo modo: dopo la mia breve introduzione, ci sarà l’intervento del Governatore e poi la possibilità di alcune domande fatte da me e da alcuni giovani, in modo tale da poter approfondire il tema. Io comincio questa introduzione concentrandomi soprattutto sulla seconda parola del titolo, **”modello di sviluppo”**, perché tante volte si parla di debito, ma sappiamo benissimo che il debito ha un rapporto con una parolina che si chiama PIL, che riguarda lo sviluppo. Siamo in un momento di passaggio, un passaggio dall’economia finanziaria a un’altra idea di economia in cui si parla di sostenibilità, ed erroneamente si pensa che la sostenibilità sia solo legata al cambiamento climatico. Se voi invece leggete i 17 punti dell’ONU, c’è molto di più; c’è l’idea di rimettere al centro della vita economica uno sviluppo che abbia l’uomo, la persona, e anche un’economia reale. L’anno scorso, proprio da questo palco, il professor Girol, il gesuita che insegna alla Università Cattolica di Washington, ci diceva che il 90% degli scambi finanziari è legato solo al 10% dell’economia reale. Quindi, il tema di come lo sviluppo possa riprendere è fondamentale, soprattutto se pensiamo al nostro Paese. Se posso fare una critica un po’ a lungo termine, è che noi parliamo giustamente di DPF, parliamo di finanziaria, ma la politica industriale, cioè l’idea di un modello di sviluppo che abbia al centro la persona e la produzione di beni, è un po’ trascurata. Ovviamente non è una risposta all’assistenzialismo, l’idea che si possa fare a meno del lavoro e della produzione, con un’azione basata solo sull’elargizione di denaro, è insostenibile. Da questo punto di vista, ho quattro punti che metterei a fuoco come provocazione per il Presidente, che evidentemente non sono esaustivi, ma cercano di focalizzare questo ritorno all’economia reale.

Il primo tema è la disuguaglianza. Ieri abbiamo avuto un incontro con Branko Milanović e José Manuel Barroso sul tema della disuguaglianza a livello mondiale, ed è stato interessantissimo perché è emerso che, in questi nuovi studi, la disuguaglianza non è frutto della redistribuzione di ricchezza attraverso il welfare, ma di come si pensa allo sviluppo. Ed è un tema importante, perché già a livello mondiale, ci è stato detto ieri, se l’indice di Gini fra paesi, cioè l’uguaglianza fra paesi, è molto diminuito, è aumentato l’indice all’interno dei paesi, c’è più povertà. Più povertà vuol dire, come dice anche il premio Nobel Esther Duflo, che nel lungo periodo è un freno allo sviluppo, perché i ricchi non investono più e consumano. I poveri, invece di risparmiare come si faceva in Italia per anni, non lo fanno più. Quindi il tema è questo, anche perché in Italia negli ultimi anni è aumentata la povertà relativa e assoluta. Diventa fondamentale chiedersi se è possibile un modello di sviluppo che includa la disuguaglianza nelle variabili di sviluppo, non solo come redistribuzione, ma anche come sviluppo per i poveri e i ricchi, il che implica la necessità di produrre.

Un secondo tema strutturale, soprattutto in Italia, è la produttività. Negli ultimi 15 anni, nella maggior parte delle economie avanzate, la produttività è diminuita, ma il nostro Paese ha una produttività strutturalmente più bassa rispetto ad altri paesi europei. Tra il 2000 e il 2019, a fronte di una crescita media dei principali paesi europei compresa tra lo 0,83% della Spagna e l’1,1% della Germania, l’Italia ha registrato un valore parallelo dello 0,3%, con un valore particolarmente basso nelle costruzioni e nei servizi. Ora, non possiamo pensare allo sviluppo se non mettiamo a tema come rilanciare la produttività, che significa, in termini concreti, il rapporto tra il prodotto e le persone occupate. Se non siamo in grado di fare questo tipo di intervento strutturale, potremo godere di tutti gli interventi contingenti, potremo usare il PNRR, ma dobbiamo chiederci come fare un salto di qualità.

Il terzo tema legato alla produttività, che sarà affrontato nel nostro Meeting, è il legame tra produttività e capitale umano. Studi avanzati mostrano che la produttività è legata non solo agli investimenti in macchinari, ma anche agli investimenti in capitale umano. Nel 1962, la scuola di Chicago con Becker vinse il premio Nobel per il nesso tra istruzione e produzione, ma negli ultimi anni studiosi come Agnusek hanno dimostrato che il nesso è legato alla qualità dell’istruzione, non solo alla quantità. Altri premi Nobel, come Heckman, hanno parlato di un capitale umano più dinamico, che comprende non solo le conoscenze, ma anche competenze trasversali, come la creatività, la capacità di lavorare insieme, la stabilità emotiva e l’apertura alla realtà. Cosa sta facendo il nostro Paese in questo senso? Abbiamo qui in prima fila la rettrice della mia università, Giovanna Iannantuoni, anche presidente della CRUI. Si parla spesso del problema del numero di laureati, ma non è che risolveremo questo problema aumentando le università telematiche; forse dovremmo anche pensare a come migliorare la qualità dell’istruzione per compiere quel salto di qualità che potrebbe portare a un miglioramento della produttività. Paesi del Far East che hanno investito nella qualità dell’istruzione hanno registrato un aumento del PIL.

Ma tutti questi tre temi hanno, secondo me, un punto cruciale che di solito viene visto sempre in negativo, che è l’Europa. Non possiamo pensare di affrontare nessuno di questi problemi da soli, perché, come disse Enrico Letta in una felice battuta proprio qui al Meeting qualche anno fa, noi eravamo un grande paese in un mondo piccolo, ora siamo un piccolo paese in un mondo grande. Pensate che l’Europa, che ha perso molto in competitività, ora rappresenta solo il 22,8% del PIL mondiale, più degli Stati Uniti che si attestano al 15% del PIL mondiale. Quindi, non possiamo pensare di affrontare i problemi precedentemente menzionati da soli, ma insieme, con tre ultime provocazioni: forse una politica industriale comune, la necessità di ripensare il mercato unico (un tema su cui Letta ha fatto un rapporto) e, terzo, il tema che la politica industriale potrebbe mitigare le disuguaglianze non solo in Italia ma in generale. Queste sono domande parziali, evidentemente, che poi il Governatore amplierà come ritiene opportuno, ma che poniamo all’interno di un quadro che per il Meeting è quello di domandarsi come la gente possa vivere meglio. Vivere meglio ha a che fare con lo sviluppo.

Panetta. Buongiorno a tutti. Prima di iniziare la mia relazione vorrei fare qualche considerazione sul Meeting. Io oggi sono qui per la prima volta. Ho visitato, grazie alla cortesia del professor Vittadini, del presidente Scholz e del dottor Forlani, i vari padiglioni del Meeting. Devo dire che è estremamente emozionante vedere quante persone, soprattutto giovani, in qualche caso veramente molto giovani, siano impegnate in iniziative sia tradizionali che innovative, con fini imprenditoriali ma anche con fini altruistici e solidali. È veramente emozionante vedere con quanto entusiasmo vengano svolti tutti questi compiti. Sono molto contento di essere qui e ringrazio il presidente Scholz e il professor Vittadini per questo invito. Il professor Vittadini ha toccato nella sua introduzione i nodi principali che vanno sciolti per conseguire una crescita economica robusta, equilibrata e sostenibile; queste tre caratteristiche vanno insieme. Il tema di quest’anno, **”Alla ricerca dell’essenziale”**, è fondamentale ma spesso trascurato nella frenesia delle attività quotidiane. L’essenziale rappresenta ciò che rimane quando il superfluo viene eliminato; è il nucleo di valori e obiettivi che dà direzione e significato alle nostre azioni. Eppure, come ben sappiamo, distratti dall’immediato e dal contingente, perdiamo spesso di vista ciò che davvero conta. Il Meeting, con la sua partecipazione giovane e vibrante, offre un’opportunità unica per riflettere su cosa sia davvero importante nelle nostre vite e nella nostra società

La mia riflessione odierna sarà sui temi economici, quelli che mi sono più consoni. Ovviamente, lungi da me pensare che l’aspetto economico sia ciò che definisce l’essenza della vita umana; ne costituisce una parte importante per la funzione centrale che il lavoro e le scelte economiche hanno per le nostre vite, non solo perché condizionano la nostra capacità di vivere una vita piena, libera dal bisogno, ma perché contribuiscono a definire la nostra identità di membri di una comunità.

Nel mio intervento di oggi analizzerò quindi uno dei temi fondamentali per il nostro futuro economico: l’integrazione europea. Le domande che mi porrò sono numerose. Cosa rappresenta davvero l’Unione Europea? Quali sono le sue motivazioni profonde? E come contribuisce alla prosperità, al bene comune, alla convivenza pacifica, in definitiva a ciò che è essenziale? E questo è il tema del Meeting. Parlerò soprattutto di Europa, per poi svolgere alcune considerazioni sull’Italia. L’Italia e l’Europa sono intrecciate non solo dal punto di vista commerciale e finanziario, ma anche sociale e normativo. Per capire l’economia italiana dobbiamo quindi partire da quella europea.

Cominciamo con le lezioni che possiamo trarre dall’integrazione europea. Il progetto europeo ebbe inizio quasi 80 anni fa, dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale, come risposta all’aspirazione collettiva di prevenire ulteriori lotte fratricide tra gli Stati del continente. I due conflitti mondiali che si sono susseguiti in soli trent’anni rappresentarono il culmine di una storia di dispute e combattimenti che aveva tormentato l’Europa per secoli, con al centro la contrapposizione tra Francia e Germania. La motivazione alla base dell’integrazione europea è ben riassunta nella celebre dichiarazione di Robert Schuman del 9 maggio 1950. Cito Schuman: **”L’Europa non è stata fatta e abbiamo avuto la guerra.”** La soluzione che lo stesso Schuman proponeva era una unificazione economica che rendesse la guerra, e cito ancora le parole di Schuman, **”non solo impensabile, ma materialmente impossibile.”** Questa visione ambiziosa e lungimirante portò nel 1951 alla creazione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, ispirata da personalità illustri come lo stesso Schuman, Jean Monnet, Alcide De Gasperi (di cui quest’anno ricorre il 70° anniversario della morte), e Konrad Adenauer. Successivamente, con il Trattato di Roma del 1957, si compì un passo ulteriore verso la creazione di un mercato comune, di un’Unione doganale, e di strumenti volti a ridurre le disparità regionali. Questa genesi aiuta a comprendere le finalità più alte del progetto europeo: la creazione di interessi e intenti comuni tra Paesi con l’obiettivo di generare benessere e prosperità e con il fine ultimo di garantire la pace. Nelle parole del Presidente Mattarella, pronunciate lo scorso anno in questa stessa sede, l’Unione Europea fu un reciproco impegno di pace che i popoli e gli Stati si sono scambiati dopo l’abisso della Seconda Guerra Mondiale. Solo mantenendo viva questa aspirazione essenziale possiamo affrontare con il giusto slancio le difficoltà attuali.

Nel tempo, l’integrazione europea ha apportato importanti benefici ai cittadini. L’abolizione delle tariffe doganali interne ha favorito la specializzazione produttiva e la realizzazione di economie di scala, stimolando l’efficienza e la concorrenza e accrescendo l’occupazione e il benessere. Si stima che, in assenza del mercato unico, il reddito pro capite in Europa oggi sarebbe inferiore di un quinto. La creazione dell’Unione Europea nel 1992 e l’avvio dell’Unione Economica e Monetaria nel 1999 hanno rappresentato due tappe fondamentali, ampliando il coordinamento delle politiche economiche tra gli Stati membri e introducendo una politica monetaria unica. Dal 1999 a oggi, il commercio tra i Paesi dell’area dell’Euro è aumentato di un quarto in rapporto al prodotto interno lordo, e si sono intensificati i legami tra imprese all’interno delle filiere produttive europee. L’Euro è diventato la seconda valuta mondiale, rafforzando la nostra sovranità economica e la nostra rilevanza internazionale. Quindi, non abbiamo perso sovranità, ne abbiamo guadagnata.

Le crisi che hanno colpito il nostro continente in meno di 20 anni hanno però messo a dura prova l’Unione Economica e Monetaria. La risposta alla crisi dei debiti sovrani del 2010-2012, che fece seguito alla crisi finanziaria del 2008-2009, ha rappresentato un passo falso nel cammino europeo, anche a causa dell’incompletezza dell’assetto istituzionale dell’area dell’Euro in quella fase. Le politiche di austerità allora adottate hanno accentuato in più Paesi gli effetti recessivi della crisi, rendendo la successiva ripresa lenta e fragile e provocando fratture economiche e politiche tra Stati membri. Le risposte alle crisi più recenti, innescate dalla pandemia e poi dallo shock energetico, hanno invece segnato un progresso nell’impostazione delle politiche comuni europee. Sono stati effettuati interventi di bilancio significativi a livello comunitario, in particolare con il programma Next Generation EU, per sostenere l’attività economica, rafforzando così gli effetti della politica monetaria. Gli aiuti al settore privato sono stati affiancati da misure volte a innalzare la crescita potenziale. I governi europei hanno ora il compito di non disperdere questo slancio e di proseguire lungo il percorso comune. Parafrasando Jacques Delors, un’altra figura di spicco dell’europeismo, occorre affiancare al pompiere che spegne gli incendi un architetto che progetti palazzi, per costruire un’Europa più forte e più unita.

Passiamo ora a una fase più vicina, quella che risente degli effetti delle crisi e delle tensioni geopolitiche. Il progetto europeo si trova ora di fronte a sfide sia interne sia esterne che ne mettono alla prova la solidità e la coesione. L’indebolimento della crescita economica, la transizione dall’industria ai servizi e la connessa maggiore frammentazione del tessuto sociale, le difficoltà di integrazione di una popolazione immigrata sempre più numerosa, i divari di sviluppo tra diverse aree del continente ampliati dalla crisi dei debiti sovrani hanno eroso la fiducia nel progetto europeo in più Paesi. Sono emerse spinte nazionalistiche e il processo di integrazione ha rallentato. La risposta comune alla pandemia ha solo attenuato questa tendenza. Si tratta di fenomeni non esclusivamente europei, che si manifestano anche a livello globale. La sequenza di shock senza precedenti osservata negli anni scorsi, dalla pandemia all’aggressione della Russia all’Ucraina alla crisi energetica, ha avuto ripercussioni economiche di ampia portata, accentuando le spinte protezionistiche preesistenti. Dopo decenni in cui la globalizzazione sembrava inarrestabile, le dispute geopolitiche sono tornate a minacciare il sistema di scambi internazionali e la stessa stabilità dell’economia mondiale. Il commercio globale mostra preoccupanti segni di frammentazione, evidenziati dalla Brexit, dal minore sostegno degli Stati Uniti all’Organizzazione Mondiale del Commercio e dalle dispute protezionistiche tra Stati Uniti e Cina. Inoltre, i maggiori Paesi mostrano una crescente riluttanza a dipendere da partner commerciali con cui non condividono relazioni consolidate o affinità politiche, economiche e culturali. Questi sviluppi alimentano timori che il mondo possa nuovamente dividersi in blocchi contrapposti dal punto di vista economico, politico e persino militare. Di fatto, mettono in discussione i principi di cooperazione internazionale e l’assetto multilaterale che dal secondo dopoguerra hanno sostenuto lo sviluppo mondiale e contribuito alla pace tra le principali potenze. Vedete come sono legati i fenomeni di carattere economico con quelli di carattere sociale, politico e internazionale.

Un tale scenario comporta rischi significativi per l’economia europea, dipendente dalla domanda estera e povera di materie prime, quindi vulnerabile in un mondo frammentato sul piano commerciale. Le autorità europee hanno ora quindi il difficile compito di garantire prosperità ai cittadini in un mondo meno stabile e meno aperto. Questo obiettivo richiede progressi in più direzioni. Anzitutto, è fondamentale proseguire il cammino di integrazione. Un banco di prova per la nuova legislatura europea sarà la capacità di confermare il ricorso a progetti di spesa comuni e di avanzare verso un’Unione più completa e più integrata sul piano sia finanziario sia fiscale. Con il programma Next Generation EU, che terminerà nel 2026, è stato fatto un passo in avanti nelle politiche comuni, ma ora è necessario avviare una riflessione sui prossimi passi, man mano che ci avviciniamo alla sua conclusione. Il disegno e la portata dei programmi futuri dipenderanno in larga parte dal successo di quelli in corso, in particolare dalla capacità dei singoli Paesi di utilizzare proficuamente i fondi che sono stati loro messi a disposizione dai rispettivi piani di ripresa e resilienza.

In secondo luogo, è indispensabile rilanciare la crescita, non solo per garantire il benessere dei cittadini, ma anche per continuare a contare nel mondo. Vent’anni fa, sia l’Unione Europea sia gli Stati Uniti producevano un quarto del reddito mondiale. Da allora il peso dell’Unione Europea è sceso al 18%, mentre quello degli Stati Uniti è rimasto invariato. Noi contiamo di meno, l’Europa conta di meno economicamente. Il rafforzamento dell’economia europea deve avvenire su più dimensioni: riequilibrando la sua dipendenza dalla domanda estera e valorizzando il mercato unico, rendendola più competitiva, ponendola all’avanguardia in campo tecnologico ed energetico, mettendola in grado di provvedere alla propria sicurezza esterna. In precedenti occasioni ho discusso degli interventi possibili in questi campi e non lo rifarò oggi. Il mio discorso sarà pubblicato sul sito della Banca d’Italia e lì troverete tutti i riferimenti anche bibliografici alle mie affermazioni. Troverete anche gli interventi fatti in passato con le misure che si possono mettere in campo per rilanciare la crescita europea. Oggi voglio però soffermarmi su alcuni aspetti particolarmente rilevanti.

Cominciamo con la demografia e il mercato del lavoro. Le proiezioni demografiche indicano che nei prossimi decenni si ridurrà il numero di cittadini europei in età da lavoro e aumenterà il numero degli anziani, e la riduzione sarà rilevante. Questa dinamica rischia di avere effetti negativi sulla tenuta dei sistemi pensionistici, sul sistema sanitario, sulla propensione a intraprendere e a innovare, poiché le persone anziane intraprendono e innovano meno, e avrà effetti negativi sulla sostenibilità dei debiti pubblici. Per contrastare questi effetti è essenziale rafforzare il capitale umano e aumentare l’occupazione di giovani e donne. Avremo meno persone in età da lavoro, dobbiamo evitare che siano sprecate le risorse giovani e donne che abbiamo già a disposizione. Soprattutto, questo deve avvenire in alcuni Paesi, tra cui l’Italia, dove i divari di partecipazione al mercato del lavoro per genere ed età sono ancora troppo ampi. Anche misure che favoriscano un afflusso di lavoratori stranieri regolari costituiscono una risposta razionale sul piano economico, indipendentemente da valutazioni di altra natura, sociale o etica. L’ingresso di immigrati regolari andrà gestito in maniera coordinata all’interno dell’Unione, bilanciando le esigenze produttive con gli equilibri sociali e rafforzando l’integrazione dei cittadini stranieri nel sistema di istruzione e nel mercato del lavoro.

Vi è poi il nodo della produttività e della tecnologia. Anche con più occupazione e anche con più lavoratori stranieri, il contributo del lavoro alla crescita sarà al più contenuto. Solo una maggiore produttività, cioè un incremento del prodotto per ora lavorata, potrà assicurare sviluppo e redditi elevati. Tuttavia, in Europa la produttività cresce lentamente. Negli ultimi due decenni abbiamo accumulato un ritardo di 20 punti percentuali rispetto agli Stati Uniti, principalmente a causa della difficoltà che le imprese europee incontrano nell’utilizzare nuove tecnologie nel processo produttivo. Secondo studi recenti, questa debolezza delle imprese europee riflette la frammentazione delle attività di ricerca e sviluppo e la scarsa integrazione tra il mondo scientifico e quello delle imprese. L’industria europea è intrappolata in settori a tecnologia intermedia e poco presente in quelli alla frontiera, nonostante in Europa vi siano molti centri di ricerca che producono risultati di elevato valore. Il caso dell’intelligenza artificiale è emblematico. Sebbene in questo campo le università europee producano ricerche di qualità, le aziende continentali hanno una presenza trascurabile nello sviluppo della tecnologia. Tra il 2013 e il 2023, gli investimenti privati nel campo dell’intelligenza artificiale sono stati 20 miliardi di dollari in Europa, contro 330 miliardi negli Stati Uniti e 100 miliardi in Cina. Tre aree che hanno un peso diverso in Europa, ma pressoché equivalente, investono delle somme che sono di dimensioni molto diverse tra loro: 20 miliardi, 330, 100 miliardi. È evidente, per motivi sia economici sia strategici, che l’Europa non può limitarsi a essere un semplice utilizzatore di questa tecnologia. Deve ambire a un ruolo attivo nella sua produzione. Una presenza significativa dell’Europa nel settore dell’intelligenza artificiale, che oggi è dominato da pochi giganti tecnologici globali, accrescerebbe la concorrenza e determinerebbe benefici che oltrepassano la dimensione produttiva e riguardano i diritti essenziali dei cittadini, quali la tutela dei dati personali e il pluralismo nel settore dell’informazione. Rafforzare l’Europa e con essa l’Italia non è solo una necessità economica, ma è anche il modo per affermare la nostra sovranità strategica e i nostri valori fondamentali.

Guardiamo avanti. Per superare le sue debolezze e tenere il passo con il progresso a livello mondiale, l’Unione Europea dovrà avviare riforme profonde ed effettuare investimenti ingenti nei prossimi anni, quindi riforme e investimenti. Tra le riforme ho già sottolineato l’importanza di creare una capacità fiscale comune, senza la quale l’attuale governance europea, che vi ricordo è caratterizzata da una politica monetaria unica e da politiche di bilancio frammentate a livello nazionale, rimane squilibrata. Oggi abbiamo una governance europea squilibrata. L’idea che l’Unione Monetaria possa funzionare efficacemente senza una capacità fiscale centralizzata è semplicemente un’illusione e va superata. Una politica fiscale comune correggerebbe questo squilibrio e rafforzerebbe la coesione tra Paesi membri, facilitando la realizzazione di investimenti strategici su larga scala, come quelli nel campo dell’intelligenza artificiale che vi ho appena ricordato. Tra le riforme necessarie per la competitività dell’economia europea, mi limito a ricordare l’allargamento del mercato unico ai settori oggi esclusi, come le telecomunicazioni e l’energia, al fine di stimolare concorrenza ed efficienza; la realizzazione di un ambiente normativo favorevole all’attività imprenditoriale, che possa attrarre investimenti privati e incentivare l’innovazione; il potenziamento dei legami tra il mondo accademico e il sistema produttivo, al fine di trasformare i risultati della ricerca in prodotti e servizi competitivi sul mercato globale. Oggi facciamo ricerca, ma i prodotti li fanno altrove e questo non va bene. Anche sul fronte dei mercati finanziari, nel quale l’integrazione è molto avanzata, da anni mancano in Europa progressi significativi verso il completamento dell’Unione bancaria e la realizzazione di un mercato unico dei capitali.

Quanto agli investimenti, i leader europei hanno già individuato i settori chiave su cui concentrare l’impegno: la doppia transizione, quella ambientale e quella digitale, e comparti strategici come l’alimentare, l’energia, la sanità e la difesa, nei quali è necessario ridurre la dipendenza dall’estero per motivi strategici. Abbiamo imparato che dipendere troppo dall’estero può essere pericoloso per un’area delle dimensioni e dell’importanza dell’Eurozona. Investimenti in questi settori saranno efficaci se realizzati a livello europeo, con fondi sia pubblici sia privati. La spesa richiesta è talmente ingente, dell’ordine di centinaia di miliardi all’anno per molti anni, che è irrealistico pensare che le sole finanze pubbliche o i singoli Paesi possano sostenerla da soli. Nel testo del mio intervento troverete i riferimenti che chiariscono quali sono queste spese e il fabbisogno di investimento di molte centinaia di miliardi all’anno per molti anni. Molte delle attività menzionate hanno poi la natura di beni pubblici sovranazionali e richiedono pertanto un approccio coordinato a livello europeo. I beni pubblici sovranazionali sono attività di cui qualcuno può essere il produttore, ma molti beneficiano. Quindi, vi è chiaramente un disincentivo per il singolo a investire in quei settori, perché ci sarebbe una convenienza ad aspettare che lo facciano altri. In questi casi, è più ragionevole attendersi un approccio comune a livello europeo. Ciò consentirebbe inoltre di beneficiare di economie di scala e di aumentare l’efficienza degli investimenti e degli interventi.

Veniamo ora a ciò che è essenziale per l’Europa e per l’Italia. Molte delle debolezze strutturali dell’economia europea, che ho appena elencato, si ritrovano nell’economia italiana, in alcuni casi accentuate. Nelle considerazioni finali dello scorso maggio mi sono soffermato sui problemi strutturali che da un quarto di secolo frenano il nostro sviluppo. Dalla bassa crescita all’insoddisfacente andamento degli investimenti, dalla stagnazione della produttività fino alla preoccupante prospettiva demografica. In quell’occasione non ho mancato di sottolineare i segni di vitalità emersi negli anni successivi alla pandemia nella nostra economia. Investimenti, occupazione e crescita hanno mostrato una ripresa, e le imprese italiane hanno dimostrato una capacità competitiva sui mercati internazionali che non va sottovalutata. Questi progressi ci consentono di guardare al futuro con fiducia. Senza indulgere in eccessi di ottimismo, dobbiamo partire da essi per costruire uno sviluppo sostenuto, duraturo e inclusivo. La crescita resta l’obiettivo fondamentale per l’Italia, ma per ottenerla dobbiamo affrontare con decisione i problemi strutturali irrisolti. Dobbiamo concentrarci sulle finalità essenziali: rafforzare la concorrenza, potenziare il capitale umano, accrescere la produttività del lavoro, aumentare l’occupazione di giovani e donne, definire politiche migratorie adeguate. Il problema cruciale rimane però la riduzione del debito pubblico in rapporto al prodotto. Un debito elevato rende onerosi i finanziamenti alle imprese, frenandone la competitività e l’incentivo a investire. Espone l’economia italiana ai movimenti erratici dei mercati finanziari, quindi ci rende vulnerabili. Sottrae risorse alle politiche anticicliche, agli interventi sociali e alle misure a favore dello sviluppo. L’Italia è l’unico Paese nell’area dell’Euro in cui la spesa pubblica per interessi sul debito è pressoché equivalente a quella per l’istruzione. Sottolineo questo confronto tra i tanti possibili perché è emblematico di come l’alto debito stia gravando sul futuro delle giovani generazioni, limitando le loro opportunità. Affrontare il nodo del debito richiede politiche di bilancio orientate alla stabilità e al graduale conseguimento di avanzi primari adeguati. Tuttavia, la riduzione del debito sarà ardua senza un’accelerazione dello sviluppo economico. La strada maestra passa per una gestione prudente dei conti pubblici, affiancata da un deciso incremento della produttività e della crescita. Questo circolo virtuoso tra politiche fiscali prudenti e crescita aumenterebbe significativamente le probabilità di successo e rafforzerebbe la credibilità delle nostre politiche, alleggerendo il peso della spesa per interessi.

In conclusione, quali scelte ci consegneranno un domani migliore? La risposta possiamo trovarla nei valori che hanno ispirato la nascita e l’evoluzione dell’Unione Europea. Dopo la devastazione della Seconda Guerra Mondiale, l’essenziale per l’Europa è divenuto finalmente chiaro: costruire una società prospera e soprattutto pacifica. Questo valore fondante deve continuare a orientare le nostre scelte, soprattutto in tempi in cui sono riemersi conflitti e tensioni. Le ricette sono quelle che ci hanno guidato sin qui, basate sul principio della cooperazione e sull’obiettivo di costruire un’economia moderna capace di affrontare le sfide globali, con il fine di conseguire una crescita sostenuta e inclusiva come condizione per il bene comune e la concordia. Il contributo dell’Italia sarà decisivo in questo percorso. Affrontare le debolezze strutturali, ridurre il debito pubblico e promuovere una crescita elevata non solo rafforzerà la nostra economia, ma contribuirà anche alla solidità dell’Unione Europea. Solo così potremo lasciare alle generazioni future un’Italia e un’Europa che abbiano saputo distinguere l’essenziale dal superfluo, orientando le proprie scelte verso ciò che conta davvero. Grazie mille.

Vittadini. Grazie per il suo esauriente discorso. Vorrei iniziare la seconda parte dell’incontro approfondendo tre temi di attualità riguardanti questo incontro. Il primo, legato all’Europa, è il fatto che, come abbiamo sentito e con cui siamo completamente d’accordo, essa deve avere un nesso strutturale con l’Italia. Come possiamo superare i nodi che sembrano dividerci quando si discute sempre e solo del Patto di Stabilità? Ad esempio, come superare l’idea che questo Patto di Stabilità debba includere anche gli investimenti, che per alcuni osservatori e politici sembra essere un ostacolo per il nostro sviluppo? Il secondo tema, sempre riguardante questo nesso strutturale con l’Europa, è la politica monetaria. Sappiamo che in questi anni la BCE, per contrastare l’inflazione, ha adottato politiche restrittive aumentando i tassi di interesse. Lei ritiene che, per attuare ciò che lei ha detto, questo periodo sia ormai al termine o dobbiamo ancora aspettare per un rilancio? Il terzo tema riguarda il Next Generation EU, un argomento ormai centrale. Cosa pensa di come stiamo utilizzando questi investimenti? Possono rappresentare un’opportunità per un ribaltamento, per una ripresa di una crescita economica più stabile e per un rilancio della produttività, o rischiano di essere solo una parentesi dopo la quale, come nel “Giorno della marmotta”, dovremo ricominciare da capo?

Panetta. Grazie, Professore. Queste sono tre domande importanti e interessanti. Iniziamo dalla prima, il Patto di Stabilità. Dobbiamo valutare gli investimenti e come vanno definiti gli aggregati che rientrano all’interno di questo accordo che regola le politiche fiscali degli Stati membri. Premetto che credo che la discussione sulle regole non sia la più importante: non dobbiamo ridurre il debito perché esistono regole europee, ma perché è conveniente farlo. Nel mio intervento ho citato un dato: spendiamo per il capitale umano, per la formazione, per costruire il futuro, tanto quanto per gli interessi su spese passate. Questo, ovviamente, non è ottimale, conveniente o saggio. Dobbiamo ridurre il debito. Il debito è sicuramente sostenibile, ma comporta inefficienze così elevate. Dobbiamo investire sul futuro. Avere un debito così elevato ci costringe a spendere soldi per far fronte a spese passate, errori del passato che, come abbiamo visto, non ci hanno portato una crescita sensazionale. Quindi, l’esigenza di ridurre il debito prescinde dalle regole europee. Riguardo al nuovo Patto di Stabilità, ho in passato rilevato che forse avrebbe potuto essere più coraggioso, introducendo insieme a nuove regole un qualche progresso verso una fiscalità centralizzata a livello europeo, ma questo non è accaduto. Un altro obiettivo, che era alla base della discussione europea sulla nuova governance, era la semplificazione. Il nuovo patto è complicato almeno quanto quello vecchio; serve un ingegnere per comprenderne tutti i dettagli. Tuttavia, c’è un progresso. Per ridurre il rapporto debito/prodotto dobbiamo agire su entrambi i termini: debito e prodotto. Per intervenire sul debito dobbiamo adottare politiche fiscali prudenti, come ho detto nel mio intervento. Per intervenire sul prodotto, sulla crescita, dobbiamo fare riforme, investimenti, e avere un obiettivo di medio termine. Questo è stato introdotto nel nuovo Patto di Stabilità. Ora abbiamo un nuovo patto a livello europeo, una nuova governance che prevede che gli Stati aderiscano a programmi di 4-7 anni in funzione dell’ammontare degli investimenti e della qualità delle riforme. C’è una discussione fra la Commissione Europea e gli Stati membri su questo, sulla coerenza del piano complessivo di prudenza fiscale, riforme e investimenti per mantenere la sostenibilità del debito. Quindi non è sufficiente che il debito sia sostenibile; il debito italiano è ovviamente sostenibile, ma non deve essere elevato a tal punto da costringerci a spendere soldi in modo subottimale.

Per quanto riguarda la politica monetaria, la Banca Centrale Europea ha adottato una politica restrittiva negli ultimi due anni per un motivo molto semplice: c’è stata un’elevata inflazione, una fiammata inflazionistica che ha portato l’inflazione alla fine del 2022 a un picco massimo del 10%. Sapete che l’inflazione ha una serie di effetti negativi sull’economia, sul risparmio, comporta una redistribuzione di risorse ed è una sorta di tassa occulta. La Banca Centrale Europea ha nel suo statuto l’obiettivo di un’inflazione al 2%. È intervenuta e si è evitato che questa fiammata inflazionistica si radicasse, divenendo un’inflazione persistente che avrebbe potuto danneggiare l’economia e la produzione. Ovviamente questo ha avuto degli effetti: ha ridotto l’inflazione e ha frenato in qualche modo la crescita. La fine della restrizione è già iniziata. A giugno scorso abbiamo ridotto i tassi di interesse di 25 punti base e ora c’è una discussione su ciò che farà il Consiglio della BCE a settembre. Ovviamente ho la mia idea, ma non mi metto qui a discutere un argomento che sarà dibattuto in quel consesso, istituzionalmente preposto a decidere le misure di politica monetaria. Credo sia ragionevole aspettarsi che si vada verso una fase di allentamento delle condizioni monetarie, poiché l’inflazione sta scendendo, l’economia mondiale sta rallentando, sicuramente la Cina ha una crescita meno vivace rispetto agli anni scorsi, e l’economia americana ha mostrato qualche scossone quest’estate. Forse c’è stata qualche esagerazione nelle reazioni dei mercati, ma sicuramente l’economia degli Stati Uniti sta rallentando, così come l’economia europea, che attraversa una fase di bassa crescita o addirittura di stagnazione. Ovviamente, quando la crescita è più bassa, le pressioni inflazionistiche sono minori e quindi la politica monetaria ha motivo di essere meno restrittiva.

Per quanto riguarda il Piano Next Generation EU e il Piano Nazionale di Resilienza, la domanda è: quali effetti avrà? Credo ci siano le condizioni perché abbia effetti positivi sull’economia italiana. È un piano di dimensioni molto rilevanti: 194 miliardi, oltre 9 punti di PIL. È un piano finanziato per due terzi con prestiti e per un terzo con sovvenzioni, contributi a fondo perduto da parte dell’Europa. È un piano basato in larga parte su investimenti in attività che contribuiscono a rafforzare la crescita del prodotto, come innovazione, digitale e diversificazione delle fonti di energia. È un piano che viene attuato insieme a riforme. C’è una legge che deve accompagnare l’attuazione del piano, in cui si prevedono misure di riforma, e viene discussa annualmente. Sono già state introdotte riforme nel campo della giustizia civile e della concorrenza, tutte riforme che aumentano il potenziale di crescita. Noi, come altri centri di analisi, abbiamo delle stime, e la nostra stima è che, nel suo complesso, dal 2021, quando è iniziato, al 2026, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza avrà un effetto sul PIL di 9 punti percentuali, dovuti alla domanda, all’impatto degli investimenti e delle spese sulla domanda. Quindi, rispetto a un andamento di base, a un trend, ci si allontana verso l’alto cumulativamente per 9 punti percentuali e si torna sul trend. Tuttavia, vi sarà anche un effetto permanente sul reddito potenziale. Alla fine delle nostre stime, il reddito potenziale sarà più alto di circa 4 punti percentuali, quindi non solo un effetto temporaneo che può essere assorbito e riportato sul trend, ma anche un innalzamento di questo trend. Ovviamente queste sono stime soggette a una elevata incertezza: dipenderà, ad esempio, dalla qualità delle riforme e da quanto il PNRR rafforzerà la capacità di innovazione delle imprese. Tuttavia, credo che vi siano le condizioni per avere un effetto persistente e potenzialmente permanente sull’economia italiana. L’ultima cosa importante è che il PNRR segni un metodo: l’idea che lo Stato intervenga nell’economia con più investimenti, volti a rafforzare il potenziale di crescita, e con riforme. Se questo non sarà un intervento una tantum, ma diverrà il modo in cui il settore pubblico interviene a sostegno dell’economia, gli effetti saranno di gran lunga maggiori.

Vittadini. Naturalmente, sono molto contento di sentire, oltre alle parole che spesso ci dicono che siamo diretti verso il baratro, che esistono delle possibilità positive, e non dette da una persona qualunque, ma dal Governatore della Banca d’Italia. Questo si riflette sulla vita personale, collettiva e politica di tutti noi. Da questo punto di vista, vorremmo concludere l’incontro con le domande di alcuni giovani, che saranno coloro che dovranno vedere questo cambiamento di visione. Hanno voluto prepararle proprio avendo la possibilità di dialogare con lei. Chiamo, dunque, Luca Farè, che è tra l’altro uno dei giovani ricercatori in economia che hanno fatto la loro esperienza all’estero e sono tornati; sono quindi persone del mestiere.

Farè. Buongiorno innanzitutto, grazie per questa relazione. La mia domanda riguarda più il ruolo che le politiche pubbliche, in particolare la politica fiscale, possono avere in questa fase di profonda incertezza e instabilità economica, come anche lei ha ricordato. Negli ultimi anni, complice anche l’emergenza che lei giustamente ha elencato, abbiamo assistito a un aumento dell’intervento delle istituzioni pubbliche, anche delle istituzioni europee, interventi necessari all’interno dell’economia, un intervento sempre più pervasivo e maggiore rispetto agli anni passati. Mi chiedevo, quindi, se questa presenza sempre più importante del settore pubblico diventerà un elemento caratteristico del nuovo modello di sviluppo oppure se sarà semplicemente una fase transitoria.

Viola.
Grazie mille per la relazione. La mia domanda è più relativa al sistema bancario e a come esso possa supportare l’economia. Negli ultimi anni abbiamo visto che, grazie alla politica monetaria dell’Unione Europea, da un lato le banche hanno potuto avere una grande crescita del margine di interesse e quindi una grande crescita dei profitti. La conseguenza, però, per il mondo delle imprese è stata una diminuzione della disponibilità di credito, il che ha impattato in particolare le imprese non finanziarie di piccole dimensioni, che sappiamo essere la maggior parte del tessuto imprenditoriale italiano. Da qui nascono due domande: considerando che queste imprese hanno come fonte principale di finanziamento il credito bancario, come possono le banche essere chiamate ad agire in questo contesto macroeconomico per continuare a dare supporto alle imprese? E inoltre, come possono aiutarle a crescere dimensionalmente e magari aprirsi ad altre fonti di finanziamento alternative, quali i mercati, eccetera?

Calvi. Buongiorno e grazie per la sua relazione. La mia domanda è relativa ai mercati dei capitali, perché nonostante i passi verso l’integrazione, i mercati dei capitali europei sono ancora frammentati e poco sviluppati, in particolare rispetto al mercato statunitense. Per questo volevo chiederle quali cambiamenti sono necessari affinché possano attrarre maggiori risorse e che ruolo possano avere i mercati dei capitali per rilanciare la crescita e la produttività. Grazie.

Panetta. Allora, intanto, grazie e complimenti per la conoscenza che dimostrate, perché le domande non sono delle curiosità, ma toccano dei punti importanti che sono molto dibattuti e a volte controversi. Cominciamo con la prima. La politica fiscale avrà un ruolo maggiore in futuro, sì o no? Sì, lei ha ragione. La politica fiscale avrà probabilmente un ruolo maggiore nella stabilizzazione ciclica rispetto al passato per due motivi. Il primo è che gli eventi inattesi, quelli che gli economisti chiamano shock economici, sono diventati più frequenti e su scala globale molto ampi. A volte la sola politica monetaria non ce la fa. L’esempio è la pandemia. Ricordate che quando è scoppiata la pandemia siamo tutti rimasti in casa in lockdown. Vi era una crisi di fiducia, depressione dei consumi, e depressione degli investimenti; la politica monetaria non ce la faceva in quella fase a sostenere la domanda, a sostenere l’economia. Prima, perché lo shock era talmente grande che la sola politica monetaria non bastava; secondo, perché i tassi di interesse in quella fase della Banca Centrale Europea erano già negativi, e non si può andare troppo verso il basso coi tassi di interesse, vi è un limite alla possibilità di farlo. In quel momento serviva il contributo alla stabilizzazione ciclica della politica fiscale. Questo è un primo motivo. Gli shock globali sono più frequenti rispetto a prima e servono il contributo sia della politica fiscale sia della politica monetaria. Il secondo motivo riguarda gli shock che abbiamo registrato negli anni scorsi, quelli cosiddetti shock di offerta. Cosa vuol dire? Sono shock di domanda, quelli che colpiscono consumi e investimenti che sono le principali componenti della domanda, e shock di offerta, quelli che colpiscono la produzione. La politica monetaria è efficace contro gli shock di domanda perché sia i consumi sia gli investimenti rispondono ai tassi di interesse. Quando invece si tratta di shock che colpiscono l’incentivo a produrre, la politica monetaria ha minore capacità di influenza, lì deve intervenire la politica fiscale. Ricordate per esempio che quando abbiamo avuto lo shock d’offerta per antonomasia, lo shock al prezzo del petrolio aumentato durante gli anni scorsi per effetto dell’aggressione russa all’Ucraina, la politica monetaria poteva fare ben poco. Il petrolio è un bene il cui prezzo si determina sui mercati internazionali e non risponde alla politica monetaria dell’Europa. È un prezzo fissato da un cartello di produttori, l’OPEC, e al suo interno vi sono alcuni paesi che hanno una notevole influenza sul prezzo di mercato del petrolio, e anche se noi avessimo abbassato o alzato i tassi non avremmo avuto nessun effetto. In quella fase sono intervenuti i governi per fare cosa? Primo, per sussidiare i consumi di energia cercando di dilazionare, di spalmare nel tempo l’effetto dello shock energetico evitando che quello shock temporaneo avesse effetti dirompenti e permanenti sulla capacità produttiva. Secondo, ancora la politica fiscale è intervenuta per incentivare il passaggio dall’utilizzo di energia fossile all’utilizzo di energie alternative, solare, eolico, e gran parte del programma PNRR italiano sta incentivando il passaggio con il progetto Repower EU all’utilizzo di eolico e solare. Quindi interviene la politica fiscale perché la politica monetaria non ha effetto quando c’è uno shock di offerta. Questo vuol dire che la politica fiscale dovrà avere deficit maggiori? No, ovviamente no, perché sono interventi anticiclici che sono più espansivi quando l’economia è in una fase di rallentamento, ma possono essere meno generosi quando l’economia cresce. Quindi questo non avrà effetti necessariamente sui deficit. Tornando alla seconda domanda, il sistema bancario. Il sistema bancario ha avuto dei profitti molto rilevanti per due motivi essenziali. La politica monetaria, per risollevare la domanda in Europa, la Banca Centrale Europea è intervenuta con una grande offerta di liquidità, è stata l’inflazione e si sono alzati i tassi in modo molto rapido. Questa congiunzione tra tanta liquidità e tassi in aumento ha determinato un aumento dei tassi sui prestiti e una stabilità dei tassi sui depositi. Perché? Perché le banche non avevano bisogno di competere per ottenere raccolta sul mercato dei depositi. I tassi sono rimasti bassi. Quindi è un effetto della politica monetaria. Il secondo motivo è che abbiamo avuto inizialmente una recessione e poi una ripresa, in tutte e due le fasi del ciclo con profitti. Perché? Perché i governi sono intervenuti a sussidiare il lavoro. Noi abbiamo avuto la cassa integrazione guadagni a sostenere le aziende, quindi insolvenze non ve ne sono state. È stato fatto questo per motivi di politica economica ma l’effetto è che le banche hanno avuto molti profitti. Ora il credito si sta riducendo, il credito alle imprese. Abbiamo delle analisi che ci dicono che però questo è soprattutto un effetto di domanda. Le imprese oggi hanno molti profitti, gli investimenti stanno crescendo meno rispetto al passato, hanno meno bisogno di credito e quindi il credito si riduce non perché vi sia una carenza di offerta ma perché le imprese ne hanno meno bisogno. Non c’è dubbio che i profitti non dureranno per sempre, l’economia sta rallentando, vi sarà bisogno che le banche sostengano con il credito le imprese, gli investimenti, la domanda, l’attività produttiva. Come le banche possono aiutare le imprese a crescere dimensionalmente? Certamente dando assistenza finanziaria che favorisca una diversificazione delle fonti di finanziamento, offrendo servizi di consulenza, trasferendo conoscenze non solo finanziarie. Però le banche non possono intervenire in tutte le fasi della vita di un’azienda. Le aziende italiane sono piccole per motivi che non hanno a che fare col credito, che non hanno a che fare con le banche. Per esempio, in alcuni casi vi è una carenza di capitale umano, non è necessariamente facile per i manager di una piccola impresa diventare manager di grandi imprese, e quindi può darsi che le imprese non vogliano crescere perché trovano ottimale avere dimensioni ridotte. Vi può essere una reticenza ad aprirsi a soci esterni: quando un’impresa cresce dimensionalmente deve attrarre i capitali dall’esterno. Può esserci anche una reticenza culturale da parte del capitalismo familiare italiano ad aprirsi a esterni, oppure può esserci qualche motivo deteriorato. Più si cresce, più si è soggetti a visibilità, a scrutinio, a norme amministrative che possono essere costose. Può esserci la tentazione di non rispettare tutte le regole e si preferisce rimanere dimensionalmente piccoli. Quindi le banche possono aiutare le imprese, ma vi sono fattori che vanno al di là. C’era una terza domanda? Ah, sul mercato dei capitali. Sicuramente è una componente essenziale dell’Unione Europea, il mercato dei capitali unico. Nelle unioni monetarie vi è la condivisione del rischio che avviene in due modi. Uno è il bilancio pubblico e noi non ce l’abbiamo. Il secondo modo con cui si condividono i rischi tra le varie regioni di un’unione monetaria è il mercato dei capitali. Io, italiano, compro titoli di una società emessa in Germania e quei titoli seguiranno le sorti dell’economia tedesca, io sono italiano e diversifico i miei rischi. Non abbiamo nessuno di questi due canali, sarebbe importante avere un mercato dei capitali unico per favorire la condivisione dei rischi. Perché non si sviluppa? Io credo che il motivo principale sia che manca un titolo privo di rischio, un titolo pubblico europeo. Se guardate alla storia dei mercati finanziari più importanti del mondo, tutti sono nati intorno a quello che si chiama il safe asset, il titolo privo di rischio, i titoli pubblici. Prendiamo il caso degli Stati Uniti: la costruzione del sistema ferroviario, lo Stato formato dopo la guerra civile, cominciò a industrializzare e a costruire le ferrovie indebitandosi e emettendo titoli pubblici. L’emissione dei titoli pubblici ha comportato l’esigenza di una serie di altri servizi finanziari di contorno al possesso dei titoli pubblici, servizi di custodia, servizi di gestione, tutta una serie di attività che sono sorte nel tempo intorno a questo. Ma questo è vero per il mercato finanziario del Regno Unito, è vero per i principali mercati. Guardate come funzionano i mercati finanziari: gran parte delle attività viene svolta partendo da un tasso privo di rischio, diversificazione di portafoglio, la definizione del prezzo dei prodotti derivati, tutto parte da una base che è il titolo privo di rischio. Non abbiamo questo, non abbiamo ancora innovato la governance europea per arrivare a un’emissione di titoli comuni privi di rischio, e finché non l’avremo sarà difficile avere un mercato dei capitali unico.

Vittadini. Secondo me questo incontro ci ha insegnato qualcosa anche rispetto al titolo del Meeting, e dirò tre cose, brevemente, alla fine. Che cos’è l’essenziale? L’essenziale è conoscere, voler imparare. Perché io sono rimasto colpito dal fatto che chi ha seguito l’incontro ha sentito dal governatore delle proposte positive e innovative rispetto al tema dell’Europa. Oggi l’Europa è diventata un tema quasi da tifoseria, di tifo: sono contro, sono a favore, ma qui il problema è conoscere i meccanismi per proporre, penso solo all’ultima proposta dei titoli, per migliorare. Allora bisogna voler conoscere i problemi per poter migliorare, e questa è la prima cosa che riguarda che cos’è essenziale e forse insegna molto anche al dibattito pubblico, che deve uscire dalla tifoseria. Il secondo aspetto di metodo è il dialogo, perché io penso che oggi sia strano, di solito, che un governatore della Banca d’Italia possa parlare non solo a esperti ma a gente che lavora in diverso modo, molti giovani, imprenditori, lavoratori, e dialogare su questi temi in modo tale che ci sia quel nesso tra le istituzioni, che sono fondamentali per il nostro sviluppo, e la vita della gente, che ne fa un fattore anche di speranza. Il terzo tema quindi è la continuità. Io faccio il presidente della Fondazione per la Sussidiarietà e dico che il Meeting per noi è un passaggio, un attimo della vita di tutti i giorni in cui torneremo e faremo tesoro nel nostro quotidiano, perché l’impegno è continuo, non è un festival in cui si va a curiosare ma, come diceva giustamente il governatore rispetto alle domande dei giovani, sono domande che ci permettono di migliorare. Quindi essenziale vuol dire conoscere, dialogare e continuare. Per questo ringraziamo il governatore non solo per la sua competenza e per le cose interessanti che ci ha detto sul piano dei contenuti, ma anche per il metodo che ci ha insegnato e lo rivorremo qui il più presto possibile. Grazie a tutti.

Data

21 Agosto 2024

Ora

13:00

Edizione

2024

Luogo

Sala Neri Generali-Cattolica
Categoria
Incontri