IL GUSTO DEL QUOTIDIANO. LAVORO E COMPIMENTO DI SÈ, DA SAN BENEDETTO AD OGGI

Stefano Berni, Direttore Generale, Consorzio di Tutela del Grana Padano; Alessio Mammi, Assessore all’agricoltura e all’agroalimentare, caccia e pesca della Regione Emilia-Romagna; Roberto Ravaioli, Curatore Mostra “Il gusto del quotidiano. Lavoro e compimento di sé, da san Benedetto a oggi”; Diego Remelli, Presidente Goito Get Up; Fabio Saini, Amministratore Delegato e Direttore Tecnico Laica Spa. Modera Camillo Gardini, Presidente Cdo Agroalimentare.

È possibile vivere il lavoro all’altezza dei propri desideri? Da cosa può ripartire la creatività e la positività dell’uomo nell’affrontare la realtà, in un contesto di incertezza generalizzata? Sono queste le domande che attraversano tutto il percorso della mostra “Il gusto del quotidiano”, un viaggio immersivo e coinvolgente che rilegge la crisi odierna a partire da un’altra grande crisi, quella conseguente alla caduta dell’impero romano d’occidente. I relatori si confronteranno su queste domande partendo dalle loro esperienze sul lavoro.

Con il sostegno di Regione Emilia-Romagna APT.

IL GUSTO DEL QUOTIDIANO. LAVORO E COMPIMENTO DI SÈ, DA SAN BENEDETTO AD OGGI

IL GUSTO DEL QUOTIDIANO. LAVORO E COMPIMENTO DI SÈ, DA SAN BENEDETTO AD OGGI

 

Lunedì, 21 agosto 2023

ore: 18:00

 

Spazio Internazionale C3

 

Partecipano

Stefano Berni, Direttore Generale, Consorzio di Tutela del Grana Padano; Alessio Mammi, Assessore all’agricoltura e all’agroalimentare, caccia e pesca della Regione Emilia-Romagna; Roberto Ravaioli, Curatore Mostra “Il gusto del quotidiano. Lavoro e compimento di sé, da san Benedetto a oggi”; Diego Remelli, Presidente Goito Get Up; Fabio Saini, Amministratore Delegato e Direttore Tecnico Laica Spa.

 

Modera

Camillo Gardini, Presidente Cdo Agroalimentare.

 

Gardini. “L’esistenza umana è un’amicizia inesauribile”, questo è il titolo del Meeting di quest’anno. “Chi è l’uomo che chiede per sé giorni felici?” Questo è il prologo della Regola di San Benedetto, quello che San Benedetto chiedeva agli aspiranti monaci che volevano entrare in monastero. La storia del monachesimo ci insegna che un’amicizia inesauribile può avere solo come origine, come fondamento, una felicità, un desiderio di felicità, un desiderio di corrispondenza ai desideri del cuore. Questo rende durevole un’amicizia. Sembra impossibile, ma i monasteri ci insegnano che la loro durata, mediamente, è stata di 500 anni, mentre vi sono oggi delle startup nel mondo della finanza che durano, forse, 50 giorni. Qualcosa dobbiamo trarre da questo. Gruppi di amici del settore agroalimentare, del mondo letterario, insegnanti, del mondo della manifattura, hanno iniziato già da alcuni anni la realizzazione di luoghi dove a tema viene messo il lavoro e viene messo il lavoro posto all’altezza dei desideri del cuore. Vogliamo trarre dall’esperienza del monachesimo quello che è vivibile da un uomo contemporaneo e da laici, non da consacrati. E abbiamo sperimentato che da questa esperienza è nata una creatività, è nato un cambiamento, ha generato fecondità. E da questa esperienza assieme al consorzio Grana Padano abbiamo pensato di fare una mostra al Meeting. La mostra ha titolo “Lavoro e compimento di sé: da San Benedetto a oggi” e di questo vogliamo parlare in questo incontro con gli amici e relatori. Al tavolo con me vi sono alcuni protagonisti della mostra e del video e anche un grande amico, l’Assessore Mammi, all’Agricoltura, della Regione Emilia Romagna. Propongo un grande applauso ai nostri relatori. Ringrazio voi della presenza e do subito la parola al curatore della mostra perché, se è vero che assieme a Stefano Berni e assieme al gruppo della CDO Agroalimentare, ci siamo visti diverse volte a progettare questa iniziativa, è vero anche che Roberto Ravaioli, il curatore della mostra, ci ha messo tanto per renderla ancora più efficace. E quindi Roberto, a te la parola. Dicci chi sei, cosa fai e l’esperienza di questo lavoro.

 

Ravaioli. Grazie. Buonasera a tutti. Io sono Roberto Ravaioli, sono un musicista, comunicatore e organizzatore culturale. Mi sono scritto l’intervento perché mi hanno detto che deve stare in certi tempi e rischiavo di dilagare; quindi, abbiate pazienza se lo leggerò. Quando l’estate scorsa gli amici della CDO Agroalimentare mi hanno proposto di curare una mostra che raccontasse esperienze attuali di compagnia sul lavoro e richiamasse, parallelamente, l’impatto che il monachesimo cristiano ha avuto sulla rinascita dell’Europa dopo la caduta dell’Impero Romano, da un lato, sono stato molto contento della fiducia che mi si accordava, dall’altro non mi era ben chiaro quali potessero essere i punti di contatto fra due nuclei tematici così distinti e così lontani nel tempo. Come unico piccolo punto di partenza avevo ben chiaro una evidenza sperimentale che riguarda il rapporto fra fede e positività umana; e cioè, nei miei frequenti incontri con i dirigenti scolastici delle scuole statali convenzionate con un progetto di diffusione della pratica musicale promosso dalla fondazione che presiedo, spesso mi accadeva di scoprire che i dirigenti più ricettivi, propositivi e appassionati – chi insegna sa quanto sia importante il dirigente per la vita di una scuola – avevano alle spalle, in qualche modo, un’esperienza di fede. È stato proprio un riscontrare un dato oggettivo, e questo è stato il primo passo. Il secondo passo che ho fatto è stato quello di incontrare i monaci benedettini della Cascinazza, ai quali ho chiesto quale fosse la natura della loro esperienza e anche quale potesse essere, secondo loro, il punto di contatto fra i due nuclei che mi venivano proposti. Verso la fine del nostro incontro uno di loro ha citato proprio il passo che ha appena citato Camillo, quello della regola del prologo di San Benedetto – che fra l’altro è stato anche il titolo di un’edizione passata del Meeting – è una frase che domanda, citando un salmo: “Chi è l’uomo che vuole la vita e arde dal desiderio di vedere giorni felici?” Ecco il punto di contatto. Mi si è chiarito lì! Citando questo Salmo, infatti, San Benedetto identificava non solo gli uomini che nella vita monastica cercavano il compimento della propria umanità, ma l’orizzonte ultimo che muove ogni uomo nella ricerca quotidiana della propria felicità, nel lavoro, negli affetti, nei desideri piccoli e grandi. E quindi è diventato questo il filo conduttore: è possibile vivere la vita, e quindi il lavoro, all’altezza del proprio desiderio? Esiste un luogo dove condividerlo con altri uomini? Il monachesimo cristiano è nato 17 secoli fa come risposta a queste domande ma, ancora oggi, questa è la sfida per tutti; ed è la stessa sfida che i gruppi di persone che hanno promosso la realizzazione di questa mostra colgono ogni giorno facendosi compagnia sul lavoro. É nato così un percorso che vuole coinvolgere il visitatore in questa sfida, cercando, anche attraverso l’ambientazione immersiva e multimediale, di muovere il desiderio di conoscere, di incontrare e di far proprie le domande che vengono poste. Si parte così – ve lo sintetizzo velocemente per chi non l’ha visto ancora – si parte dall’atrio in cui i temi portanti della mostra, sintetizzati nel titolo, ovvero: il gusto del quotidiano, il lavoro, il compimento di sé e San Benedetto, vengono proposti come filo conduttore del percorso. Segue una stanza immersiva che abbiamo chiamato “la macchina del tempo” nella quale, attraverso proiezioni sulle pareti, sul pavimento, veniamo trasportati. Prima proiettati nello spazio: vediamo la Fiera sotto i nostri piedi; e poi, trasportati indietro nei secoli, fino alla crisi provocata in Occidente dalla caduta dell’Impero Romano, il periodo travagliato nel quale nasce la figura di San Benedetto, che imprime una svolta originale alle esperienze monastiche da Montecassino in poi. Entriamo poi così in un ambiente, trasportati indietro nel tempo, che richiama un chiostro monastico – luogo centrale del monastero – in cui riscopriamo l’enorme impatto che gli ordini monastici hanno avuto sulla rinascita dell’Europa medievale. Senza pianificare nulla, grazie alla positività e alla creatività che scaturisce da una vita orientata al rapporto col Mistero, vissuta in una compagnia stabile, i monasteri contribuiscono in modo determinante a far ripartire l’economia, l’agricoltura, l’alimentazione, le scienze, le arti, la cultura, la convivenza sociale, addirittura le regole elettorali, l’urbanistica, il paesaggio. È stata anche per me – vi confesso – una vera sorpresa imparare quanto la società e l’Europa in cui viviamo oggi debbano agli ordini monastici, e quanto questa consapevolezza sia andata perduta nella coscienza della maggioranza delle persone. Due esempi per tutti – e sto per concludere – : oggi pasteggiamo tutti i giorni con il formaggio grana, oppure, ascoltiamo musica suonata su spartiti scritti con le note, senza sapere che, entrambe le cose, sono nate mille anni fa all’interno di monasteri e sono divenute da secoli patrimonio di tutti. Un gusto del quotidiano, quindi, quello espresso dai monaci, che anche oggi desideriamo per le nostre giornate. Un desiderio di felicità insopprimibile che, a volte però, lasciamo sopito accontentandoci di sopravvivere. La crisi che viviamo oggi – ed è questo il tema della terza stanza – una crisi che fra eventi drammatici come la guerra, la pandemia, la smaterializzazione della realtà e dei valori, la frammentazione dell’io, è forse più insidiosa di quella vissuta dai nostri simili al tempo delle invasioni barbariche. Per questo è indispensabile cercare luoghi di compagnia che ci aiutino a tenere alto il desiderio, a non rinunciare a vivere la vita e il lavoro all’altezza dei desideri del cuore. Nelle ultime due sezioni della mostra queste esperienze diventano incontrabili, incontrabili per tutti coloro che sono alla ricerca; una proposta concreta perché il gusto del quotidiano non resti solo un desiderio. Grazie.

 

Gardini. Molto bene. Roberto ha anticipato gli interventi successivi. Adesso do la parola a Diego Ramelli che è uno dei protagonisti del video della mostra. Diego, raccontaci chi sei, cosa fai e poi del tuo gruppo di giovani che ha come riferimento non solo il Grana Padano, ma anche attività del territorio. Prego.

 

Remelli. Sì. Sono Diego Remelli. Sono un allevatore del Mantovano. Ogni giorno mungo 160 vacche e il mio latte va in filiera Grana Padano, in una delle tante cooperative che trasformano il latte della mia zona in questo prodotto; sono uno dei tantissimi allevatori giovani che compongono questa filiera. Innanzitutto, volevo fare una premessa, come giovane volevo ringraziare il Meeting, Camillo e tutto lo staff di CDO Agroalimentare che ci ha permesso di essere qui oggi; e soprattutto un grande grazie lo volevo fare al consorzio di tutela del Grana Padano che, all’interno della mostra che ha proposto e finanziato, ha voluto anche inserire la testimonianza dei giovani. Questo è un messaggio importantissimo e per noi veramente conta molto. Siamo tantissimi giovani che prendono in mano le stalle dei padri e vanno avanti con questo lavoro; e che ci unisce è un elemento di sintesi, che fa la sintesi tra i nostri valori, le nostre aspettative, la nostra concezione del valore e del lavoro. Questo elemento di sintesi è il Grana Padano, è il nostro prodotto. Noi ci identifichiamo con questo prodotto e, partendo da questo prodotto, diamo vita a una serie di azioni nostre e che investono il nostro territorio, che oggi sono importanti e ci danno anche un senso bello di quello che è il nostro lavoro e ci danno anche un senso di quello che vogliamo fare e di perché vogliamo dedicare anche tutta la vita a questo lavoro, al nostro ambiente, a questo prodotto. Sono uno dei tanti giovani, perché noi siamo tanti e siamo tutti coesi, siamo tutti vicini, siamo tutti in collegamento. Siamo tutti improntati alla valorizzazione del nostro territorio. Tra le altre cose, sono anche presidente di un’associazione che raccoglie i giovani del mio territorio e si prefigge di fare promozione, di portare avanti, far conoscere, non solo il prodotto, ma anche tutto il contesto, tutto ciò che crea il nostro lavoro all’interno del nostro ambiente, della nostra comunità. E questo è importante. È importante perché noi ereditiamo e possiamo fare il lavoro che stiamo facendo grazie al lavoro di quei monaci, quei monaci che a mani nude hanno bonificato delle paludi e hanno creato una condizione che per mille anni ha creato sviluppo, progresso e comunità. Oggi un giovane come me può investire in robotica, puoi investire in energie rinnovabili, può vedere negli sguardi degli altri giovani che fanno il suo stesso lavoro il sostegno che gli serve per andare avanti grazie al lavoro di quegli uomini, grazie a una filiera che dura da mille anni. Il nostro obiettivo, il nostro senso di ciò che facciamo come giovani è proprio quello di portare avanti questa spinta. E in che modo possiamo farlo? Possiamo farlo come fecero quei monaci mille anni fa, cioè vincendo le sfide del proprio tempo. In quegli anni c’era bisogno di produrre, di sfamare, di sollevarsi dalla povertà; oggi noi abbiamo bisogno di vincere le sfide come il clima, abbiamo bisogno di investimenti che producano un prodotto sempre più da una filiera ecosostenibile, totalmente ecosostenibile; abbiamo bisogno, come giovani, di spiegare al nostro territorio quello che facciamo e fare in modo che la comunità capisca il valore del nostro lavoro. E abbiamo bisogno di continuare a investire nel benessere, sia degli animali, ma soprattutto di chi lavora con noi e delle nostre aziende. E il fatto più bello – che racconta un po’ anche chi siamo, cosa facciamo e il senso del nostro lavoro – è proprio quello di vedere quanti ragazzi giovani, non solo prendono le aziende dei padri, ma ci seguono come collaboratori esterni, ci seguono come dipendenti. Io vengo da una latteria che sui giovani ha investito tantissimo, sia all’interno dei proprietari, sia all’interno dei dipendenti. Tanto che continuiamo – grazie anche a una politica del consiglio di amministrazione molto illuminata – ad assumere ragazzi sia in produzione che sul lato della commercializzazione. Siamo arrivati a una media di 34 anni dei dipendenti. Il fatto di vedere giovani che si mettono insieme a noi a costruire la nostra filiera, il nostro futuro, è il lavoro, è la soddisfazione più grande che possiamo ottenere, la spinta più grande, il fatto più tangibile che possiamo vedere, che quello che stiamo facendo ha un senso e ne vale la pena. Come gruppo giovani, poi come giovani delle latterie, stiamo veramente lavorando tantissimo per promuovere il nostro territorio, il nostro prodotto, investendo moltissimo nella comunicazione, nei nuovi sistemi di comunicazione (sia social, sia tramite le feste e le manifestazioni), sia facendo gruppo, perché anche solo il fare gruppo, il conoscersi fra di noi, crea la classe dirigente che un giorno andrà poi a portare avanti le prerogative di questa filiera. Questo ci dà veramente la spinta, non tanto a realizzarci come persona, – e questo nella mostra ho voluto che saltasse fuori perché per me è importante – perché il senso del nostro lavoro non è tanto realizzarci noi o arrivare veramente al risultato economico, ma costruire. Riuscire a continuare a costruire quella filiera che quei monaci costruirono dietro le basi in quegli anni, che i nostri padri hanno portato fino a noi e che oggi noi abbiamo la responsabilità di portare avanti col nostro lavoro, vincendo le sfide che ho detto prima. Il senso che accomuna tutti questi ragazzi è proprio il fatto di dire: “Noi vogliamo girarci un giorno e vedere che abbiamo costruito una filiera che durerà altri mille anni”. Perché il senso – penso, ma come pensano tutti gli altri miei colleghi giovani – il senso del lavoro nostro è quello di costruire una cattedrale: monaci o giovani della filiera che sia.

 

Gardini. A Stefano Berni diciamo: “Vinci facile a fare il direttore del consorzio con un gruppo così!”. Stefano, raccontaci come è nata questa mostra insieme e perché il Grana Padano investe in un’iniziativa come questa

 

Berni. Ma, perché noi giovani di 40 anni fa avevamo pensato quello che lui ha raccontato adesso e, un po’ coi gomiti alti, un po’ convincendo i nostri predecessori, abbiamo costruito – o meglio – abbiamo rispolverato e rinforzato un percorso che durerà altri mille anni – perché mille anni ce li ha già – e li durerà perché questa voglia di essere protagonisti del proprio futuro, della propria storia, che lui ha rappresentato poco fa e che rappresenta nel video di quella che è una mostra imperdibile – e che invito tutti coloro che non sono andati a vedere ancora, ad andarla a vedere – è quello che racconta. Perché il Consorzio ha deciso di stimolare, partecipare, a questa storia attraverso la mostra? Perché facciamo parte di questa storia. Ma per una ragione principale, perché la ragione fondamentale sta nell’amicizia che da centinaia d’anni sull’insegnamento dei monaci, si è radicata tra le persone che hanno iniziato a fare, in punti diversi, le stesse cose. Quella che possiamo chiamare “la cooperazione coinvolgente”, cioè lo stare insieme per gli stessi obiettivi. Pensate che il Grana Padano è nato come primo esempio della storia di lotta allo spreco. Adesso si parla di lotta allo spreco – giustamente – in mille occasioni. I monaci hanno inventato, oltre mille anni fa, un metodo per portare avanti nel tempo – queste cose le ho già dette qui al Meeting, appuntamento per me da 30 anni irrinunciabile, e proprio perché sono giovane, per quello – per portare avanti nel tempo le proprietà nutritive del latte abbondante quando c’era tanta fienagione. Allora non riuscivano gli allevatori a conservare il fieno e i nostri animali non vanno in letargo – non sono degli orsi – e quindi consumano, e anche quando c’è poco fieno fanno meno latte perché consumano per vivere; e quindi è stato una lotta allo spreco, non bisognava buttare via il latte. E questa è un’opera che si ripete ogni giorno con quotidianità, passione, dedizione, con lavoro e con armonia. La molla che tiene insieme un prodotto unico, fatto da tanti – che si chiami Grana Padano o che si chiami un altro un altro nome, un prosciutto – è l’armonia. Noi siamo nati nel 1135 all’Abbazia di Chiaravalle, a Milano, e lì abbiamo costituito – proprio quest’anno –, istituito la nostra fondazione, la Fondazione Grana Padano. E da lì abbiamo deciso, assieme a Camillo e agli amici del Meeting, di provare a stimolare, a sponsorizzare un racconto. Ma non ci siamo limitati a questo, abbiamo deciso di farla nostra questa mostra. E dopo il Meeting, in edizione più sintetica, la porteremo a Milano, a Padova, a Brescia, a Mantova, a Piacenza, a Cremona, a Bergamo, a Verona. Ma non perché vogliamo celebrarci – mica ne abbiamo bisogno: ci conoscono, se non tutti, quasi tutti –. Noi lo facciamo per condividere una storia, per ricordare ai giovani e ai meno giovani, e quelli ancora meno giovani, che solo attraverso la cooperazione e l’armonia tra la gente si bonifica un territorio, che è il territorio del cuore; si sviluppa un’impresa che è l’impresa dell’esistenza umana; e si coltiva un’amicizia che si diffonde, si tramanda, diventa produttiva ma, soprattutto, diventa contagiosa. Occorre essere contagiosi nelle cose buone. Questi sono gli ingredienti indispensabili per la ricerca e l’individuazione della felicità delle persone. E proprio perché – come diceva 15 giorni fa a Lisbona il Santo Padre che nella vita nulla è gratis – tutto va conquistato con l’amicizia, con il lavoro e con la cooperazione tra la gente. Noi del Grana Padano con le nostre 200 imprese casearie, le 4000 stalle, le 50 mila persone coinvolte, siamo umilmente, e tra tanti errori, una piccola testimonianza che prosegue e si ripete ogni giorno nel gusto e nel sapore del quotidiano, stando insieme e lavorando in armonia e amicizia, con il profitto per tutta la nostra filiera e il nostro numeroso popolo. E con questo spirito e queste linee guida abbiamo raggiunto dei risultati ragguardevoli di cui andiamo fieri, che mi piace raccontare. Siamo diventati il prodotto DOP più consumato sia in Italia che nel mondo. Siamo ininterrottamente cresciuti di oltre il 2% all’anno, cioè il 50% negli ultimi 20 anni. Siamo considerati, – nella categoria dei formaggi duri – il migliore al mondo nel rapporto qualità prezzo; così come gli amici del Parmigiano Reggiano sono certamente il formaggio più famoso e blasonato al mondo; e sono due orgogli italiani. Siamo diventati il più grande player del latte italiano. Siamo stabilmente – in Italia e in Europa – la destinazione più remunerativa del latte omogeneo – quello con l’uso di silomais – ma, soprattutto, abbiamo imparato a diventare insieme un corpo unico con gli stessi obiettivi di qualità, salubrità e rispetto del consumatore. Ed è questo che noi vogliamo testimoniare e diffondere, concludendo, per essere monito dei nostri errori ma copiati nel buono del nostro percorso di tutti i santi giorni. La mostra che avete visto o che vedrete, è il nocciolo fondante delle nostre radici, del nostro quotidiano. Ed è solo nelle radici che si può trovare solidità, continuità e il futuro a cui auspicava e che raccontava Ramelli prima. Quindi andate a vedere la mostra e venite a rivederla, per viverla meglio, anche nelle città dove nei prossimi mesi la faremo vivere, le città del nostro territorio. Perché lì si racconta la storia dello stare insieme per fare una cosa, non solo per fare il Grana Padano o un prodotto alimentare. Perché solo stando insieme con armonia per fare le cose si costruisce la felicità e si dà solidità ai giovani, la stessa che noi ex-giovani abbiamo ottenuto 40 anni fa e che abbiamo il dovere di tramandare ai giovani di oggi che devono trasferire ai giovani di domani. Grazie.

 

Gardini. È indubbio che la vitalità che dimostra avere il territorio del Grana Padano è frutto di una grande cooperazione, collaborazione e, anche, fiducia che dà nel futuro e i giovani poi rispondono. Posso dire, purtroppo, che non è così in tutti i territori. Diamo la parola adesso a Fabio, Fabio Saini perché, provenendo da un altro settore, però partecipa anche lui a quei luoghi di cui accennavo all’inizio, luoghi dove si vuole mettere a tema il proprio lavoro e la propria felicità. Fabio, raccontaci chi sei e cosa fai e che cosa ha prodotto partecipare a questi luoghi.

 

Saini. Buongiorno a tutti. Mi chiamo Fabio, ho 49 anni, sposato felicemente con Maura. Abbiamo il dono di avere quattro bellissimi figli. Faccio uno dei mestieri più belli del mondo: produciamo cioccolato insieme ai miei fratelli, Andrea e Lucia, nell’azienda che ha fondato nostro padre. Se devo dire di me chi sono, direi che sono un uomo tanto amato; un uomo – per riprendere il prologo – che vuole la vita e arde dal desiderio di vedere giorni felici. Qualche mese fa vengono da noi a cena dei ragazzi universitari e Giovanni, che studia filosofia, mi dice una cosa che mi è rimasta impressa. Dice che lui ha incontrato all’Università dei ragazzi che si gustano la vita, che si gustano il quotidiano in tutto ciò che fanno: nello studio, nello stare insieme, nell’uscire la sera, nel fare tutto quello che occorre fare in quell’età. E dice: “Ed è bellissimo, sto con loro e mi gusto la vita; poi però – e questo mi è rimasto impresso – mi guardo intorno e vedo degli adulti che sono tristi, che non sono felici; e allora mi assale una domanda, un dubbio: non è che quello che sto vivendo ha la data di scadenza o, addirittura, che è falso?” Quello che dico è: prendere sul serio il proprio desiderio di felicità – che è un desiderio inestirpabile – non è solo la risposta a una domanda che abbiamo nel cuore, ma è anche il segno più grande di amicizia che possiamo avere tra di noi, innanzitutto rispetto alle giovani generazioni che hanno bisogno di adulti felici, di adulti che sono compiuti in ciò che fanno; di adulti che, nel modo in cui stanno al mondo, nella luce che brilla nei loro occhi, dicono: ne vale la pena; dicono: la vita è un’avventura meravigliosa. E allora – poniamoci questa domanda, me la sono posta – che cosa mi fa gustare la vita? Questa è la questione. Anche perché l’alternativa a gustarsi la vita è una vita insapore, è una vita dove ci si tappa il naso, dove si tira avanti; ma noi siamo fatti per cose grandi, abbiamo dentro un cuore che desidera l’infinito. Come lo trattiamo questo cuore? E, riguardando alla mia vita, a quello che ho incontrato, riconosco dei punti importanti. Il primo punto lo potrei chiamare “l’abbraccio”. Ciò che ha caratterizzato la mia vita, ciò che ha segnato uno svolta, è avere degli amici che mi hanno voluto bene, mi hanno abbracciato; ma non perché – che ne so – fossi simpatico, portassi i cioccolatini, avessi chissà quali meriti; perché riconoscevano in me e riconoscono in me un valore infinito di una persona che è data, di una persona – che come tutte le persone – ha un valore infinito. Le donne della Rose – uso questo esempio: era una bellissima mostra dello scorso anno – ciò che le fa ripartire è esattamente quell’abbraccio di qualcuno che le guarda e vede in loro una bellezza, un valore, che loro stesse non vedevano. Rose – l’infermiera dell’Uganda – non bastava che portasse le medicine, loro non le avrebbero prese; le hanno iniziate a prendere il momento in cui hanno assaporato la vita, nel momento in cui qualcuno le ha abbracciate, nel momento in cui qualcuno ha voluto bene a loro. È interessantissimo un sondaggio in cui mi sono imbattuto nei mesi scorsi secondo cui – condotto su quasi 10.000 lavoratori in Italia – si chiedeva ai lavoratori che cosa desiderassero di più. Al primo posto – e, sottolineo, c’era anche la questione reddituale, ma non compare nei primi tre posti –, al primo posto c’era il pieno apprezzamento per il lavoro svolto. Perché? Perché come un bambino piccolo quando fa un disegno lo porta ai genitori per farlo vedere, perché ha bisogno di quella stima, quel desiderio, chiaramente, rimane nel cuore delle persone. E allora dire a una persona: “Bravo, hai fatto un bel lavoro” risponde a un desiderio; dice a quella persona: “Bravo, ti ho guardato, sei in gamba; vedo in te una grande capacità”. Quindi domandiamoci: nell’ultima settimana di lavoro, quantomeno, abbiamo detto a qualcuno: “Bravo, hai fatto un bel lavoro”. Se non l’abbiamo detto a nessuno abbiamo perso delle grandi possibilità. Il secondo punto è quello che potrei sintetizzare così: prendere sul serio il proprio desiderio di infinito. Condivido con voi un esempio che mi ha sempre colpito molto, perché è fondamentale avere una domanda aperta. Se uno non ha una domanda non coglie tanti spunti che arrivano dalla realtà. Un caro amico va in montagna con la famiglia, arriva ad una fonte e la bambina più piccola – si chiama Sofia – vede una fragola; chiaramente la raccoglie, la fa vedere alla mamma e al papà e nasce una domanda: non è che ce ne sono altre di fragole? E la cosa meravigliosa è che, facendo lo stesso sentiero dell’andata, raccolgono un cesto di fragole che, chiaramente, non erano spuntate mentre venivano su, c’erano anche prima. Ma cos’è che mancava? Mancava la domanda. La domanda è quindi quello che ci consente di cogliere qualcosa che c’è e che non vediamo. Ecco perché è fondamentale avere una domanda. Faccio un esempio meno bucolico. Quando si va a cambiare l’auto si fa il classico giro delle concessionarie finché non si trova quella che piace e, finalmente, la si inizia a vedere in giro – non so se vi è mai capitato – . Anche lì, non è che le hanno vendute tutte la sera prima, evidentemente. Cambia il mio sguardo, non cambia la realtà. La realtà è ricchissima. E anche qui è interessante un episodio lavorativo che mi è capitato. Cioè: un giorno un nostro collaboratore arriva col volto molto teso, arrabbiato, e mi rovescia addosso tutto un lungo elenco di cose che non andavano bene e di cui la responsabilità, chiaramente, veniva addossata a me. Io l’ho ascoltavo e, tra me e me, pensavo: potrei ribattere ogni singolo punto. Ma lo lascio finire e alla fine gli dico: “Senti, ma dimmi una cosa; ho capito quello che non ti va, ma tu cosa desideri?” Tu, cosa desideri? Ed è bellissimo perché il suo volto da arrabbiato che era si è aperto, tanto che mi ha detto: “Guarda, non mi aspettavo una domanda così”. “Ecco dai, partiamo da cosa desideri, non da ciò che non va”. Il terzo punto è questo: una volta presa sul serio la domanda, una volta che uno è leale con la sua domanda, non basta ancora. Cioè: non basta desiderare andare in cima a una montagna per poterci arrivare; bisogna conoscere la strada, almeno uno dei sentieri che porta fino alla cima. Conoscere il sentiero si chiama educazione. E qui mi ricollego a quello che diceva prima Camillo: questa educazione, questa apertura di sguardo, questa capacità di andare in profondità, di cogliere i nessi, non è che è sorgiva, richiede un lavoro. E richiede innanzitutto dei maestri. Io ne ho incontrato uno recentemente, Camillo, che sta conducendo l’incontro, che paternamente guida me e tanti altri amici nel cogliere sempre di più, sempre meglio, la profondità della realtà. Ma oltre ai maestri servono dei luoghi; dei luoghi, possibilmente sistematici, di uomini che condividono problemi affini, dove si mette a tema la vita. In particolare, per quello che mi riguarda, io da ottobre partecipo a un luogo, a una compagnia, che si trova ogni due settimane, un’ora alla settimana, dalle 6 alle 7 di mattina – per cui bisogna volerlo; ma non si è disturbati, questo è il vantaggio – dove la domanda è sempre la stessa: racconta un fatto che ti ha cambiato, anzi, racconta un fatto che è accaduto e come ti ha cambiato. Uno può dire: “Ma, scusa, un’ora ogni due settimane cosa può cambiare?” Ma è un po’ come il sale: ne basta poco per dar sapore alla pietanza. E vi assicuro, lo dico per esperienza, che quell’ora cambia il modo in cui uno affronta la giornata, in cui uno affronta le due settimane che si trova a vivere; perché è come se alzassi le antenne, come dire: cosa sta accadendo? Perché non voglio perdermi quello che sta accadendo; e come mi cambia? Quindi, innanzitutto, mi rende più attento a ciò che accade. Il rischio qual è? È quello che le cose accadono e poi sembra che non succeda mai nulla, ma non perché non succeda nulla, perché uno non ha quella domanda, quella attenzione. Ancora: questo luogo mi aiuta a cogliere il senso delle cose. C’è una testimonianza, che è bellissima, di Simone, che racconta – vi faccio un minimo spoiler per chi non ha visto la mostra, ma solo per rintuzzare la voglia di andarla a vedere – racconta di un suo collaboratore – lui è un agricoltore – che è addetto allo spargimento di liquame. Quindi un lavoro, insomma, non dei più felici, che si presta – diciamo – a qualificazioni meno fini. Lui dopo alcuni mesi che fa questo lavoro dice – ed è comprensibile– “Basta, cambiami, non ne posso più”. In realtà Simone gli propone una cosa secondo me geniale. Lo prende con sé sul pick-up, lo porta a vedere i campi che aveva concimato. Lo porta a vedere, quindi, quelle spighe che erano diventate verdi piuttosto che quelle che erano diventate dorate, spiegando la differenza, anche in base alle tecniche che aveva utilizzato. Quest’uomo parte arrabbiato e arriva curioso Perché? Perché coglie il senso del lavoro. Questa è una cosa fondamentale. A me colpisce tantissimo che quando Gaudì inizia la costruzione della Sagrada Familia, 140 anni fa, capiva subito che i lavori sarebbero durati molto a lungo, molto di più di quanto potesse essere la vita dei lavoratori che erano impegnati nella costruzione. Gli viene in mente subito un’idea che, secondo me, è geniale: fa costruire subito la facciata, in modo tale che i lavoratori che partecipavano a quell’opera avevano di fronte la bellezza a cui stavano partecipando. Era chiaro lo scopo. Non era ancora fatta la cattedrale, ma lo scopo, la bellezza del lavoro a cui stavano partecipando, era chiaro. Nelle nostre aziende, riusciamo a far vedere questa facciata? Questo è un punto importante. E ancora: stando con questi amici si diventa attenti, si diventa desiderosi a non fermarsi alla superficie – lo dico nel video – cioè, si guarda l’altro per la ricchezza infinita che ha. Di una persona si coglie normalmente solo il comportamento, che è un po’ come la punta dell’iceberg. Ma sotto quella punta c’è un mondo di aspirazione, di desideri, di domande. E veramente è meraviglioso andare sotto la superficie e cogliere tutta questa bellezza. Mi aiuta a capire che c’è qualcosa – un’altra cosa che mi aiuta – a capire che c’è qualcosa di più importante delle mie ragioni. Ad esempio, l’unità – io condivido la conduzione dell’azienda con i miei fratelli –, l’unità fra noi vale più delle mie ragioni. Perché se uno si ferma alle ragioni scoppiano le guerre, e per le mie ragioni io faccio fuori l’altro. Quindi: o si riconosce qualcosa che vale di più o la conseguenza sono morti e distruzione. L’ultimo punto è la verifica. Cioè, non solo si fa un lavoro, ma si verifica che questo lavoro cambia. Quello che, cristianamente, si chiama il centuplo. Quindi la capacità, la possibilità, di verificare come questo cedere all’imprevisto, questo seguire un cammino, questo dedicarsi a un lavoro, mi cambia e mi rende una persona che è più felice alla fine, che si gusta il quotidiano. Mi si potrebbe obiettare: ok però – e questa è la grossa obiezione che ci potrebbe essere all’uscita della mostra – “Bello, però io ho una realtà veramente faticosa”. E non è che io non so che la realtà morde e a volte fa male. Però io, davanti agli occhi, ho testimonianze di uomini – mi vengono in mente i quadratini, tanto per dire un ambito che magari molti conoscono –, di persone che vivono situazioni veramente drammatiche, ma che, all’interno di un luogo e di una compagnia, prendendo sul serio il loro desiderio, vivono, hanno dei volti che hanno una felicità dentro che a volte invidio. Guardando loro mi vien da dire: non diamo la colpa alle circostanze. Le circostanze, come diceva un caro amico, sono la condizione essenziale per la nostra conversione. Quindi, se manca qualcosa, semplicemente manco io. Quindi – concludo – perché, come diceva San Paolo “nessun dono di Grazia più vi manca”, perché accada cosa? Quello che c’è scritto in un bellissimo pannello: per toccare il cielo con un dito sporco di fango, come facevano una volta – e fanno ancora oggi – i monaci. Grazie.

 

Gardini: Grazie Fabio. Il mondo cambia se cambi tu. Quindi la risposta alle obiezioni delle difficoltà sta proprio nel tuo cambiamento, come prima Fabio ci documentava. Ora diamo la parola ad Alessio, Alessio Mammi, Assessore all’agricoltura. Quest’anno in Emilia Romagna ne sono successe di tutti i colori. La gelata, il caldo, l’alluvione; adesso abbiamo il granchio blu. Quindi Alessio, raccontaci come si riesce a fare l’assessore in questo contesto e che cosa hai visto di bello, di interessante, che corrisponde al cuore, in queste storie che incontri continuamente. Perché, immagino, anche oggi hai incontrato produttori. Raccontaci dei fatti.

 

Mammi. Oggi ho pescato granchio blu con i nostri pescatori. Ma allora, grazie per l’invito ancora una volta. Mi sento tra amici e mi sento a casa. Fare l’assessore in Emilia Romagna è un grande orgoglio; ed è un grande orgoglio per tante ragioni, per tante imprese, per tanti produttori che ogni giorno scommettono, rischiano, investono. Però è facilitato anche per il fatto di avere delle persone, come Camillo, che sono animate in modo disinteressato dal bene comune e dal cercare di far migliorare i nostri sistemi economici. Io dico sempre, un po’ scherzando ma non troppo, che Camillo è un mio consulente, a titolo gratuito però. Quindi grazie a te e grazie a tutta CDO Agroalimentare e anche grazie a tutti i volontari e alle volontarie che stanno animando il Meeting in questi giorni. Camillo in una delle prime volte che è venuto nel mio ufficio, mi ha detto: “Alessio, se vogliamo trovare delle risposte alle crisi che stiamo attraversando, alle povertà che stiamo attraversando – non solo povertà materiali ma povertà immateriali: povertà nelle relazioni, povertà valoriali, povertà umane – dobbiamo riguardare l’esperienza dei monasteri. E oggi, visitando la mostra, ho capito che Camillo ha visto lontano quella volta. I monasteri sono stati l’architrave sul quale si è costruita l’Europa, sono luogo, innanzitutto, di spinta ideale. C’è una bella frase in uno dei pannelli iniziali, quando entri nella mostra e dice questa frase: “C’è una spinta, una tensione ideale e spirituale che sta dietro al lavoro dei monaci, alla preghiera e al lavoro materiale”. Ecco, io penso che tutte le nostre attività umane, il nostro lavoro quotidiano, vada inserito e inquadrato in una tensione ideale. Il monastero poi è luogo di ricerca, innanzitutto di ricerca di sé. I greci dicevano che per essere felici devi trovare il tuo “daimon”, devi capire chi sei, cosa sai fare, quali sono le tue attitudini. Noi cristiani diciamo i tuoi talenti, le tue vocazioni. E quando qualche tempo fa ho letto che, pensate, 8 persone su 10 nel nostro paese non sono soddisfatte di quello che stanno facendo, del lavoro che stanno svolgendo. Quindi c’è un grande lavoro anche di ricerca di sé, di chi siamo, delle nostre attitudini, delle nostre capacità, come avveniva nel monastero. Il monastero è luogo di cooperazione, di collaborazione, tra coloro che ne facevano parte. Il monastero è il luogo di ricerca spirituale, ma anche di lavoro materiale; quindi, spirito e corpo che si tengono insieme; è una dimensione imprescindibile dell’essere umano. Il monastero è luogo di tradizione. Il Grana Padano è tradizione, ma è il modo con cui i nostri monaci conservavano il latte e quindi è stata un’innovazione di chi ci ha preceduto. Quindi dobbiamo essere capaci di tenere le tradizioni, di consolidarle, di consolidarne la qualità ma anche di innovare, di guardare sempre avanti. Quelle che noi chiamiamo tradizioni erano le innovazioni dei nostri antenati. Questo nei monasteri avveniva. Il monastero è luogo di relazione, oltre che con la dimensione spirituale, con il lavoro, con il territorio; la relazione con l’ambiente, la relazione col territorio. E pensiamo a tutti i progressi che abbiamo ottenuto – e che nella nostra terra si vedono – quanto lo stanno a dimostrare. Allora io penso che i monasteri ci parlino, parlino anche oggi. Rappresentano un riferimento, come la storia è un riferimento per affrontare meglio i problemi dell’oggi e anche per prepararci meglio al futuro. Allora, Camillo mi ha detto: “Vieni e racconta tre o quattro esperienze concrete, dentro questa serie di problemi che l’agricoltura e l’agroalimentare stanno attraversando e hanno attraversato”. E allora le voglio raccontare in modo molto semplice. La prima storia, che però sono storie di coraggio, storie di speranza, storie di studio anche, di competenza; come avveniva nei monasteri dove si studiava. Penso che ormai abbiamo compreso tutti che l’improvvisazione non va bene in nessun contesto, che ci vuole preparazione, ci vuole studio, ci vuole dedizione e anche sacrificio. Allora, prima storia è quella di una ragazza, pensate, di Reggio Emilia, una sarta che perde il lavoro, famiglia numerosa, unico reddito e trova l’aspirazione, il riferimento, per ripartire, non tanto in un bando della Regione e in una banca che ha creduto nel suo progetto, ma nella esperienza e nel lavoro della nonna, che realizzava confetture, marmellate, con grandi tecniche di qualità, con grande attenzione al biologico, alla sostenibilità. Allora questa ragazza – che ha affrontato la crisi dell’industria tessile nella quale lavorava, quando l’industria tessile in Italia è entrata in crisi, alla fine degli anni 90 –, è ripartita con una nuova impresa e la cosa che più la rende orgogliosa, quando l’ho incontrata qualche mese fa, è stato il fatto che lei è riuscita anche a creare lavoro, creare occupazione per 14 sue colleghe che con lei lavoravano nell’industria tessile. E quando l’ho vista a New York, a giugno, al Fancy Food con il suo spazio e con i suoi contratti firmati è stato motivo di grande orgoglio, ma anche di grande speranza. La seconda storia è una storia di un agricoltore che eredita un piccolo casale sull’Appennino di Parma, in un luogo assolutamente sperduto – pensate: a quasi due ore di strada da Reggio Emilia, quindi molto lontano –. E allora riceve proposte di vendita da stranieri, da italiani; e una volta mi fa anche vedere questo rustico, questo casale. Mi chiama e mi dice: “Assessore, come lo vede?” Il rustico non stava praticamente più in piedi, non c’era più nulla di buono. E allora gli ho detto: “Hai ricevuto una proposta di vendita?” e lui mi ha detto: “Sì, ho ricevuto un’offerta molto buona”; “Venderai?” E dice: “No, apro un agriturismo”. E aveva chiesto: “Faccio bene?” Ho detto: “Ma sì, proviamo, cercheremo di dare una mano”. Ma, ha aperto un agriturismo in una zona sperduta dell’Appennino di Parma. E mi ha detto: “Io punterò a far venire qua gli americani”. Io ho detto: forse sta facendo… sta ponendo degli obiettivi un po’ troppo di lungo respiro. Bene, qualche anno dopo, un anno fa – quindi dopo due anni che mi aveva parlato del progetto – mi racconta del suo agriturismo, mi racconta dei primi insuccessi, delle prime cadute, delle prime voci del paese che non credeva in lui; diceva: hai buttato i soldi, hai perso un’occasione. Poi però mi racconta la capacità di rialzarsi, valorizzando il suo territorio, l’ambiente e i suoi prodotti e mi ricorda, e mi racconta di quella prima telefonata, proveniente da New York, che aveva letto di questo agriturismo sulle colline di Parma; e questi americani dicono, chiedono a lui: “Noi vorremmo andare a visitare la Ferrari” che però è a Maranello, quindi a due ore e mezzo dall’agriturismo. E allora lui cerca di spiegargli, voleva essere corretto, non voleva illuderli. “Guardate che se venite qui poi sono due ore e mezzo di strada da fare”. Per gli americani due ore e mezzo è come andare dietro l’angolo. Da allora turisti stranieri, turisti americani che arrivano lì, visitano l’Appennino di Parma, gustano i nostri prodotti, vogliono vivere le nostre esperienze, vogliono condividere con noi la nostra concezione di cibo, come prodotto culturale. Arrivano gli americani, vanno a Maranello e vanno anche da Massimo Bottura alla Francescana. L’ultima esperienza che vi voglio raccontare – la penultima –. Io prima di diventare assessore spesso mi fermavo a cena o a pranzo in una catena nazionale – non dico il nome – che vende cucina emiliana; e c’è solo quella che vende cucina emiliana. Quando divento assessore io voglio capire, voglio conoscere il fondatore di questa catena, per capire le ragioni, cosa l’aveva spinto. E lo incontro. Lui mi dice: “Beh, è molto semplice. Io non sono Emiliano. Io provengo da una regione del Sud. Arrivo qui per amore – si sposa con una modenese – e capisco che voi avete in mano un patrimonio straordinario, che è il vostro cibo, che sono i vostri piatti, quei 44 prodotti IGP; e avete ristoranti di eccellenza, le trattorie. Però, fuori da qui, non c’è nulla che in modo organizzato presenti la vostra cucina ai consumatori italiani e del resto d’Europa. Insomma, ho fatto qualcosa a cui nessuno aveva pensato”. Anche lui, dopo le prime cadute, un grande successo commerciale ed economico, centinaia di posti di lavoro. E la cosa che più mi interessava, da assessore, era l’autenticità dei prodotti che vende nei suoi locali, cioè la garanzia che provengano da cantine, caseifici, acetaie della nostra regione; e così è. Chiudo con l’ultima esperienza, visto che hai citato le alluvioni. Due mesi fa noi in Emilia Romagna, purtroppo, quest’anno non ci siamo fatti mancare nulla – non solo in Emilia Romagna, ma anche in tante altre regioni italiane – le gelate in primavera che hanno distrutto le produzioni frutticole, le alluvioni di maggio, poi a luglio arrivano anche le trombe d’aria, una grande tromba d’aria. E questa tromba d’aria si abbatte nella zona di Ravenna che già aveva avuto le gelate e aveva anche già avuto le alluvioni. Soprattutto tra Lugo e Alfonsine, per chi è di quelle zone. Io visito un’azienda: era devastata, completamente devastata. Tutto era stato buttato giù da questa tromba d’aria. I proprietari dell’azienda agricola – persone di 65 anni, 70 anni – ci chiedono una mano, cosa possono fare, come pensiamo di intervenire. Io però poi, alla fine, faccio una domanda sbagliata a queste persone; perché era la domanda che mi avevano fatto altri prima. Loro avevano ricevuto dei contributi per installare i vigneti che la tromba d’aria aveva abbattuto. Altre persone prima mi avevano chiesto: “Assessore, poi possiamo rivendere queste quote che abbiamo ottenuto senza dover pagare penali? Ci aiutate a rivendere? Perché noi, con quello che è successo, non ce la sentiamo più di andare avanti”. Invece queste due persone che ho visitato, questa azienda agricola meravigliosa che ho visitato, che in mezzo a tante tragedie ci ha poi ospitato con un bicchiere di vino, con l’acqua, mi ha detto… Io gli ho chiesto: “Volete le quote indietro? Volete poter rivendere le quote che avete ottenuto?” Loro mi han detto: “No, no assessore, assolutamente. Noi vogliamo capire come possiamo andare avanti e non abbiamo alcuna intenzione di mollare, perché noi non lo facciamo per noi che abbiamo 65-70 anni, siamo alla fine della carriera; lo dobbiamo fare perché a noi interessa il futuro, interessa dare continuità a quello che abbiamo costruito in 100 anni in questa terra, ai nostri nipoti, ai nostri figli e a coloro che stanno crescendo”. Ecco, l’idea di futuro di cui abbiamo molto bisogno anche in questi tempi un po’ malati di presentismo. Ecco, quell’idea di futuro che nei monasteri ogni giorno veniva vissuta. Grazie.

 

Gardini. Grazie. L’incontro aveva lo scopo di parlare con esempi di un gusto del quotidiano che è fatto di cose piacevoli, di cose ripetitive e anche di problematiche. Io sono molto contento perché gli esempi che sono stati portati hanno dato un contributo rispetto a una felicità di sé anche nel lavoro. Come è già stato fatto, invito tutti voi a visitare la mostra; la trovate in A3, quindi esattamente in parallelo. E saluto tutti i partecipanti invitando a sostenere il Meeting seguendo il simbolo del cuore “Dona Ora” perché tutto questo è fatto anche grazie al contributo volontario di tutti. Arrivederci e buona serata.