Le parole di Dante al nostro presente

S.E. Mons. Massimo Camisasca, Vescovo emerito di Reggio Emilia – Guastalla; Aldo Cazzullo, Giornalista e scrittore; Franco Nembrini, Insegnante e scrittore. Introduce Letizia Bardazzi, Presidente Associazione Italiana Centri Culturali.

Dopo le celebrazioni del settimo centenario della scomparsa di Dante Alighieri, ogni cantica della Commedia viene rivista con lo sguardo di oggi per l’uomo del nostro tempo, evidenziandone la forza e l’attualità, dall’errare dell’Inferno, alla penitenza austera e lieta del Purgatorio, all’esperienza del «Trasumanar» del Paradiso.

LE PAROLE DI DANTE AL NOSTRO PRESENTE

Letizia Bardazzi: Allora ci siamo, buongiorno a tutti e benvenuti a questo incontro che ha per titolo “Le Parole di Dante al nostro presente”

Abbiamo tre ospiti di eccezione che subito vi presento. Abbiamo Sua eccellenza Mons. Massimo Camisasca, vescovo emerito di Reggio Emilia -Guastalla. Ben arrivato don Massimo.

 

Massimo Camisasca: Grazie

 

Bardazzi: Grazie a te. È con noi oggi Aldo Cazzullo, inviato speciale editorialista del Corriere della Sera e scrittore che da tanti anni non tornava. Quindi bentornato e grazie per essere con noi.

E Franco Nembrini che non avrebbe bisogno di tante presentazioni, che da tanti anni ci accompagna su Dante. Quindi gli diamo il più caloroso benvenuto.

Allora per presentarveli ricordo solo alcuni lavori fra i tanti di cui i nostri ospiti sono protagonisti, lavori che li hanno resi noti e apprezzati divulgatori di Dante al largo pubblico. Franco Nembrini, ricordo di lui “Nel mezzo del cammin” le 34 puntate su TV2000 per rileggere la Divina Commedia, i grandi libri di Mondadori con Gabriele dell’Otto e con prefazione di Alessandro d’Avenia e anche la recente mostra sull’Inferno a Verona, veramente seguitissima e molto amata.

Di Aldo Cazzullo vi dico che è autore di “A rivedere le stelle. Dante il poeta che inventò l’Italia” di Mondadori. E il suo ultimo: “Il posto degli uomini. Dante in Purgatorio dove andremo tutti”. Lo ricordiamo anche perché ha presentato Dante ultimamente sui palchi delle principali piazze italiane con eventi, spettacoli, insieme al rocker toscano Piero Pelù.

Vi dico sin da subito che i libri di Aldo Cazzullo e Franco Nembrini sono a vostra disposizione all’uscita e, se staremo nei tempi, ci sarà anche la possibilità di fargli firmare qualche copia.

Di Monsignor Camisasca, oltre al suo libro sulla Commedia “Lo gran mar dell’essere” ricordo i suoi tanti interventi che ci ha offerto negli anni sulla centralità di Dante, sulla sua vita, come compagno di viaggio, su come certi versi della Commedia sono diventati proverbiali e immedesimati da chiunque. Dunque il 2021 anno del Centenario dantesco ci ha mostrato l’interesse che Dante ancora suscita in tutto il mondo 700 anni dopo la sua morte. Le celebrazioni, le iniziative popolari sono state tantissime, ma già tutto il Novecento e anche gli anni 2000 ci avevano già mostrato quanto questo poeta fosse diventato un riferimento non solo per gli studiosi ma proprio per tutta la cultura anche popolare. Per molti scrittori premi Nobel per la letteratura Dante è stato proprio un modello esibito a partire da Eliot, Milosz, Eugenio Montale, Derek Walcott. Molti artisti si sono voluti cimentare con la rappresentazione del mondo dantesco e cito solamente Renato Guttuso e Salvador Dalì. E da noi, a partire dal 1989, Federico Tiezzi e Sandro Lombardi portano a teatro Dante con tre riscritture affidate ai grandi poeti Edoardo Sanguineti, Mario Luzi, Giovanni Giudici e già nel 1981 Carmelo Bene aveva letto alcuni canti della Divina Commedia dalla Torre degli Asinelli di Bologna, proprio per commemorare i fatti tragici della strage. Allo stesso modo dopo la fine della Seconda guerra mondiale Primo Levi ed altri autori avevano ricordato la Shoah attraverso Dante. Dal teatro nascono dunque tanti esempi della persistenza di Dante nella nostra cultura. Cito anche le iniziative di Marco Martinelli e del Teatro delle Albe di Ravenna, al cui seguito anche noi l’anno scorso al Meeting di Rimini abbiamo proposto la chiamata pubblica “Mi ritrovai, dalla selva oscura al Paradiso” seguita poi in altre piazze e città italiane e abbiamo visto che Dante appunto era riaccaduto non come operazione teorica, ma come una immedesimazione e una compromissione della singola persona che recita Dante. Come non ricordare il successo televisivo delle letture dantesche di Roberto Benigni, che hanno veramente raggiunto chiunque, e anche molti cantanti e gruppi pop e rock spesso hanno ricordato Dante e il suo mondo con canzoni, vere e proprie sinfonie, album, ricordo solo i Nirvana di Kurt Cobain. E per noi è significativamente importante, molto caro, le splendide riflessioni che a più riprese don Luigi Giussani, anche nel suo ultimo intervento al Meeting di Rimini che avvenne nel 2002, ha dedicato all’ultimo canto del Paradiso, il cui inno alla Vergine era diventato, negli ultimi anni della sua vita, preghiera quotidiana e fonte di acuta riflessione teologica. Ecco, perché Dante suscita tutto questo interesse, questa curiosità nell’uomo di oggi? È quello che vogliamo chiedere ai nostri ospiti, è quello che vogliamo scoprire con loro. Abbiamo invitato per parlarne infatti non tre dantisti, ma un teologo, un giornalista, un professore, proprio per affrontare il tema dell’attualità di Dante in ciascuna delle tre cantiche. Quindi do subito a loro la parola. Iniziamo dall’Inferno con Franco Nembrini. Un ringraziamento nuovo ai nostri ospiti e grazie a voi per l’ascolto.

 

Franco Nembrini: È difficile. Compito difficile, ma la risolvo in fretta in modo da lasciare tempo a chi Dante lo conosce e l’ha studiato di dire quel che devono dire. Io la risolvo in modo semplice nel senso che alla domanda “Che cosa Dante possa dire all’uomo d’oggi?” rispondo in modo assolutamente biografico, cioè io non ho spiegazioni se non quello che ho visto accadere in tanti anni di insegnamento e ho visto accadere innanzi tutto a me. Forse tedierò qualcuno degli amici che vedo presenti che sanno già la storia, ma a una domanda del genere non posso non rispondere con il racconto brevissimo del mio incontro con Dante a 11 anni quando per ragioni familiari, essendo il quarto di 10 figli, sono stato richiesto di dare una mano in casa e quindi nell’estate della prima media fui mandato a lavorare come garzone in una gastronomia in Bergamo città. Allora mi sembrava una metropoli, essendo io di un paesello. E per comodità e per altre ragioni mi fermavo dal lunedì mattina al sabato sera in casa di questi proprietari del negozio presso cui lavoravo come garzone, come “bocia” si dice da noi. E quell’anno avevo avuto una professoressa meravigliosa in prima media, che ci aveva entusiasmati allo studio della letteratura e di Dante in particolare. Quindi come usava allora, ricorderete tutti almeno i più anziani, che ci fu un tempo in cui alle medie era come andare a scuola, cioè si andava, si imparava e si tornava a casa. Non è più così per mille ragioni, ma allora era così. E c’era ancora l’antica abitudine di far studiare a memoria le cose più belle che nel cammino scolastico si incontravano e quindi canti interi a memoria. Allora cosa succede, che in questa esperienza di lavoro lontano da casa ho fatto in qualche modo – permettetemi il paragone – l’esperienza dell’esilio, dell’essere in un’estate che doveva essere destinata alle vacanze e al riposo essere al lavoro, anche un lavoro abbastanza faticoso, le ore non si contavano, e quindi mi lamentavo della mia triste sorte di esule, al lavoro con tanta fatica, mi capitava di voler mandare un biglietto a casa per raccontare la mia fatica, la mia sofferenza e non trovavo mai le parole. Questo è il segreto della cosa, non trovavo le parole che descrivessero quello che stavo provando, finché una sera, alle dieci di sera, il padrone – stavo per andare a letto – il padrone viene a dirmi che, per un qui pro quo, insomma c’è da scaricare un camion di casse di acqua, di vino, di bibite e non c’è nessuno che lo possa fare. Ero già in pigiama, mi sono rivestito e ho passato qualche ora a scaricare sto camion nel magazzino del negozio che era in un seminterrato, su e giù per questa scala e tra me appunto soffrivo e piangevo sulla mia triste situazione. E è successo il miracolo, devo veramente a quel momento che certamente ha qualcosa di provvidenziale per la mia vita, è accaduto il miracolo. Cioè è accaduto che, nel mentre facevo ste scale, su e giù con ste casse in mano, mi sovviene un verso che avevo imparato, a memoria appunto, ed è quello in cui il trisavolo Cacciaguida predice a Dante l’esilio “Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e com’è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”. Piansi, improvvisamente piansi, ma di commozione stavolta e mi ricordo che tornai a casa avevo 11 anni quindi con l’ingenuità degli 11 anni tornai a casa e corsi dalla mia prof e dai miei amici, dai miei compagni, dai miei genitori a dir loro la cosa che avevo scoperto. Dante parla di me, Dante parla di me perché la riflessione che feci, ingenuamente, fu proprio questa: ma come fa quello là a sapere come sto? Cioè trovavo le parole finalmente in tre versi, trovavo fotografata la situazione che stavo vivendo, la trovavo non solo fotografata, ma anche abbracciata, capita. Finalmente, ecco, non ero solo, non ero solo e il dramma, se di dramma si può parlare, che vivevo, lo sentivo condiviso proprio da un grande come Dante. Ci volle poco evidentemente a scoprire che anche Manzoni parla di me, che tutta l’arte parla di me, fu lì l’origine di questa scoperta che forse ha dato inizio alla mia passione per la letteratura e per l’insegnamento, tanto che ho sempre desiderato fin da quegli anni delle medie diventare insegnante di italiano. Massimo, che è il mio padre spirituale fin dagli anni della mia giovinezza, lo può testimoniare, ho desiderato tanto insegnare. Perché? Perché sentivo che poteva accadere ad altri quello che era accaduto a me, la scoperta della modernità di Dante. E sono stati quarant’anni di una inesorabile conferma, una indiscutibile conferma della modernità della Divina Commedia, perché dovunque l’abbia letta, che ormai credo di poter dire di averla letta in mezzo mondo, perché ho letto Dante per mille diverse strade e occasioni, che mi sono state offerte, dal Kazakistan alla Sierra Leone, da Chicago a Trescore Balneario (cioè tutte terre lontanissime dalla civiltà) e quindi… ma fu subito l’inizio così, perché quando entrai la prima volta da insegnante di italiano (avevo insegnato religione i primi otto anni), da insegnante di italiano io cosa avevo da portare, a parte i dubbi e le paure che avevo addosso, perché avevo studiato poco e sapevo poco, e so poco anche oggi, ma ero forte di questa sicurezza, che potevo raccontare ai miei alunni che… – non raccontare – che potevo vivere davanti ai miei alunni l’incontro che vivevo ogni giorno quando prendevo in mano la Divina Commedia. Questo forse è stato, e forse è ancora, il segreto della facilità con cui mi vien da comunicare le cose, o con cui la gente forse le capisce, non lo so, fatto sta che fin dalle prime esperienze di insegnamento accadde questa cosa meravigliosa. Mi ricordo ancora in quella quarta ragioneria di “scalmanacc”, ragazzi, stiamo parlando di aspiranti ragionieri bergamaschi, dove dovevo parlar del Dolce Stil Novo, capito, di cose così e mi ritrovo in una classe abbastanza turbolenta, una quarta ragioneria, e c’è un tizio in fondo, uno spilungone di due metri con della ferraglia addosso, che a me mi dà un fastidio, appoggiato al muro così, con la sedia buttata all’indietro, che apparentemente dorme – verrò poi a sapere che fa una discreta attività di diffusione di sostanze nella scuola – e apparentemente dorme, io faccio le mie due o tre lezioni per presentare Dante, leggo il primo canto e il secondo dell’Inferno, e torno in classe la lezione successiva dopo aver finito il primo canto dell’Inferno e dico: allora ragazzi cosa dite di questo modo di leggere? E lo spilungone in fondo alza la mano. Cosa c’è Signo (abbreviativo di Signorelli), Signo cosa c’è? Voglio essere interrogato. La classe scoppia a ridere, perché era uno che i professori li faceva morire, li faceva morire davvero, tutti ridono e io dico “vieni qua”. “Profe io ce lo so a memoria”. “Che cosa ce lo sai a memoria, cominciamo a dire in italiano, che cos’è che sai a memoria?” “Il primo canto”. La classe scoppia a ridere, veramente non si tenevan più, ma lui, serissimo, comincia: “Nel mezzo del cammin di nostra vita” e recita tutto il primo canto a memoria, non sbaglia una pausa, non sbaglia una virgola, non sbaglia una rima. La classe si zittisce, ammutoliti tutti, e io gli chiedo: “bravo” (gli ho dato 10, credo che fosse la somma di tutti i voti che aveva preso fino a quel momento lì), ma gli ho chiesto: “Signo, ma perché? Non mi sono neanche sognato di chiedervi di studiare il primo canto a memoria” e lui mi dice “profe, trop bel”, troppo bello, in bergamasco naturalmente. Lì ho capito che Dante ha una potenza di comunicazione dell’esperienza umana e della sua profondità e della sua complessità, che è in grado di intercettare anche il desiderio (perché di questo si tratta, de-sidera, le stelle, tutte cose che avrei capito negli anni), è in grado di intercettare il desiderio di ogni uomo da qualsiasi parte provenga (e la conferma è stata appunto andare in giro per il mondo a far quel mestiere), con due osservazioni che mi sembrano importanti (e ho finito). La prima è che, a volte i giornalisti mi fanno una domanda, un po’ quella che è nascosta nella tua, ma come si fa a interessare a Dante i ragazzi di 15 anni di oggi col telefonino in mano? E io ho sempre risposto, ma io non sono mai entrato in classe col problema di interessare i ragazzi, perché è impossibile. Ai ragazzi bisogna insegnare ad avere un po’ di tenerezza per se stessi, non per Dante, cioè bisogna aiutare a ritrovare il proprio cuore, le proprie domande. E allora possono sentire Dante come un’ipotesi interessante, come una storia che vale almeno la pena conoscere. Ma perché questo dinamismo scatti bisogna che l’insegnante, che questa cosa sia vera per l’insegnante, sia vera per te, cioè io adesso non vorrei neanche sembrarvi presuntuoso, perché non lo sono, ma mi rendo conto che in fondo tutto quel che devo a don Giussani e all’appartenenza a CL e devo dire, e non lo dico per piaggeria, a don Massimo, che mi ha accompagnato proprio in quegli anni, io ho imparato soltanto questo, che tu con l’autore, con la realtà, ci devi parlare, devi interloquire. La vita è aprire gli occhi, guardare (ricordo che la parola più ricorrente nella Divina Commedia è la parola sguardo, ciò che ha a che fare con gli occhi, e la parola occhi è quella che ricorre di più), si tratta di guardare la realtà e lasciarsi provocare dalle domande che fa per il fatto che c’è. Tutto sta, tutto il segreto dell’educazione dell’uomo sta in questo, in questo dialogo incessante tra i propri desideri più grandi, tra il proprio cuore, per usare la parola sintetica così amata dal Giuss, tra il proprio cuore e la realtà che lo chiama, la vita è vocazione e perciò è responsabilità. La vita è una realtà attraverso cui il Mistero ti chiama, e tu che provi a rispondere, ma leggere così Dante, capite che è interessante non per i ragazzi, è interessante per te. Allora, e così in qualche modo mi fermo un attimo sull’Inferno come mi è stato chiesto, allora, anche qui Massimo mi è testimone, se adesso avessimo il tempo e mi dicessi “leggi il canto a cui sei più affezionato”, probabilmente avrei il solito dubbio tra il 33esimo del Paradiso e il secondo dell’Inferno. Perché il secondo dell’Inferno? Perché all’Inferno inizia tutto, all’Inferno inizia l’avventura umana, ma detta con una radicalità di proposta che uno ci si riconosce per forza. Allora se mi fate leggere il secondo canto dell’Inferno e ascoltiamo insieme Dante che racconta, Virgilio che racconta a Dante per dargli il coraggio che non ha, di affrontare la vita, gli racconta di essere stato mandato dalle tre donne benedette, eccetera e dell’incontro con Beatrice, questa ragazza che lo raggiunge all’Inferno per dirgli “ti prego vai a salvare il mio uomo” e io dopo i primi sei versi mi dimentico di voi, come mi dimentico della classe, perché io non riesco a leggere quel canto senza pensare al mio incontro con Grazia, a quel che ha rappresentato il matrimonio, quarant’anni quest’anno di matrimonio, perché è stato esattamente così, cioè io ho capito qualcosa del mio rapporto con Grazia anche leggendo di quell’incontro, di quell’incontro in cui una donna va all’Inferno a riprendersi il suo uomo. E son tutto dentro quella cosa lì perché rileggo la mia storia, i miei maestri, i grandi incontri della vita, capite, la fatica fatta e mai risolta del tutto a vincere il male, la lupa che ti assale e ti risospinge verso il deserto, verso il male, perché non ce la fai. Ma uno, uno improvvisamente si presenta e gli puoi finalmente gridare: Miserere di me, ma quel Miserere che dà inizio alla Divina Commedia è la grande … se non si parte da lì insomma, da dove si parte? Ma anche nella vita, se la giornata non partisse da un grande Miserere, da un grande bisogno, da un dire – che è la cifra del Meeting – da un poter dire a degli amici “facciamo un pezzo di strada insieme, perché io da solo non ce la faccio, la lupa vince”, da dove si parte se non da lì? ogni rapporto parte da lì e vive di questo miserere, ogni amicizia, ogni fecondità della vita nasce da lì. Allora, per me leggere il secondo canto è entrar dentro subito, poi tiri su la testa, ti rendi conto che hai davanti 30 ragazzi che, l’ora era cominciata che si arrampicavano sui muri – hai presente, no, come fanno i ragazzi, che entri in classe e sembrano dipinti sui muri, tanto sono schiacciati in fondo e ai lati, lontano il più possibile dalla cattedra, e senza dir loro nulla i banchi han cominciato a camminare, e si sono avvicinati, e te li trovi intorno alla cattedra, attaccati. Tiri su la testa, li guardi e dici, ragazzi, ma cosa dite dell’amore di una donna che va a riprendersi il suo uomo all’Inferno tutti i santi giorni e vi giuro che anche il “Signo” di turno, il più fetente della classe, in quel momento ti guarda e ha scritto in fronte, se non ha la lacrima all’occhio, ha scritto in fronte, è vero, vorrei essere amato così. Poi suona la campanella, sparisce tutto, si deve ricominciar da capo, per l’amor di Dio, è un lavoro lungo e faticoso, ma c’è un momento di verità dove i ragazzi, tutti, tutti sono mossi, commossi, percossi, da una cosa che forse li riguarda. Si sentono come mi sentivo io sulle scale, descritti, attratti, affascinati, ma bisogna che sia un avvenimento per l’insegnante quella lettura, quel testo. I ragazzi ti guardano e invece di far casino tra loro, per difendersi dalla rottura che è la lezione, succede il contrario, quasi si arrabbiano come a dire: ma là sta succedendo qualcosa. A quest’uomo, a questo insegnante sta succedendo qualcosa. Perché non ci invita? Perché non ci fa partecipare? È per questo che si zittiscono e ti vengono incontro, ma succede nelle aule, nelle piazze, succede dovunque, con Dante, se lo si legge così, succede ovunque. Io la risposta che do alla tua domanda è: non può che esser così, è così moderno, è così attuale, è così universale, che può capitare quel fenomeno lì, quell’intercettare il desiderio dell’uomo … quando (dove è che ero?) a Karaganda in Kazakistan, a un collegio docenti di professori di lì, stavo parlando di Dante e mi è venuto in mente “oddio, sono a Karaganda”. Karaganda, se lo cercate sulle mappe, c’è scritto Kirghisia, il nome della regione, e mi è venuto in mente che Leopardi scrive il “Canto notturno del pastore errante nell’Asia” perché ha letto la relazione di un giornalista viaggiatore che parlava dei pastori Kirghisi, che di notte cantano canzoni melanconiche alla Luna e gli vien l’idea del Canto notturno. Allora mi interrompo e dico: ma c’è un altro, voglio farvi un regalo, vi racconto la poesia che parla dei vostri nonni, dei vostri papà, della vostra gente, di un grande poeta italiano e leggo il Canto notturno. Figuratevi il Canto notturno letto da un bergamasco, nel linguaggio di Leopardi, a Karaganda, tradotto in russo e dal russo tradotto nei dialetti locali per chi non capisce il russo, cosa gli sarà arrivato a quei poveretti sa solo Dio, ma alla fine s’è fatto un silenzio, un silenzio da brividi, tant’è che ho avuto il sospetto di aver sbagliato qualcosa, qui li ho fatti incazzare? ho offeso qualcuno? cos’è successo? Allora chiedo: ho sbagliato a leggervi questa poesia? Vi ho offesi? Si alza una signora velata, quindi musulmana – dopo appurai che era così – una signora musulmana in prima fila, un’insegnante, era un collegio docenti, che si alza e dice: “io voglio dire una cosa”. Prego. Pensavo mi insultasse; invece in piedi, dignitosa, si mette a piangere, ma un pianto discreto, semplicemente le scendevano le lacrime agli occhi e dice: “si volevo dire questo, io sono quel pastore”, io sono quel pastore, cioè capite? Da quella poesia. Dante è una roba così, che te lo leggi ai bambini soldato della Sierra Leone o agli aspiranti ragionieri bergamaschi, e capiscono, lo incontrano. Poi bisogna accompagnarli, come sono stato accompagnato io, ma è di una modernità, di una attualità assoluta, per questa ragione, perché ha voluto descrivere il cuore dell’uomo con una profondità tale da intercettare e descrivere il cuore di tutti. L’Inferno in particolare ha questa caratteristica bellissima e cioè che è chiaro subito, fin dall’inizio, che da qualsiasi Inferno si provenga, (e vi assicuro che la Sierra Leone allora o l’Ucraina adesso, non lo dico perché ho incontrato qui fuori un carissimo amico prete ortodosso, padre Alexander, che è riuscito a scappare da Kerson, una settimana fa, è stato sotto i bombardamenti insieme al figlio fino a una settimana fa, è qui al Meeting con noi, e con lui ho fatto per 5 anni il Dante Fest a Kharkiv, il Dante Fest a Kharkiv, capite?), perché l’inferno dice proprio questo, te lo dice subito, la selva oscura, quale che sia, la più mortale, la più terribile, la più … non c’è insomma inferno da cui si provenga, da cui non si possa uscire. L’ultima parola dell’Inferno non è il buio, non è la condanna, insomma non è l’Inferno, ma son le stelle. Uscimmo fuori a riveder le stelle, vi ricordo, è l’ultimo verso dell’Inferno. E lo dichiara subito, non c’è neanche da aspettar la fine. Io mi sono perso in una selva oscura, “ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte”. Quel “vi” vale tutta la Divina Commedia, cioè lì nella selva oscura, io ve la racconto, non per trascinarvi nel male con me, non per condividere una disperazione, ma per condividere una speranza. È stato guardando in faccia il male, chiamando le cose col loro nome, cioè servendo la verità che ho potuto affrontare il male e uscirne. Siccome si può, ve lo dico subito, fate con me il percorso della selva, cioè il percorso dell’intero Inferno, e usciremo insieme a riveder le stelle. I ragazzi di Verona che fecero la mostra hanno voluto intitolare la mostra (i 100 ragazzi di Verona, un’altra volta vi raccontiam la storia), hanno voluto proprio intitolare la mostra “il mio Inferno” e sottotitolo “si può uscire a riveder le stelle”. Per dire ai loro compagni, in un momento in cui la pandemia, insomma, immaginate la disperazione di tanti nostri ragazzi, avevan bisogno di speranza, loro gliel’han detta così: il mio Inferno, il tuo Inferno, non è l’ultima parola. L’ultima parola è quella che dicono loro adesso, parlando del Purgatorio e del Paradiso.

 

Bardazzi: Aldo Cazzullo, a te la parola per riconsegnarci un po’ del purgatorio.

 

Aldo Cazzullo: Grazie Letizia, grazie per le tue parole, grazie agli organizzatori del Meeting, grazie a tutti quanti voi per essere venuti così numerosi. Io non sarei mai venuto a sentirmi, tanto più con Draghi che stava ancora finendo di parlare, però sarei venuto a sentire Nembrini e Camisasca, quindi vi capisco. Sono molto grato a Franco Nembrini e a Massimo Camisasca. Quando ci è venuta questa idea – facciamo 20 minuti a testa, Inferno, Purgatorio e Paradiso – loro hanno subito detto di si. E mi fa piacere, perché io nel libro di Nembrini ho trovato molti spunti, a cominciare dal primo, dal primo verso della Divina Commedia: “Nel mezzo del cammin di nostra vita”. Dove, come fa notare Franco Nembrini, la parola chiave è “nostra”. Dante ci dice fin da subito che sta parlando di noi. “De te in fabula narratur” la storia parla di te, ti chiama in causa, ti riguarda, ti riguarda in quanto essere umano, perché la Divina Commedia non è soltanto un viaggio ultraterreno, è un viaggio dentro l’animo umano, sino ai confini di ciò che è in noi. E Dante è del tutto incomprensibile fuori da una prospettiva di fede, di speranza e di salvezza. E nello stesso tempo ci riguarda in quanto italiani, perché Dante è l’uomo che si inventa l’Italia, non come stato, ma come patrimonio di bellezza, di valori, di cultura. Per Dante l’Italia aveva una missione: conciliare la Roma dei Cesari e la Roma dei Papi, la classicità e la cristianità e da questo incontro nasce l’Umanesimo che è ancora adesso il motivo per cui l’Italia è importante nel mondo. Perché, per fare un solo esempio, i nostri militari sono considerati i più bravi nelle missioni di pace? Non perché abbiano armi più potenti, anzi, ma perché sono capaci di dialogo, di ascolto, di rispetto verso le popolazioni locali e questo accade perché sono portatori di quella grande cultura umanista e cristiana che comincia con Dante. Ma a me tocca il compito più difficile, il Purgatorio. È considerata la cantica più sfigata. Fin dal nome che evoca le purghe staliniane, ma anche i clisteri. Il purgatorio non è … eppure vi assicuro che il Purgatorio è bellissimo. Io lo definisco il posto degli uomini, perché così, sorridendo, dico: le nostre mamme vanno in Paradiso, i nostri nemici all’Inferno, ma a noi un po’ di Purgatorio non ce lo leva nessuno. È il posto più umano, quello che assomiglia di più alla vita. Ma da notare che Dante è il vero inventore del Purgatorio. Anche se ci viene spontaneo pensare che quasi nessuno di noi è talmente cattivo da meritare direttamente l’Inferno, ma quasi nessuno talmente buono da meritare direttamente il Paradiso, ci viene spontaneo pensare a un luogo di mezzo. Eppure la Chiesa stabilì ufficialmente l’esistenza del Purgatorio soltanto pochi anni prima che Dante cominciasse a scrivere e nessuno sapeva come fosse fatto il Purgatorio. Si pensava che fosse una versione attenuata dell’Inferno. Dante lo inventò. E questo muoversi nel nulla e nel vuoto esaltò al massimo grado la sua fantasia e la sua arte. Dante capovolge lo schema: il Purgatorio non è un Inferno alleggerito, è il contrario dell’Inferno. Nell’Inferno c’è la disperazione, nel Purgatorio c’è la Speranza. Nell’inferno si scende, nel Purgatorio si sale. L’Inferno è buio, il Purgatorio è pieno di luce e di colori, “dolce color d’oriental zaffiro”. Nell’Inferno ci sono pianti, strida, lamenti, bestemmie. In Purgatorio ci sono canti, melodie, salmi. E, soprattutto, c’è il tempo. L’Inferno è per sempre, come anche il Paradiso. Nel Purgatorio il sole sorge e tramonta. Ed è lo stesso sole che illumina noi sulla terra. La differenza è che, mentre nella vita, ahimè, il tempo ci avvicina alla morte, nel Purgatorio ci avvicina a Dio, alla salvezza. Ma Dante immagina anche una cosmogonia, una teoria sulla nascita dell’universo. Lucifero, il capo degli angeli ribelli, sconfitto dagli angeli rimasti fedeli a Dio, è precipitato sulla terra. La terra inorridita si è spalancata per non accoglierlo, e Lucifero è precipitato nel centro della terra, dove maciulla nelle sue tre bocche i tre traditori sommi, Giuda che tradì Gesù, Bruto e Cassio che tradirono Giulio Cesare; e dall’altra parte del mondo è spuntata una montagna, la montagna del purgatorio, che è divisa in sette gironi, o cornici o gradoni, una per ogni peccato capitale. Ci sono i superbi, schiacciati da un masso, dove Dante stesso pensa di finire dopo la morte; gli invidiosi, con gli occhi legati con un filo di ferro; gli iracondi, avvolti nel fumo dell’ira; gli accidiosi, costretti a correre di continuo; gli avari, che hanno la faccia schiacciata al suolo, perché ebbero sempre lo sguardo chino sulle cose materiali; i golosi, che vengono messi a dieta, dimagriscono. E allora viene Dante e chiede a Virgilio: ma come fa un’anima a dimagrire? E Virgilio risponde che quando moriamo, in attesa della resurrezione dei corpi, Dio ricrea, come una stampante 3D, un’ombra che segue nell’aldilà l’anima immortale. Quest’ombra può ridere, può piangere e può dimagrire. Dante scrive che nel volto di ogni uomo è scritta la parola che lo definisce: “omo”, i due occhi sono le due “o” e la linea degli zigomi, delle sopracciglia e del naso è la “m” e questa scritta “omo” è particolarmente evidente sul volto dei golosi che hanno il volto incavato, con gli occhi infossati e gli zigomi sporgenti. Infine i lussuriosi che purificano nel fuoco le pene d’amore. E in cima c’è il Paradiso terrestre, l’Eden, dove Dante ritrova Beatrice. Non la vede, ma la sente, ne avverte la presenza e comincia a tremare tutto per l’emozione e dice Virgilio, che nel frattempo se n’è dovuto andare, non ho nessuna dramma, nessuna goccia di sangue… che non tremi, conosco i segni de l’antica fiamma! È accaduto anche a noi di tremare di emozione quando rivediamo una persona cara. Ma Beatrice è offesa con Dante, non lo guarda, lo accusa di averla dimenticata e di avere cercato altre donne dopo la sua morte. Non si è mai capito bene se fossero donne allegoriche – la filosofia – o se fossero donne vere in carne ed ossa. Secondo me è più la seconda che ho detto.

 

Camisasca: Tutte due.

 

Aldo Cazzullo: Ha vinto Massimo: tutte e due. Fatto sta che Dante scoppia a piangere e allora Beatrice lo guarda, lo perdona. Dante la ritrova più bella ancora di come la ricordava e insieme volano attraverso i cieli del Paradiso, fin davanti al volto di Dio. Dante chiede di contemplare il volto di Dio, san Bernardo domanda quest’intercessione alla Madonna: “Vergine Madre, figlia del tuo figlio”, la più bella preghiera mai scritta. E la grazia viene accordata, Dante può contemplare il volto di Dio, ma non lo ricorda, non riesce a descriverlo, le parole umane non possono raccontare Dio. All’alta fantasia qui mancò possa. Ma Dante sa di averlo visto, così come quando ci svegliamo all’improvviso, non ricordiamo il sogno, ma sappiamo di aver sognato. Eppure le immagini sono dileguate come la neve sciolta dal sole, come le profezie che le sibille scrivevano sulle foglie sparse dal vento. Però Dante ricorda una cosa, ricorda di aver visto nel volto di Dio l’umana effige, ha visto sé stesso, ha visto il volto dell’uomo, perché siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio. Questa cosa l’ho imparata nello spettacolo di Simone Cristicchi sul Paradiso. Era un sabato sera a Roma, in teatro eravamo in 35. Che cosa ha fatto la televisione italiana per i 700 anni della morte di Dante? Nulla, assolutamente nulla. Cosa ha fatto la fiction italiana (adesso c’è una fiction su Vanna Marchi) per Dante? Nulla, assolutamente nulla. Cosa ha fatto il cinema italiano per i 700 anni della morte di Dante? Nulla. Adesso esce il film di Pupi Avati ed è bellissimo, andatelo a vedere. Potremmo andare avanti tutto il giorno a parlare del Purgatorio, che è veramente meraviglioso.

Vi racconto solo due storie, che mi stanno molto a cuore. Una riguarda una donna, perché voi sapete che Dante, in un tempo in cui i teologi discutevano se la donna avesse o no l’anima, e tanti dicevano di no, Dante scrive che la specie umana supera tutto ciò che è sulla terra grazie alla donna. È la donna che salva l’uomo, è Beatrice che salva Dante. Anzi, come ricordava prima Nembrini, una catena di donne, quando Dante si smarrisce nella selva oscura, si mette in movimento per salvarlo. La Madonna va da Santa Lucia, Dante era molto devoto a Santa Lucia protettrice della vista, cui attribuiva la guarigione da una malattia agli occhi che aveva avuto da ragazzo. Santa Lucia va da Beatrice, che scende dal Paradiso nell’Inferno, perché l’Inferno non la tange (non mi tange, una delle tante espressioni che abbiamo preso da Dante: la lingua di Dante è viva). Ci sono tantissime espressioni coniate da Dante che usiamo ancora adesso: stare fresco, stare solo soletto, cosa fatta capo ha, a viso aperto, il gran rifiuto, non ragioniamo di loro ma guarda e passa, degno di nota, senza infamia e senza lode, “vuolsi così colà dove si vuole ciò che si puote”, “e più non dimandare” (non esiste modo più letterario per dire a qualcuno: fatti i fatti tuoi). Ebbene l’Inferno non tange Beatrice, la quale affida Dante a Virgilio, Virgilio lo porta in fondo all’Inferno, in cima alla montagna del Purgatorio e lo riconsegna a Beatrice, lì in cima al Purgatorio Dante beve l’acqua di due fiumi, il Lete, che fa dimenticare il male commesso, e l’Eunoè, che rafforza il ricordo del bene compiuto, e poi finalmente può volare in Paradiso. Ma di questo ci dirà don Massimo. Bene, in tutta la Divina Commedia c’è un solo personaggio che si prende cura di Dante, che si preoccupa per lui. Voi sapete che “cura” è la parola chiave del nostro tempo. In fondo noi siamo stati creati dalla dea “Cura”. Secondo gli antichi romani la dea Cura prese del fango, lo plasmò, chiese a Giove di insufflargli l’anima e fece l’uomo. Poi nacque una discussione per stabilire a chi appartenesse l’uomo e Cura disse: “beh, l’ho fatto io”, ma Giove disse “No, è mio perché gli ho dato l’anima”, ma la terra disse. “No tu l’hai fatto con il fango, quindi il fango mi appartiene, l’uomo è mio” e alla fine si arrivò a un compromesso, dopo la morte il corpo tornerà alla terra, l’anima a Dio, ma fin che vivrà l’uomo apparterrà alla dea Cura, a una donna. Ebbene c’è un solo personaggio che si prende cura di Dante ed è una donna, una donna dolcissima, Pia de’Tolomei, che resta in scena soltanto per sei versi. Tutto quello che noi sappiamo del personaggio storico di Pia dei Tolomei è in quei sei versi che sono diventate migliaia e migliaia di pagine perché generazioni di scrittori hanno cercato di immaginare chi fosse, che vita avesse fatto Pia de’Tolomei e su di lei hanno scritto romanzi Marguerite Yourcenar, la più grande scrittrice francese e Carolina Invernizio, l’allora popolarissima scrittrice italiana e Pia dice a Dante. “Deh, quando tu sarai tornato al mondo, e riposato de la lunga via… ricorditi di me, che son la Pia; Siena mi fé, disfecemi Maremma (sono nata a Siena e sono morta in Maremma) ma come è morta Pia de’Tolomei? Negli ultimi due versi la soluzione del giallo: salsi (lo sa) colui che ‘nnanellata pria disposando m’avea con la sua gemma (lo sa come sono morta mio marito, l’uomo che mi sposò, che mi diede l’anello nuziale. Pia de’Tolomei è stata assassinata dal marito geloso, proprio come Francesca da Rimini che in realtà era di Ravenna, siede la terra dove nata fui su la marina ove il Po discende per aver pace coi seguaci sui. Ma viene data in sposa a Gianciotto Malatesta, il figlio del signore di Rimini per suggellare la pace tra le due casate e le due città. Però finisce male, Gianciotto è brutto, sciancato, ma ha un fratello bellissimo, Paolo. Paolo e Francesca, come ben sapete, si innamorano e scoprono di amarsi leggendo un libro: galeotto fu il libro e chi lo scrisse. Libro, un romanzo cavalleresco che racconta un altro amore impossibile, quello tra Lancillotto, l’eroe di Re Artù, e Ginevra, la moglie di Re Artù e quando i due leggono il bacio tra Lancillotto e Ginevra, “de te in fabula narratur”, riconoscono la loro storia in quella del libro e Paolo bacia tutto tremante Francesca. Sono versi notissimi e mi perdonerà Nembrini per la piccolissima incursione nell’Inferno, ogni terzina comincia con la parola Amore: Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende prese costui della bella persona che mi fu tolta e il modo ancor m’offende. Amor ch’a nullo amato amar perdona mi prese del costui piacer sì forte che, come vedi, ancor non m’abbandona. Amor condusse noi ad una morte: Caina attende chi vita ci spense. Amor ch’a nullo amato amar perdona è uno dei versi più celebri della letteratura, sembra scritto ieri, un verso senza tempo, è finito anche in Serenata Rap di Jovanotti, è finito in “Ci vorrebbe un amico” di Antonello Venditti. Io non so se sia davvero così, se davvero l’amore non consenta a nessuno che sia amato di non riamare a sua volta, esistono anche gli amori non corrisposti, ma soprattutto se l’Amore ti costringe a riamare, dov’è il peccato, qual è la colpa, perché Francesca è all’Inferno? E Dante risponde a questo interrogativo nel Purgatorio, spiegando la sua teoria dell’amore. “Né creator né creatura mai… fu sanza amore”. Siamo tutti nati da una donna innamorata, siamo tutti nati per amare. Così come le api fanno il miele, la cera, senza bisogno che nessuno glielo insegni, ma se la cera è sempre buona, non sono sempre buoni i sigilli che nella cera vengono impressi. Possono esserci sigilli falsi che fanno sembrare lettere autentiche lettere che non lo sono. Allo stesso modo l’amore non è sempre buono. Ci può essere anche la passione per le cose sbagliate o per la persona sbagliata, ma non è meno importante l’altro verso: “Caina attende chi vita ci spense”. L’assassino di Paolo e Francesca, così come l’assassino di Pia de’Tolomei è nella Caina, il posto più brutto di tutto l’Inferno, dove sono puniti i traditori dei parenti, Caino appunto, e in fondo all’Inferno non c’è il fuoco, il fuoco dell’amore divino riscalda le anime in Paradiso, in fondo all’Inferno c’è il ghiaccio, simbolo dell’odio e della disperazione. Ed è lì, secondo Dante, che vanno a finire quelli che fanno del male alle donne, ed è giusto che sia così, perché la violenza contro le donne non è un problema delle donne soltanto, è un problema di noi uomini, siamo noi uomini che dobbiamo cambiare e far cambiare i violenti, quelli che ancora si considerano proprietari del corpo e dell’anima della donna e non sono disposti a riconoscere la sacrosanta libertà della donna di amare chi vuole e di sposare chi vuole.

L’altra storia che cerco di raccontare, il più breve possibile, ma ci tengo, è l’incontro tra Dante e Manfredi. Voi sapete che Dante si pone il problema del male. All’Inferno ci sono i diavoli e Dante inventa i nomi dei diavoli con una bravura pazzesca. Il capo si chiama Malacoda e chiama a raccolta i suoi compagni, deve formare una squadra, una decina di diavoli e allora lui li chiama uno ad uno. “Tra’ti avante, Alichino, e Calcabrina – cominciò elli a dire – e tu, Cagnazzo; e Barbariccia guidi la decina. Libicocco vegn’oltre e Draghignazzo, Ciriatto sannuto e Graffiacane e Farfarello e Rubicante pazzo”. Tutti nomi inventati da Dante, ma tutti nomi da Commedia dell’arte, cioè i diavoli di Dante non fanno veramente paura, fanno più ridere. Il male è dentro di noi, il male è dentro l’uomo. Manfredi si presenta a Dante e gli dice: “Orribil furon li peccati miei; ma la bontà infinita ha si gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei”. Manfredi è stato scomunicato, si è macchiato di orribili peccati. Il Papa ha chiamato i Francesi per sconfiggere l’esercito degli svevi, degli imperiali, dei Tedeschi, comandato da Manfredi, e i Francesi, gli Angioini, sconfiggono Manfredi e lo uccidono: lo uccidono con un colpo al viso e un colpo al petto. Dante descrive Manfredi così: “Biondo era e bello e di gentile aspetto, ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso”. Bene, i cavalieri francesi riconoscono il suo valore e gli danno sepoltura sul campo di battaglia, ponendo ognuno un masso sul suo corpo, ma il Papa che lo odiava ordina ai Francesi di disseppellire il corpo e di disperderlo. E Manfredi dice a Dante parlando delle sue ossa: “ora la bagna la pioggia e move il vento”. “Pioveva su tutte le Langhe, lassù a San Benedetto mio padre si pigliava la sua prima acqua sotto terra”. Sono convinto che quando Beppe Fenoglio scrisse il meraviglioso incipit della Malora avesse in mente questi versi di Dante. L’immagine è la stessa, un corpo insepolto, esposto alle intemperie. Un uomo, poco importa se un contadino povero delle Langhe o un re caduto in battaglia, che ha subito ingiustizie anche da vivo, ma continua a subirle da morto; eppure l’anima è salva, perché la sorte dell’uomo non la decide neanche il Papa, si gioca nel suo rapporto con Dio. Se facciamo il male e non ci pentiamo andiamo all’Inferno, se facciamo il male e ci pentiamo andiamo in Purgatorio, chi fa il bene andrà in Paradiso, dove troverà l’ambiente che ci racconterà adesso don Massimo.

Chiudo davvero con due velocissime considerazioni, nella Divina Commedia c’è in nuce tutta la letteratura a venire. “Vende la carne loro essendo viva” scrive Dante di un podestà di Firenze particolarmente feroce, “vende la carne loro essendo viva” come non pensare alla libbra di carne umana che il Mercante di Venezia di Shakespeare esige come pegno del prestito che ha accordato al gentiluomo veneziano. “Ne più mai toccherò le sacre sponde”, Ne più mai, la triplice negazione con cui comincia l’ode a Zacinto è presa, parola per parola, dal Purgatorio di Dante. “Le donne, i cavalier, l’arme e gli amori, le cortesie, le audaci imprese io canto” l’incipit dell’Orlando Furioso di Ariosto, è preso parola per parola dal Purgatorio di Dante. “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie” Ungaretti. Dante per dare l’idea della massa di anime che attendono di essere traghettate da Caronte le paragona alle foglie che si staccano d’autunno dagli alberi. Avete presente, scusate la citazione colta, “Viulentemente mia”, il film con Abatantuono quando Abatantuono fa l’appuntato Cottone e il capo gli dice ti sbatto in Barbagia. Dante per dare l’idea di una terra selvaggia, barbara, così, cita appunto la Barbagia e quindi anche in Diego Abatantuono c’è un eco di Dante.

Concludo davvero: “A riveder le stelle” ha un esergo con due citazioni: una è presa da un libro di Nembrini, l’altra è una citazione di Borges qua la quale, (naturalmente Nembrini lo mettiamo un gradino sopra, ma anche Borges, nel suo piccolo, qualcosa di interessante l’ha scritto), e Borges scrive che la Divina Commedia è il più bel libro scritto dagli uomini, sottintendendo che l’altro grande libro era la Bibbia, scritto da Dio. Ebbene questo libro, il più bel libro scritto dagli uomini, l’ha scritto un nostro compatriota, nella nostra lingua, e già questo ci ricorda che essere italiani non è (come purtroppo tanti ragazzi sono indotti a pensare), non è una sfortuna, essere italiani è una opportunità, perché vuol dire vivere in quello che Dante per primo definì il Bel Paese, il più bel paese del mondo ed essere italiani è anche una responsabilità, vuol dire essere all’altezza di un patrimonio unico al mondo di valori, di bellezza, di valori cristiani, che i nostri padri e le nostre madri ci hanno lasciato e di cui dobbiamo essere degni. Per questo davvero Dante Alighieri parla di noi e ci ricorda che essere italiani è un grande colpo di fortuna. Vi ringrazio.

 

Bardazzi: Don Massimo, ascoltiamo le tue riflessioni sulla terza cantica.

 

Camisasca: Bene. Buon pomeriggio a tutti a voi che ascoltate da qui e che ascoltate da casa. So che siete numerosi, molto numerosi anche da casa. E io penso che noi stiamo assistendo un po’ a un concerto, forse una sinfonia, tre parti, o forse a un concerto, tre note, tre note diverse, come avete potuto cogliere ascoltando Nembrini e Cazzullo e come capirete ascoltando me. Cioè punti di vista convergenti, ma nello stesso tempo nati da esperienze diverse, l’esperienza educativa di Nembrini, l’esperienza di notazione profonda mnemonica quale la mente enciclopedica di Aldo Cazzullo può avere, e invece io sono un direttore d’orchestra, che vuole tenere lo spartito sotto gli occhi, perdonatemi, ma perché il tema è un po’ impegnativo e un po’ particolare.

Mi sono chiesto, ma noi uomini del terzo millennio abbiamo ancora speranza di futuro? Beh, se io penso alla crisi demografica che riguarda non solo l’Italia, ma soprattutto l’Italia, dovrei rispondere di no, è un dramma. Se penso alla paura che ha dominato questi ultimi due anni e che si è incistata dentro di noi, quasi come una malattia che non riusciamo ad estirpare. Se penso alla nostra difficoltà ad accettare il sacrificio (per questo mi hanno colpito tantissimo la maggior parte delle interviste che sono state fatte in televisione ai nostri atleti che hanno vinto i campionati europei di nuoto e di atletica, che hanno dato una grandissima testimonianza di sacrificio) perché non si può vincere senza il sacrificio, come è difficile attraversare il dolore, come è difficile accettare i propri limiti. Ebbene il Paradiso di Dante è innanzi tutto un inno al coraggio, un invito a non disperare mai, a tentare sempre una nuova navigazione; con una condizione: che si abbia una barca e un equipaggio adeguati. Ecco questa è la condizione che mette Dante. Devi avere degli altri compagni e devi avere una barca che ti permetta di attraversare tutto il cielo, fino a arrivare a Dio. E qui non basta solo la ragione. Quali consigli ha Dante affinché si riaccenda la speranza nei nostri cuori? Direi che l’asse su cui si muove tutta quanta l’esperienza di Dante e tutta quanta l’esperienza del Paradiso, si può raccogliere in una parola, la parola “attrazione”. Dante sale per attrazione, non sale per forze proprie; viene attratto dallo sguardo e dal sorriso di Beatrice. Quali sono allora le vere attrazioni della vita? Ecco questa è la domanda che sta dentro il Paradiso. Uomo, cerca di scoprire quali sono le attrazioni che dominano la vita in senso positivo e che possono portarti in avanti. Virgilio aveva scritto nelle Bucoliche che ciascuno è attratto da ciò che gli piace. E il Paradiso è un viaggio in cui il poeta si arrende all’attrazione, all’attrattiva dello sguardo di Beatrice e alla luce che accompagna il suo sorriso. Quindi un invito alla speranza, che è un invito ad arrenderci all’attrazione, all’attrazione vera, non è un’utopia e non è neanche un’illusione e neppure una visionarietà, anche se è una visione, ma è un percorso che Dante ha fatto realmente. Il percorso del poeta, non dimentichiamolo, è il percorso dell’uomo Dante. Non possiamo mai distinguerlo, non è una fiction, casomai piuttosto è una cronaca, dall’infimo lago dello smarrimento e della lacerazione, causate in lui dalla vittoria delle passioni, “superbia, invidia ed avarizia sono le tre faville c’hanno i cuori accesi (di fronte a Cazzullo anch’io devo citare qualche verso, altrimenti mi sento un po’ in inferiorità). Il traviamento di Dante non è un espediente poetico, come ci diceva anche Aldo prima, lui veramente ha tradito. Altrimenti sarebbe tutta una bella fiaba e quel senso di concretezza, di sangue che si avverte nella Commedia c’è perché ci parla della vita che quest’uomo ha vissuto, giorno dopo giorno. Il male non è letteratura, neanche in Dostoevskij, anzi soprattutto nella letteratura grande il male non è letteratura, ma è vita vissuta, è strazio, è dolore, è perdutezza, è la triste vittoria della guerra sulla pace, del buio sulla luce, della disperazione sulla speranza. Il grande annuncio che il lettore del paradiso dantesco riceve è che si può risalire da questo abisso, ci si può aprire alla verità, al bene, a Dio e questo è possibile, ripeto, non con le sole forze dell’uomo, ma perché è Dio ad attrarci, normalmente servendosi come è stato detto di altri uomini e di altre donne. Quindi il Paradiso già in questo tempo avviene perché ci sono uomini e donne che Dio mette sulla nostra strada e quindi il grande compito della vita non è di non fare peccati, ma è di scoprire quegli uomini e quelle donne che ci attraggono verso la luce. Dante ci fa vedere che non siamo soli e che accettando l’aiuto di coloro che ci amano possiamo scrivere una pagina nuova della nostra storia personale e della storia del mondo. È chiaro, come citava prima anche Aldo, lo sfondo e il cuore di questa prospettiva è l’esistenza di Dio. Se non c’è Dio che attrae l’uomo rimane avviluppato dentro i propri limiti e se non c’è la prospettiva della vita che non finisce. Dante aveva scritto: la cosa più irragionevole che ci sia è pensare che tutto finisca con la morte, una citazione bellissima. Dante può compiere il suo viaggio perché crede che la storia dell’uomo ha un significato eterno, cosmico e personale e quello cosmico vive dentro ogni persona. Non c’è in Dante differenza tra la stella e l’uomo. L’uomo è abitato dalle stelle e dal destino, dalla cosmicità, dall’universo. Un uomo è tutto l’universo. Bene. Neanche la decisione che l’uomo può prendere perché è libero di escludere Dio dal suo orizzonte elimina nell’uomo la tensione verso l’eterno. Sempre l’uomo ha cercato di superare il proprio limite spazio-temporale, sempre ha cercato di allontanare da sé il più possibile la prospettiva della morte, della propria morte e della morte delle cose. La stessa scrittura, il nostro scrivere che cos’è? che cos’è l’arte figurativa, se non questo anelito che qualcosa resti di noi e degli altri. Eppure, ecco la contraddizione, da soli, con la nostra intelligenza e con le nostre forze non riusciamo a vincere la morte. Non riusciamo a rispondere in modo adeguato al desiderio di eternità che si trova dentro il nostro cuore. Ecco il paradiso dantesco mette al centro questa tensione: come possiamo affrontare questa tensione fra il desiderio dell’infinito nel finito e l’incapacità a trovarlo? Bene, tutta questa tensione si racchiude in una parola, inventata da Dante, in cui è raccolta tutta la sfida dell’esistenza, la scommessa della vita, questa parola che nel primo canto del paradiso è “trasumanar”.”Trasumanar significar per verba non si poria”. Non si può trasmettere con le parole l’esperienza del diventare uomini superando sé stessi, rimanendo sé stessi. Perché questo è il trasumanar, il desiderio dell’uomo di immedesimarsi con il divino, senza perdere nulla della propria umanità. Perché questa è la sfida, perché tutti sono capaci di annientarsi in Dio, ma nessuno è capace di annientarsi in Dio, di incontrare Dio, rimanendo sé stessi, rimanendo uomo (o meglio qualcuno ce l’ha fatta). Trasumanare vuol dire rimanere uomini lasciando cadere ciò che in noi è provvisorio. Ecco, questa è l’esperienza dell’incarnazione che è il centro di tutto il Paradiso. Dio si fa uomo perché l’uomo diventi Dio. Già un antico poeta latino aveva scritto “homo homini deus”, ma era solo un auspicio. Il trasumanare di Dante non è un auspicio, ma descrive un percorso, esattamente il percorso di Gesù. Trasumanare, ecco il significato ultimo della vita, l’uomo può trascendere sé stesso, può essere la farfalla rispetto al bruco, l’albero rispetto al seme, la statua rispetto all’abbozzo, il quadro o l’affresco rispetto allo schizzo o alla sinopia.

La parola trasumanare (entro in una seconda parte del mio intervento) ne intercetta un’altra a noi contemporanea. Ecco cosa dice oggi Dante, dice trasumanar, ma questa parola trasumanar ne intercetta un’altra quasi identica e pure lontanissima: “transumanesimo”. Nick Bostrom, il filosofo svedese presidente della World Transumanist Association lo definisce come (citazione) “un movimento culturale, intellettuale e scentifico che afferma il dovere morale di migliorare le capacità fisiche e cognitive della specie umana e di applicare le nuove tecnologie all’uomo, affinché si possano eliminare quegli aspetti che non sono desiderati o necessari alla condizione umana come – attenti – la sofferenza, la malattia, l’invecchiamento, l’essere mortali”. Questa definizione di transumanesimo pone degli interrogativi radicali. Soprattutto pone una domanda. Che cosa intendiamo quando parliamo di miglioramento dell’uomo, cioè di transumanar? Qual è il limite tra il transumano e il postumano? In altre parole, il transumano ucciderà l’uomo? Lo illustra senza possibilità di fraintendimenti lo stesso Bostrom dicendo che “il transumano è solo una fase preparatoria del postumano. Il primo, il transumano, è un essere che presenta caratteristiche psicologiche, intellettuali e fisiche superiori al normale; il postumano invece”, dice Bostrom, “potrebbe avere 500 anni, capacità cognitive al di sopra del massimo possibile per l’uomo attuale, controllo degli input sensoriali, nessuna sofferenza psicologica”, insomma, dice: “un essere più perfetto dell’umano e del transumano; un postumano insomma godrebbe di un ampliamento della vita senza deteriorarsi – ma di quale vita, lo chiariremo poi – di maggiori capacità intellettuali, sarebbe più intelligente degli altri, avrebbe un corpo che concorda con i propri desideri, potrebbe fare copie di se stesso, disporrebbe di un controllo emozionale totale”. (fine della citazione). È l’antico progetto di DesCartes. Ciò che è importante nell’uomo non è il corpo, che è macchina, ma la mente. Per le teorie estreme dell’intelligenza artificiale l’uomo è un essere in cui tutto ciò che non è macchina, pensieri, sentimenti, affetti, emozioni, scelte può essere ridotto a informazioni e queste trasferite in un unico hardware, che ci permette di sbarazzarci di ciò che è corporeo. Il termine transumanesimo coniato nel 1957 dal primo Direttore Generale dell’UNESCO, il biologo Julian Huxley, è in realtà un espediente linguistico per evitare la parola “eugenismo”, diventata pressoché impossibile da utilizzare dopo l’eugenismo nazista, ma nella sostanza si intende la medesima cosa, il superamento dei limiti umani, la redenzione dell’uomo attraverso la scienza e la tecnica, una tecnica che da tempo non è più neutra, non è più mezzo, ma è diventata fine. Il progetto del transumanesimo postumanesimo, concludo, è la risposta sbagliata dunque ad una domanda giusta. Come vincere la morte? Una risposta inadeguata e pericolosa. Perché pericolosa? Perché presupppone l’annientamento dell’uomo. L’uomo come relazione verrebbe annientato, l’uomo come ragione e libertà, perché i suoi pensieri, i sentimenti saranno puramente dati da immagazzinare in un hardware, l’uomo come volontà, ma soprattutto l’uomo come corpo e anche l’uomo come tensione a dare la vita. È stato divertente e tragico per me leggere, preparando questa relazione, tanti testi sul transumanesimo che parlano di ragazzi che rinunciano all’esercizio della sessualità in vista della possibilità di esercitare soltanto attraverso l’intelligenza artificiale. Pier Paolo Donati in un suo saggio a proposito dell’uomo come essere sociale, mette in evidenza come il presupposto del transumanesimo è l’eliminazione del legame sociale. E Galimberti scrive: il risultato è una solitudine estrema, una società in cui lo scambio interpersonale ha un andamento solipsistico, dove un numero infinito di eremiti di massa, eremiti di massa, comunicano le vedute del mondo quale appare dal loro eremo, separati l’uno dall’altro, chiusi nel loro guscio. Molto intelligente questa analisi di Galimberti. Non a caso una delle parole chiave del gergo transumanista è “singularity”, intendendo con essa una esistenza incorporea sottoforma di pura informazione, installata, come ho detto, su un hardware esterno; un’esistenza in cui le persone umane sono “platform independent” e possono raggiungere un’eternità intramondana, naturalmente intesa non come eternità vera, ma come possibilità di tempo che non finisce. Immaginatevi don Massimo a tremila anni.

Che cosa può dire Dante al transumanesimo contemporaneo? Mentre quest’ultimo – il transumanesimo – per poter rispondere alla sete di eternità insita nella natura umana, riduce l’uomo alle sue informazioni cerebrali, cioè lo declassa a livello di macchina, il trasumanar di Dante innalza l’uomo oltre i suoi limiti, senza annientare nulla della sua umanità. Trasumanar è un’uscita da sé che non rinnega l’umano, tanto meno il corpo. Non è un caso che uno dei maestri pagani di Dante, citatissimo nel Paradiso, sia Ovidio che con le sue Metamorfosi, il testo letterario più seducente, apre l’immaginazione del lettore all’evento del trasumanar. Che stupore leggere questa invocazione di Dante ad Apollo: “Entra nel petto mio, e spira tue sì come quando Marsia traesti de la vagina de le membra sue”. Apollo scorticò Marsia dopo averlo vinto in una gara di canto. Anche noi dobbiamo cambiare pelle, perché non possiamo essere sopravvestiti, ma non dobbiamo cambiare corpo. Sempre all’inizio del Paradiso, sempre citando le Metamorfosi, Dante parla di Glauco che mangiò un’erba che lo trasformò in una divinità marina “Nel suo aspetto tal dentro mi fei, qual si fé Glauco nel gustar de l’erba che ‘l fé consorto in mar de li altri dei”. Non avrei citato questo verso se non fosse che qui Dante traduce una parola della seconda lettera di San Pietro, consortes divinae naturae, l’unica volta in tutto il Nuovo Testamento in cui si dice che noi saremo consorti, cioè avremo la stessa sorte di Dio. E Dante cita proprio questa parola, con questo suo abilissimo deplacement per cui fa dire le verità cristiane sempre dalla mitologia. Dante vive questa esperienza della rinascita, dell’inveramento della sua natura di uomo, guardando negli occhi Beatrice. Agli antipodi, dunque, della filosofia transumanista, Dante ci insegna che solo lo sguardo di un altro ci può far transumanare. Mentre noi vediamo solo per ciò che siamo, chi ci ama ci guarda per ciò per cui siamo fatti. Grazie.

 

Bardazzi: Grazie davvero per questi meravigliosi interventi. Mi piace concludere consegnandovi una famosa dichiarazione di Gianfranco Contini, uno dei più grandi dantisti, il più grande dantista del Novecento, tratta da un suo saggio del 1965, che dice: “la sua lontananza”, la lontananza di Dante nel tempo, nella concezione delle cose, per l’epoca diversa in cui si trova “è insieme controprova e garanzia della sua vicinanza vitale, l’impressione genuina del postero – quindi ognuno di noi qui oggi – incontrandosi con Dante non è di imbattersi in un tenace e ben conservato sopravvissuto, ma di raggiungere qualcuno arrivato prima di lui”.

Prima di ringraziare ancora i nostri ospiti con un grande applauso vi ricordo, ricordo a tutti di sostenere il Meeting attraverso i punti del Dona Ora quelli in Fiera con il cuore rosso, questa grande storia che ci accompagna da 43 anni è possibile grazie al contributo di ognuno di noi. Quindi vi invito a fare questo gesto di donazione per sostenere il Meeting.

Ringrazio tantissimo i nostri ospiti, vi saluto e vi auguro buona continuazione del Meeting.

Data

24 Agosto 2022

Ora

13:00

Edizione

2022

Luogo

Sala Neri Generali
Categoria
Incontri