Homo ludens. Homo videoludens

Enrico Gentina, Ideatore Good game Italia e formatore; Serena Mancini, Formatrice; Michele Marmo, Formatore, animatore sociale culturale. Introduce Alessandra Contin, Giornalista, scrittrice e videogiocatrice.

Dove siamo quando giochiamo a un videogioco? Dove siamo quando siamo nel digitale? Una tavola rotonda in cui si indaga quale sia o quale possa essere la relazione della persona con il digitale, il metaverso e in particolare con il mondo dei videogiochi. Di che natura è questa relazione? Cosa si muove di là? Cosa rimane qui? Tutto quello che vediamo di questa relazione dall’esterno è una persona, posta con il suo corpo quasi immobile di fronte a uno schermo-soglia che si apre verso un mondo sintetico, apparentemente infinito e totalmente immersivo. Ma cosa sta accadendo realmente? Con gli ospiti dell’incontro proveremo a osservare meglio questa relazione, spingendoci oltre le domande polarizzanti (giusto o sbagliato, stiamo dentro o stiamo fuori) alla ricerca di domande vive, capaci di slanciare il nostro sguardo sul rapido cambiamento che caratterizza il nostro tempo al di là della paura e verso nuove possibilità.

HOMO LUDENS. HOMO VIDEOLUDENS

Alessandra Contin: Buonasera! Io sono Alessandra Contin, sono una giornalista. Sono molto felice di vedervi a questo incontro così in tanti, sinceramente. Io scrivo per il gruppo GEDI, da circa 22 anni sono la loro referente per la cultura videoludica. Cioè, mi occupo sostanzialmente di videogiochi. Scrivo per Repubblica, La Stampa, Il Secolo XIX e sono anche una videogiocatrice.

Stasera siamo qui per parlare proprio di videogiochi, che normalmente è un argomento un po’ delicato, un po’ divisivo, e siamo qua con i vostri ospiti, che sono Enrico Gentina, Serena Mancini e da casa Michele Marmo, che purtroppo ha il COVID e non può essere qua in presenza.

Sono tutti formatori, Serena ha anche un passato nella comunicazione, Enrico porta avanti un progetto di cui parleremo, che si chiama Good Game, che è molto interessante, e Michele, oltre a essere un formatore è un animatore sociale e culturale.

Allora, perché parlare di videogiochi? Vi faccio un cappello molto veloce. I videogiochi in questo momento sono la fonte di intrattenimento principale di diverse generazioni, che sono le generazioni che vanno tra i 15 e i 30 anni circa. Non stiamo parlando solo del gioco di per sé, ma stiamo parlando di un mucchio di persone che non guardano la televisione ma magari guardano Twitch, programmi su videogiochi, seguono i loro content creator preferiti … Questo cosa vuol dire? Vuol dire che queste generazioni stanno formando il loro immaginario con questo medium. Non solo, questo medium genera a livello mondiale circa – quest’anno – 200 miliardi di dollari di fatturato. Questo solo parlando di giochi prettamente commerciali. Non è che questi giochi …, generano anche tutta una serie di competenze a monte. Dobbiamo pensare che vengono formate moltissime persone che poi andranno a lavorare in questo ambiente. E queste saranno le persone che poi formeranno l’immaginario di queste nuove generazioni. Quindi a un certo punto con questo ambiente qua bisognerò parlarci. Lascio subito la parola a Enrico, che ci spiega: a un certo punto tu hai sentito l’esigenza di far dialogare persone che arrivano da bolle di sapere completamente differenti, e di creare questo progetto che si chiama Good Game.

Vorrei sapere perché hai avuto questa esigenza e come si è sviluppata.

 

Enrico Gentina: Mah, grazie innanzitutto Alessandra, grazie a tutte le persone che hanno voluto partecipare a questo incontro. Di base c’è una profonda curiosità per questo mondo. Sicuramente per questioni anagrafiche io ho visto nascere i videogiochi, ci ho anche giocato, a volte ci gioco ancora nonostante la veneranda età. Mondo dei videogiochi che si è sicuramente trasformato, come diceva Alessandra poco fa, si è sicuramente evoluto ed è evidentemente esploso, andando a prendere dei mondi che prima erano occupati, il mondo dell’entertainment, erano occupati da altre industrie, dall’industria del cinema, dall’industria della musica, dall’industria del broadcast e della televisione. La questione che per me in generale è un po’ poco sopportabile è quando trovo delle bolle di sapere chiuse in sé stesse. Allora, lì dentro al videogioco ci sono un sacco di competenze, ci sono un sacco di pensieri, e chi ne fruisce ne è proprio solo un fruitore. Questa cosa genera automaticamente del pregiudizio. Perché, se c’è una cosa che non so, o la idolatro, ci sta, oppure la denigro. Ma sono comunque posizioni pregiudiziali. Allora l’idea di Good Game Italia è: proviamo a trovare, innanzitutto delle persone – perché io sono sempre convinto che si parta dalle relazioni, che si parta dalle persone, per fare le cose – troviamo delle persone che abbiano voglia di indagare quel mondo lì. Magari lasciando da parte per un attimo i pregiudizi, magari provando, anziché a cercare delle risposte, a trovare le domande giuste da fare per affrontare quel mondo, il mondo del videogioco, il mondo dove, come diceva prima Alessandra, tantissime persone passano tantissimo tempo della loro vita. E allora Good Game Italia nasce per quello, nasce per indagare, attraverso delle persone che vengono da mondi molto diversi, che vengono da generazioni diverse, per indagare quel mondo lì, provando a capire se ci sono dei pregiudizi fondati, dove si fondano, e provare magari a farsi un’idea differenze.

Mi bloccherei qui, perché se no racconto tutto, e poi porto via il tempo di tutti.

 

Alessandra Contin: Allora passerei a coinvolgere Michele da casa, e gli vorrei chiedere: visto che ci sono queste competenze, il digitale genera competenze, il videogioco genera tutta una serie di competenze che potrebbero riversarsi poi in altri ambiti, secondo te, da formatore, a me viene in mente per esempio la socializzazione, o anche il problem solving, ma secondo te quali sono le competenze più interessanti, i saperi più interessanti che si possono apprendere giocando?

 

Michele Marmo: Intanto un saluto da parte mia anche a tutti, grazie anche a te dell’introduzione. Ce ne sono tantissime, di competenze! Tra l’altro, la questione che a me ha avvicinato a questo mondo e anche l’invito che Enrico ha fatto rispetto a tutto il tema dei videogiochi, è stata questa scoperta, di un universo che permette un immediato e più facile apprendimento da parte di generazioni di una serie di competenze ma anche di altre emozioni. Allora mi sono chiesto che cosa era così centrale in questa esperienza. E se vogliamo andare un po’ alla radice, la questione principale è che effettivamente ci costringe a un cambio di paradigma. Le esperienze dell’online e dei videogiochi sono un’esperienza immersiva che coinvolgono la nostra modalità percettiva e motoria di conoscere la realtà, e meno quella simbolica-ricostruttiva.

Allora in questo senso è come se noi dicessimo: entriamo nella esperienza dei videogiochi utilizzando delle competenze che sono più, come dire, ancestrali. È come se noi dentro i videogiochi facessimo esperienza della conoscenza che quasi primordialmente l’uomo ha messo in campo. E allora in questo senso ecco quali sono le competenze. Intanto le competenze sono legate a fare e apprendere facendo, quindi una dimensione esperienziale che ci mette in condizione di sentirsi dentro le situazioni e emotivamente ad essere immediatamente coinvolti. Questa dimensione poi della totalità dell’immersione credo che poi verrà ripresa dopo anche da altri interventi, ma ci rimanda fortemente l’importanza che l’ambiente del videogioco ci porta.

L’altro elemento interessante è che, al di là di quello che qualcuno dice, è un’esperienza fortemente relazionale, e quindi ci mette in condizione prima di essere in relazione con un oggetto, e quindi con un gioco, ma poi con una serie di compiti, ostacoli progressivamente sviluppati … Questo è interessante anche per vedere qual è la logica e l’architettura dei videogiochi, che ci permettono, tramite una serie di passaggi, di fare una prima esperienza, di esercitarsi, di correggerci sbagliando. Ad esempio uno degli elementi che a me sembra molto importante è il recupero dell’errore e la capacità di correggersi durante un percorso. Questa dimensione dell’errore che nella nostra cultura di solito non è così premiata … E la dimensione relazionale sociale, dicevo, per quanto sembrerebbe poco presente, in realtà è quella che viene continuamente messa in gioco, soprattutto dalle ultime modalità di gioco online, che ci permettono di stare in relazione con altri, di giocare con altri. E alcune ricerche mettono in evidenza come nella struttura della soluzione dei problemi, nell’affrontare anche i giochi, molto spesso la dimensione della relazionalità è molto forte.

Non sto poi a elencare anche tutte le situazioni in cui vengono utilizzati i giochi in funzione anche quasi di cura, quasi terapeutica, per calmare alcune situazioni di ansia, alcune dimensioni di dipendenza. Quindi c’è tutta una narrazione, che a volte viene enfatizzata, negativa rispetto ai videogiochi, che in realtà si ribalta se li utilizzo bene. Quindi qui si apre fortemente poi tutto il tema educativo, cioè, come ogni strumento va dosato.

Ultima cosa che dico, e poi mi taccio, una questione che però a me ha colpito molto nel ragionamento è quello che è capitato anche durante il lockdown: c’è il rischio però di pensare ai videogiochi come strumenti accessori, come aggiuntivi, non cambiando il paradigma culturale e formativo. Credo che qui la questione su cui dovremmo interrogarci e che con Good Game ci stiamo ponendo, è ridefinire qui i processi di apprendimento e insegnamento grazie all’esperienza dei videogiochi. Dice Ken Robinson, si tratta di proporre un’esperienza estetica, cioè in cui io sono totalmente vivo, e non un’esperienza anestetica, come spesso capita nei processi formativi scolastici e quant’altro. Allora tutte queste dimensioni mi sembra che vadano un po’ …, siano oggetto di ricerca e richiedono una maggior consapevolezza da parte degli adulti, che di fronte a questa esperienza rischiano di essere un po’ più inerti. Poi su questo magari ci ritorniamo.

 

Alessandra Contin: Ok, grazie Michele. Serena, la parola ‘metaverso’, non so se lo sapete, è stata coniata la prima volta da uno scrittore di fantascienza, che era anche un linguista, che si chiama Neil Stephenson, ed è apparsa in un romanzo meraviglioso che si chiama Snow Crash, ed è proprio un romanzo fondamentale per la cultura cyber punk. Quando giochiamo, noi abbiamo un’esperienza, come diceva Michele, immersiva. Quindi il nostro corpo viene immerso in un altrove. Adesso si usa molto la parola ‘metaverso’, il primo vero metaverso nel videogioco è stato un po’ Second Life, uno di quelli veramente grossi è stato World of Warcraft. Il nostro corpo, quando entra in un gioco è un’estensione della nostra realtà che incontra il metaverso o l’altro verso, oppure noi viviamo questa esperienza, che è anche un’esperienza, oltre ad essere immersiva, emotiva, attraverso un nostro avatar, che è quello che poi vediamo dallo schermo?

 

Serena Mancini: Sì, quando osservo e mi interrogo sulla questione, da persona che frequenta pratiche corporee quotidianamente, guardo sempre la questione da due punti di vista: uno esterno, quindi dall’esterno, io, se mi metto a videogiocare, ho il mio corpo seduto su una sedia o su un divano, ho un pod tra le mani, e a un certo punto ho uno schermo che diventa una finestra verso quest’altrove di cui parlavi. Quindi se io guardo dall’esterno, effettivamente il corpo rimane in un qui, e qualcosa di me si muove, si spalanca su questo altrove e comincia a interagire con questo altrove. Quindi, indubbiamente, sembrerebbe che il corpo non partecipi. Però a me viene sempre da chiedere: allora quale parte di noi sta andando in quell’altrove? Proprio perché c’è un ingaggio, c’è un interesse, c’è una forma di piacere, di divertimento, qualcosa di noi viene coinvolto. Che cos’è questa cosa di noi che viene coinvolto? C’è sempre questo antico binarismo tra mente e corpo, ma di fatto mente e corpo non sono due cose diverse. Quindi diventa interessante capire: se questa parte di noi si sposta in là e fa delle cose in là, che cos’è che poi torna indietro e come torna indietro? E che cosa succede dentro il corpo una volta che l’attenzione, la presenza torna nel qui? Ma c’è ancora un’altra cosa secondo me che si può considerare, sempre guardando dall’esterno, immaginando che ci sia questa possibilità di andare al di là dei limiti del corpo, al di là della realtà fisica. È vero che se io mentre sono lì giro lo sguardo verso la parte di me che rimane seduta, il corpo rimane svuotato di qualcosa, rimane svuotato di una presenza e di una attenzione. E quindi a questo punto diventa interessante, una volta tornati, capire che cosa è cambiato nel corpo. E poi devo dire che spesso mi interrogo: questo qui che noi intendiamo come un luogo fisico, ma in realtà più che un luogo fisico in realtà è una certa qualità dello stare nell’esistenza, che è una qualità di totalità dell’essere, dove appunto mente e corpo sono uniti in un’unica esperienza. Quindi non ho risposte, ma penso che sia importante fare questo esercizio di interrogazione, in qualche modo, spostando il punto di vista e provando anche a guardarsi dal di dentro mentre si fa l’esperienza. Infine, è qualcosa di soggettivo, e mi viene da dire: la cosa importante non è neanche tanto capire che cosa rimane e che cosa torna, ma avere sempre consapevolezza di quello che succede.

 

Alessandra Contin: Però vorrei fare con te un piccolo approfondimento. Non tutti i videogiochi sono uguali: ci sono i giochi multiplayer e ci sono giochi single player. Ci sono dei giochi single player molto emotivi, per cui tu proprio hai una partecipazione molto forte. Ma i giochi multiplayer in cui tu vivi questa realtà col tuo avatar, e che diventa poi però una realtà condivisa, la percezione che si ha, visto che sei in questo ambiente immersivo, secondo te potrebbe essere diversa?

 

Serena Mancini: È interessante quello che succede anche a livello dell’intelligenza, questa possibilità relazionale, e la possibilità di imparare a risolvere insieme delle situazioni e dei problemi. È qualcosa di cui abbiamo un bisogno incredibile, secondo me, perché la sfida della complessità del nostro tempo richiede assolutamente questo tipo di abilità, questo tipo di competenza, però di nuovo, secondo me è importante non confondere un’idea concettuale dell’esperienza con l’esperienza. C’è il famoso detto che la mappa non è il territorio. Quindi è vero, c’è una possibilità, un esercizio alla relazione, ma non dimentichiamoci poi della relazione prossemica, quella che riguarda il corpo e che comunque si muove su un altro piano. Però sicuramente, secondo me, a livello di sviluppo di un certo tipo di intelligenza questo tipo di giochi sono interessantissimi.

 

Alessandra Contin: Certo, Michele … Scusami, Enrico.

 

Enrico Gentina: Su questo tema qua mi permetto di sottolineare una delle parole che è più ritornata in questi mesi di lavoro di Good Game, che è stata proprio la parola consapevolezza. Cioè, mi sembra centrale lavorare sull’avere consapevolezza di quello che capita, di quello che ci capita. Serena portava tutto questo discorso su cosa capita al corpo nel momento in cui stiamo vivendo delle emozioni. Prima Michele citava il videogioco come una palestra rispetto al fallimento, quello che succede con i videogiochi è che perdi, muori e riprovi, perdi muori e riprovi, perdi muori e riprovi … E questo è sicuramente interessante. Una delle cose che abbiamo notato è che c’è un bisogno forte proprio di lavoro sul tema consapevolezza, anche rispetto all’esperienza stessa del videogioco. Tutta questa storia che abbiamo cominciato a raccontare delle competenze che si acquisiscono videogiocando, non l’abbiamo di certo inventata noi, non abbiamo di certo inventato noi il fatto che nel gioco, video o meno, si apprenda da Huizinga, da Homo ludens, dal quale abbiamo preso, rubato il titolo per questo incontro, si dice che il gioco è un luogo di apprendimento. E quindi lo può essere tranquillamente anche il videogioco. Il videogioco ha sicuramente questo carattere di novità, questo carattere di esperienza molto più coinvolgente, anche sinestetica molto spesso rispetto all’esperienza delle generazioni precedenti, e rischia di farci perdere consapevolezza, di farci perdere un passaggio. Leggete qui che siamo tutti formatori: uno dei capisaldi della formazione che pratichiamo è il fatto che l’esperienza possa essere trasformata in un sapere. Io faccio esperienza di una cosa e posso, da quell’esperienza lì, portarmi a casa un sapere. Ma ci vuole un pezzettino, ci vuole un’azione da fare, che è proprio centrata sul tema consapevolezza, che si chiama rielaborazione. Allora il processo interessante da fare sarebbe proprio questo: cosa mi succede quando videogioco a livello di corpo, a livello di emozione, a livello di mente, a livello di consapevolezza, a livello di competenze che sviluppo? Perché se questa cosa riuscissi a farmela restituire, sarebbe una festa per tutti i ragazzini…

 

Alessandra Contin: Adesso ne parliamo, adesso ne parliamo, non anticipare, non spoilerare. Parliamo proprio di questo. Quando i vostri figli giocano, o quando ragazzi voi giocate, cosa state facendo? Quasi sempre in queste situazioni io ricordo e dico un aneddoto personale. Io ho un nipote che ha fondato uno dei grossi studi di sviluppo italiani. Quando aveva 11 anni, noi abbiamo sempre giocato assieme, sempre, stavamo giocando a un gioco a cui non avrebbe dovuto giocare, si chiamava Carmagheddon, era un gioco in cui mettevi sotto i passanti con la macchina. Lui a un certo punto si ferma e mi dice: “Io da grande voglio fare questo”. E io gli dico: “Ma cosa? Vuoi giocare?” E lui dice: “No, io voglio farli i giochi”. Bisogna sempre stare molto attenti a quello che stanno facendo i ragazzi, perché non sempre è ludos per ludos, magari stanno scoprendo cose che li appassionano. Questo in generale, secondo me l’attenzione deve essere alta. Comunque ha fondato questa azienda che è stata venduta l’altr’anno a un grandissimo gruppo internazionale. Lui fa il programmatore di videogiochi. Quindi la mia domanda è per Michele e per Enrico, e vorrei sapere: se è vero che giocando o videogiocando acquisiamo delle competenze, in maniera molto ampia, come possiamo mettere a frutto queste competenze e secondo te, ci potrebbe essere, secondo voi, anche te Michele, un modo per poterle certificare? A voi la parola

 

Enrico Gentina: Domanda da 100 milioni di dollari. Uno dei temi di Good Game Italia è proprio questo. Siccome è verosimile che videogiocando si sviluppino delle competenze, o che nel videogioco emergano quelli che sono i nostri talenti naturali, anche solo a livello di scelta di videogiochi, non perché se gioco a uno Sparatutto ho l’istinto del serial killer, ma magari ho un talento rispetto alla reazione veloce, ai riflessi, alle decisioni veloci.

 

Alessandra Contin: Io gioco quasi solo a Sparatutto …

 

Enrico Gentina: Ma infatti, hai uno sguardo inquietante …, me ne sono solo accorto adesso che siamo nella stessa stanza. Da video non me ne ero mai accorto. La questione è: come facciamo …, può esistere un percorso che ci aiuti a certificare questa cosa qua? Ieri, racconto anche io un aneddoto divertente, ieri sono stato intervistato qui al Meeting da dei ragazzi che stanno facendo adesso le scuole medie, che mi chiedevano di questo progetto. Ho provato un po’ a ragionare, e quando gli ho detto: magari tra qualche anno nei vostri curriculum, quando scriverete un curriculum, vi verrà chiesto a quali videogiochi state giocando, loro hanno strabuzzato gli occhi. Ma come, è la cosa che devo contrattare con i miei genitori per avere mezzora in più al giorno per giocarci … Eppure potrebbe essere interessante. Noi nel videogioco, mentre giochiamo, siamo molto veri, mettiamo in campo – come dicevamo – dei talenti, sviluppiamo delle competenze, forse gli HR, i responsabili delle risorse umane delle aziende tra qualche anno potrebbero essere interessati a capire quali sono le mie abitudini videogiocanti, videoludiche, per apprezzare e per darmi un lavoro che più mi assomiglia.

 

Michele Marmo: Due questioni. Intanto sulla questione della certificazione delle competenze si aprirebbe un volume, perché in questo momento in Italia si sta facendo tutto un piano sulle certificazioni delle competenze che è affidato alle regioni, che è complessissimo, per cui … In generale, non sto parlando delle competenze rispetto ai videogiochi, però mi sembra interessante il ragionamento. Oggi sono andato a curiosare la ricerca del Censis che parla appunto delle prospettive professionali di sviluppo economico e sociale del videogioco, quindi non soltanto dal punto di vista educativo e formativo, come a noi magari viene più facile pensare, ma che tutta una serie di possibilità di sviluppo anche economico per l’Italia, con una specifica competenza sul design proprio dei videogiochi, potrebbe essere un’area interessante di sviluppo. Questo per dire che è possibile ragionare in questi termini, quindi non pensare soltanto, come sempre, alle dimensioni piacevoli, ludiche, immersive, come residuali rispetto alle parti serie che sono il lavoro e lo studio. Quindi questa è una prima riflessione.

E secondo, riprenderei quella riflessione che portava, che citava prima della rielaborazione. Io addirittura dico, forzando, che non c’è esperienza se non c’è la rielaborazione. Ma perché avvenga la rielaborazione bisogna costruire un setting, uno spazio, un tempo adeguato, con delle figure e delle persone adeguate, che mi sembra che apra anche tutto il tema che anche qui al Meeting in questo anno si porta: passione per l’uomo è passione anche educativa. Cioè, cosa vuole dire costruire degli assetti in cui io posso riconoscere, con le giovani generazioni (poi anche qui dovremmo poi definirli, questi giovani, perché se vanno dai 16 ai 35 c’è di mezzo il mondo, metterli tutti nello stesso calderone è un errore proprio concettuale, ma lasciamo un attimo stare questo), resta il fatto che c’è una comunità educante che deve riprendersi la responsabilità di mettersi a ragionare e a riflettere su che cosa si apprende facendo alcune cose, e come la nostra esperienza quotidiana, ludica e non ludica, diventa oggetto di meta riflessione, perché io possa ricavarne insieme degli apprendimenti. Da questo punto di vista, mi sembra anche che si apra poi tutto, dicevo, il file del ruolo dell’adulto che accompagna, dell’educatore. Quindi, siamo tutti performativi durante l’utilizzo dei videogiochi e questo ci fa costruire noi stessi nel mondo e nella realtà, ma c’è bisogno forse di spazi e tempi in cui i genitori, gli educatori si affianchino, conoscano, giochino insieme, facciano esperienza insieme, in maniera orizzontale ma con una dimensione anche verticale di responsabilità di esperienza, perché l’esperienza poi del videogioco, del gioco, diventi effettivamente quella potenzialità di riconoscimento di competenze che descriviamo. Altrimenti resta tutto semplicemente agito, che è poi il rischio che io vedo, appunto, al di là di tutte le incomprensioni e i pregiudizi, un rischio forte, che se non c’è questa operazione di riflessione su quello che faccio e vivo, in alcuni momenti e non costantemente, il rischio è che io resti immerso e non distingua più quel mondo che mi sono costruito dalla costruzione reale delle competenze messe in gioco dalla realtà. Quindi questo mi sembrava un tema che andava un po’ richiamato, rispetto alla sollecitazione che portavi tu.

 

Alessandra Contin: Grazie. Torniamo a noi, al nostro corpo ma anche alla nostra attenzione. Quando giochiamo noi abbiamo generalmente una soglia di attenzione molto alta, almeno a me capita, lo dico come esperienza personale, e mi dà molto fastidio anche che questa attenzione venga portata altrove. Io lo faccio per lavoro e lo faccio anche per molte ore al giorno, e devo guardare un mucchio di cose. Quando giochiamo, dove si concentra la nostra attenzione, e quando poi dobbiamo tirare le somme, perché a un certo punto, per esempio, ribadisco, io lo faccio per lavoro e a un certo punto devo tirare le somme di quello che ho visto, non è che posso … Però, ludos per ludos, e ludos per imparare qualcosa, dove porto e dove riporto l’attenzione?

 

Serena Mancini: Mi vien anche qui da provare … Proviamo anche noi a capire come vengono progettati questi giochi, e quindi sostanzialmente come funzioniamo. Non è che l’attenzione si accende perché di fronte a me mille lucine, e allora io ci vado dietro. Innanzitutto c’è una scelta. Ma quello che noi stiamo raccontando dell’esperienza dei videogiochi, in realtà è vera per qualsiasi esperienza, viene detta, di flusso. Cioè, qualsiasi esperienza in cui vengono ingaggiate una serie di dimensioni, che sono la concentrazione, la motivazione, ma anche il desiderio. Quando qualcosa ci interessa fortemente, sia che noi giochiamo ai videogiochi, sia che disegniamo, sia che suoniamo, a seconda di quello che accende il nostro desiderio, l’esperienza è la medesima. Ci scandalizziamo per i videogiochi, ma è esattamente la stessa cosa per tutto, anche un libro ci può portare a quel tipo di dimensione. Quindi, l’attenzione in realtà, forse va fatta una distinzione, perché l’attenzione è una delle componenti di questa esperienza di coinvolgimento. Poi c’è, appunto, la concentrazione, la motivazione e il desiderio. Forse quello che va un pochino districato …

 

Alessandra Contin: Ti fermo solo … Però, rispetto a un libro, o rispetto a un programma televisivo, per quanto coinvolgente possa essere, come una serie, il videogioco fa un passo in avanti, che è quello tattile e quello immersivo. Quindi il livello di attenzione …

Serena Mancini: Perché in realtà vengono progettati per saturare i nostri canali sensoriali. Quello che succede è che arrivano informazioni da più parti, da più porte sensoriali, ed è chiaro che diventa più difficile uscire, perché in realtà noi siamo coinvolti da più porte, e quello che succede, però, è che non tutte queste informazioni vengono assorbite in modo conscio, questo non è possibile. Entra in campo, oltre al sentire, anche una dimensione che è più percettiva. È un po’ quello di cui stavano parlando anche Enrico e Michele. Nel momento in cui mi è possibile fare una rielaborazione, è perché io a un certo punto faccio entrare questa dimensione percettiva. Nella dimensione percettiva io entro in relazione con le informazioni che ricevo, e nel momento in cui entro in relazione, in realtà scelgo che cosa fare entrare dentro e che cosa non fare entrare. Ma la dimensione percettiva e la dimensione sensoriale non funzionano solo ricevendo dall’esterno, ma anche portando fuori, quindi sono vie a due …, è una strada a due vie, in realtà. Quando sono in una percezione che mi ingaggia su tutti questi livelli, io sono nell’esperienza percettiva migliore per l’apprendimento, e io credo che sia questa la forza del videogioco. Quando sono attive tutte queste funzioni io sono in uno stato che si chiama focalizzazione attiva. Quindi quello è lo stato migliore per me per entrare in una relazione attiva e dinamica. Il punto è: quanta scelta consapevole stiamo effettuando?

 

Alessandra Contin: Quanta scelta consapevole stiamo effettuando?

 

Serena Mancini: E un’altra cosa che mi viene da dire è: ok, è abbastanza ovvio che qualsiasi cosa, se a un certo punto mi fa dimenticare di necessità fisiologiche base, stiamo andando in una patologia. Cioè, l’unilateralità è sempre comunque patologica, quindi questo a livello generale. Mi viene da dire questo, di avere sempre molta attenzione sul non spostare le cose in modo unilaterale. Però sì, l’attenzione è una delle componenti ingaggiate. Poi c’è un discorso di presenza, se la presenza fosse totale e attiva, io avrei la possibilità di ricordarmi che c’è un intorno, di ricordarmi che ho delle necessità fisiologiche, di accorgermi che magari sono davanti allo schermo da tre ore e mi si sono asciugati gli occhi … E questo ricordare, questa è un’altra componente ancora, che è presenza, più che attenzione.

 

Alessandra Contin: Ok, grazie. Passerei di nuovo … Oh Dio, come sei interessato. Bene! Sei curioso?

 

Enrico Gentina: Sono curioso.

 

Alessandra Contin: Bene! Allora voi con Good Game Italia puntate molto sulla figura del curioso, che adesso tu ci spiegherai e spiegherai al nostro pubblico, che mi sembra che è molto attento, però vorrei anche chiederti: questa figura del curioso può, se formata, poi rientrare in un processo formativo un po’ più istituzionale? Perché sarebbe anche carino, a mio avviso.

 

Enrico Gentina: Sì. Lo sarebbe davvero. Per risolvere questo enigma che ci portava Alessandra, è molto facile spiegare adesso, a questo punto dell’incontro, la figura del curioso di Good Game Italia, perché i curiosi di Good Game Italia sono le persone che avete visto oggi attorno al tavolo. Quello che abbiamo fatto è una rappresentazione vera, per cui una meta rappresentazione, di quello che è stato fino adesso il lavoro di Good Game Italia. Ci sono una cinquantina di persone come Michele, come Serena, come Alessandra, come me per primo, che da sei mesi, a titolo totalmente volontario stanno indagando il tema del videogioco, portando ognuno la propria consapevolezza, la propria esperienza e soprattutto la propria curiosità. Il simbolo della figura del curioso come la intendiamo dentro Good Game Italia è il punto interrogativo, più che il punto, più che il punto esclamativo. È farsi delle domande. A volte ridiamo, perché durante alcune sessioni dei curiosi di Good Game Italia uno fa una domanda ma un altro non risponde, risponde con un’altra domanda, e poi risponde con un’altra domanda ancora. E dici, ma perché siamo finiti qua … È sicuramente provocatoria la domanda di Alessandra rispetto all’istituzionalizzare la figura dei curiosi, ma in realtà mi sembrerebbe veramente un passo interessante, avere dei professionisti della curiosità. Adesso, al di là del tenere la paternità rispetto a questo battesimo della professione, però anche qui, richiamando il tema del Meeting, una passione per l’essere umano passa attraverso l’esserne curioso, e l’essere curioso passa attraverso il non essere giudicante, ma è l’essere attivo nel conoscere, nel comprendere nell’investigare. Lontano dal pregiudizio, ad esempio. In Good Game Italia, tornando qui, cosa succede ai curiosi, dopo aver passato tutti questi mesi a interrogarsi, a indagare, a scambiarsi esperienze? Che saranno gli animatori, anche qui, animatori pieni di punti interrogativi, dell’evento di Good Game Italia, che sarà l’8 ottobre, che è un thinketon, parola per me sconosciutissima fino a qualche settimana fa quando un curioso, particolarmente giovane, me l’ha fatta conoscere, i ragazzi che mi hanno intervistato ieri, questi delle scuole medie, l’han chiamata pensatoio, che mi piace tantissimo come definizione, il thinketon, è un luogo, è una giornata, naturalmente online, dove mille persone, che si stanno iscrivendo in questi giorni su Good Game Italia, si chiederanno qualcosa, un po’ guidati, sicuramente giocandoci, sul tema dei videogiochi. E i curiosi saranno in questi tavoli. Sono cinquanta i curiosi, saranno cinquanta i tavoli, ma i curiosi gireranno tra i vari tavoli, andranno a stimolare domande, andranno a cercare risposte. L’idea è un po’ quella che dicevamo all’inizio, al centro ci stanno sempre le relazioni. Lo studio è importante, i testi, gli autori, i pensatori sono importanti, ma siamo convinti che nella discussione, nella relazione, nel farsi delle domande e nel cercare insieme delle risposte, si possano fare dei passi avanti. E più sono numerose le persone che lo fanno insieme, più il passo avanti è importante un po’ per tutti. Io sono strabiliato dal numero di persone che sono qui presenti oggi, in un pezzo di un evento così importante come il Meeting di Rimini, attirati da questo tema. E allora sarebbe bello che con loro si continuasse, o meglio si iniziasse, un dialogo (perché fino adesso è stato un po’ lato nostro, un raccontare delle cose). Però sarei davvero curioso di sapere che cosa vi ha portati qui, che cosa vi portate via e qual è il vostro pensiero su questo mondo del videogioco. Non so se ho risposto.

 

Alessandra Contin: Sì, hai risposto! Michele, vuoi aggiungere qualcosa? Se no poi passiamo a una domanda per tutti, su cui ci sarà un po’ da parlare

 

Michele Marmo: Mah, aggiungerei un paio di cose legate appunto, tu dicevi, è impossibile istituzionalizzare la figura del curioso. In realtà, io mi sono avvicinato come curioso a questo tema, proprio perché ero molto, come dire, preoccupato di come dentro un momento di trasformazione culturale che sta avvenendo anche nei processi di insegnamento e di apprendimento, il rischio fosse quello di non valorizzare quello che stava effettivamente avvenendo. E quindi mi sembra che questa dimensione, di soggetti che possono aiutare a collegare maggiormente la formazione più istituzionale, noi diciamo l’educazione formale, all’educazione invece non formale, quindi quella che avviene in altri momenti e informale, sia un’operazione interessante. Noi li chiamiamo Youthworker, li chiamiamo animatori, come gli operatori che lavorano con i giovani proprio con questa attenzione forte, di collegare mondi che hanno al centro il ragazzo, ma che a volte utilizzano dimensioni formative che non sono funzionali all’apprendimento, proprio perché vediamo che i ragazzi abitano altri ambienti, altri luoghi. Allora, questa questione dell’istituzionalizzare da una parte mi piace, da un’altra parte no, perché vi ricordo che a un certo punto nella nostra scuola si parlava di animatori digitali, no? e gli animatori digitali sono quelli che poi nella scuola sostanzialmente hanno comprato i computer, ecco, non è che sono riusciti a fare tanto di più, proprio perché l’istituzione complessiva non ha assunto un paradigma nuovo. Allora, questa questione di far parlare quello che è in funziona adesso con il nuovo, mi sembra importante. Faccio un ultimo esempio e poi la smetto. Cambio di paradigma. Quando io spiego cos’è il cambio di paradigma, presento il passaggio dal sistema tolemaico al sistema copernicano. Fino a un certo punto tutti pensavano che il sole girasse intorno alla terra, poi a un certo punto invece si rimette il sole al centro del nostro sistema (poi scopriremo magari delle altre cose ancora, ma intanto di quel momento lì, quella rivoluzione c’è stata). Il passaggio non è stato così semplice, non è avvenuto di colpo, e i maggiori difensori del sistema tolemaico sono stati i più intelligenti difensori di quel sistema vecchio. Quindi i cambi di paradigma richiedono un po’ di lotta, un po’ di costruzione intenzionale dei cambiamenti, non pensando che avvengano da sé. Perché poi, se avvengono da sé, lasciano qualche ferito e qualche morto. Da questo punto di vista, la preoccupazione e la responsabilità, come adulti, di presidiare questi processi di cambiamento dentro però i processi di apprendimento, mi sembra un elemento che a me (44.36) e continua a essere l’elemento interessante per cui sto dentro questa esperienza.

 

Alessandra Contin: Perfetto. Allora, adesso facciamo un ultimo giro su una questione che è spinosa. Non ci girerò troppo attorno. Il videogioco è un argomento divisivo. È un argomento divisivo anche per i media. SI leggono molti articoli che spiegano la pericolosità di questo medium. Cioè, bisogna anche avere un approccio critico, non è tutto bello, non funziona tutto bene. Come qualsiasi cosa, il videogioco ha delle criticità.

Inizierei da … Comunque non è vero che se giocano tre ore a Grant Theft Auto poi uccidono la nonna, come certi titoli che sono usciti … Però criticità esistono. Vorrei sapere dai nostri ospiti quali hanno identificato come criticità in questo medium.

 

Serena Mancini: Sì. Forse questa domanda diventa anche un’occasione per sintetizzare un po’, nel mio caso, il mio intervento. Primo rischio, che però diventa anche un’occasione di attenzione, appunto, è: non dimentichiamoci del corpo, torniamo costantemente al corpo. La seconda questione è quella che proponevi tu, no? il discorso di essere in un’attività che io non vorrei smettere, quindi attenzione al punto in cui questa attività diventa una dipendenza. Ma attenzione non nel senso moralistico del termine, ma, visto che chi progetta videogiochi conosce molto bene il modo in cui il nostro cervello viene ingaggiato e funziona, forse questa diventa un’occasione anche per noi, singoli, di imparare a capire come funzioniamo. La terza cosa invece è più un warning, nel senso un punto di attenzione, come aprire un altro squarcio di curiosità e mettere una domanda sulla domanda, proprio a partire da una criticità. Io credo che in realtà la tecnologia, di per sé, sia abbastanza neutra. C’è sempre questa visione un po’ moralistica, no, che contrappone la tecnologia e l’innovazione all’umano, dove l’umano viene usato come termine legato al buono, e l’innovazione e la tecnologia legato a qualcosa di pericoloso, di cattivo. Appunto, secondo me la tecnologia in realtà è neutra, ma quello che è vero è che ogni innovazione tecnologica produce dei cambiamenti. E questi sì, possono essere o positivi o negativi. E la verità è anche che siamo immersi in una velocità di cambiamento che non si era mai vista. Quindi questi ultimi 150 anni, noi siamo immersi in questa domanda, quindi è difficile anche domandarsi dei rischi. Ma forse vale la pena di capire che la domanda, il quesito, l’inquietudine a monte di tutte queste domande che stiamo portando è una domanda invece che riguarda l’ignoto e la nostra paura di confrontarci con l’ignoto. Quindi siamo in un cambiamento di cui non riusciamo a dirci, perché non c’è il tempo di fermarsi a capire che cosa sta succedendo. E questa è un’inquietudine assolutamente umana, forse vale la pena di ricordarsi che questa può essere la madre di tutti i rischi che noi vediamo. Semplicemente questo. Quindi ritornare all’umano, ritornare all’esperienza dell’umano che si interroga e si chiede di sé e della realtà in cui è immerso.

 

Alessandra Contin: Siamo in un’epoca anche di forti contrapposizioni. Se si guarda, più o meno qualsiasi argomento viene trattato come con due tifoserie opposte. Enrico, mi dici quali sono le criticità che tu vedi in questo medium?

 

Enrico Gentina: Allora, tornerei al tema, al tema consapevolezza. Giustamente, come dice Serena, la tecnologia è neutra, chi ha le chiavi di questa tecnologia ha degli interessi. Il problema non è il fatto che le aziende abbiano degli interessi, il problema è se noi lo sappiamo o no, se ce lo ricordiamo o meno. I videogiochi sono dei prodotti commerciali. Dicevamo all’inizio di come l’industria del videogioco sia un mondo che ha un volume d’affari che musica, televisione e cinema messi insieme, a livello globale. Questo non è né bene e né male. Diventa male se io non lo so, se io penso che il tal videogioco sia lì perché l’ha creato la natura. No, è un prodotto, è in vendita, è in un negozio anche se è virtuale, e colui o colei che me lo ha venduto sta perseguendo il suo obiettivo. Che non è sicuramente quello di farmi del male, ma di mantenermi come consumatore di quel prodotto lì.

 

Alessandra Contin: Dai, non è solo quello. Quando uno studio, comunque, sviluppa un videogioco, poi dipende dal gioco, ha tante motivazioni. Ci sono studi che portano avanti dei discorsi di grande inclusione, di grande attenzione rispetto al loro pubblico. Cercano di portare dentro della gente … Faccio un esempio, Life is strange di Dontnod, studio francese, che ha fatto dei giochi bellissimi, con temi molto forti, che io spero che tutti i ragazzi giochino, perché ti fanno provare che cosa vuol dire il bullismo, ad esempio, te lo fanno provare sul tuo corpo, e lo senti, e lo senti, e senti anche la persona che viene vessata. Quindi è vero, c’è, ma c’è anche altro.

 

Enrico Gentina: E lì ritorniamo al tema del sapere. Io devo saperla, questa cosa. Se questa cosa non la so, mi perdo dei pezzi, e perdersi dei pezzi è un problema. Un altro dei pezzi che ci perdiamo e questo, in questo momento, è dal mio punto di vista uno dei rischi più grandi, il discorso die dati. Quando io gioco metto li dentro tutta una serie di mie competenze, i miei talenti, le mie attitudini. Se il videogioco me li restituisse, alcuni lo fanno, alcuni mi danno alla fine una scheda di come ho giocato, quella cosa lì è una cosa bellissima, perché io magari non me ne accorgo che sono stato così veloce. E allora che io sia veloce, che io sia in grado di guidare una squadra in un maxi multiplayer online, di 200 persone, sarebbe bello che mi venisse restituito, perché poi diventa una moneta da spendere con il mio datore di lavoro, per esempio.

 

Alessandra Contin: Michele

 

Michele Marmo: Allora, io mi permetto di contraddire il maestro Gentina, dicendo che io non penso invece che gli strumenti siano neutri. Diceva McLuhan: il mezzo è messaggio, no? Quindi questa questione, secondo me, è una delle questioni su cui noi non dobbiamo distrarci. Nella preparazione avevamo parlato anche un po’ della questione del brain frame. Sostanzialmente c’è un sistema percettivo cognitivo che modifica il nostro modo di conoscere. In questo momento, ce lo dicevamo forse ragionando insieme, non siamo più dentro un processo di conoscenza lineare, ma molto più reticolare. Questo struttura il nostro modo di conoscere, struttura anche il nostro modo di stare nel mondo. Ormai la dimensione diventa questa. Quindi il mezzo in qualche maniera condiziona. Allora quindi confermo quello che diceva Enrico rispetto alla consapevolezza e al presidio.

E un’altra questione, però, che introdurrei, che mi sembra però che valga per tantissime cose, forse tu lo accennavi quando parlavi anche della polarizzazione delle discussioni, è questa. Cioè, ogni dimensione, ogni situazione è ambivalente. Allora, gli stessi videogiochi, che permettono moltissima socialità, possono rischiare di chiudere dentro un microcosmo quella socialità. Gli stessi videogiochi che ci permettono anche di ragionare in termini di partecipazione di responsabilità e che sono stati pensati come modelli di orizzontalità, in realtà poi possono invece tenerci lontani da una partecipazione attiva alla vita pubblica. Allora, dal mio punto di vista non c’è un elemento critico in sé. C’è l’ambivalenza di ogni dimensione di questo tipo. Per cui l’attenzione e l’accompagnamento, lo dicevamo prima, anche per le giovani generazioni rispetto a questo presidio, giocare insieme, anche, nutrire i ragazzi anche con diete organizzative di tempo che non siano monolitiche o mono tema, questo mi sembra un tema. Allora la questione è, quando io affianco i ragazzi, il rischio è di non interessarmi effettivamente, come dicevi tu, a che cosa i ragazzi imparano, vivono, stanno sperimentando, non interessarmi all’utilizzo che ne fanno, non interessarmi alla dose, alla quantità di tempo, e quindi poi rischiare che il tutto diventi un over che non permette poi di riequilibrare una proposta integrale alla persona.

Quindi io richiamo alla responsabilità della comunità adulta, perché poi noi colpevolizziamo poi sempre i ragazzi per alcuni comportamenti, ma ci dimentichiamo che c’è una dimensione di responsabilità a cui non possiamo sottrarci, proprio perché abbiamo questa passione per l’umano e per l’educazione.

 

Alessandra Contin: E quindi? Che consiglio diamo ai formatori e ai genitori, per … Facco un esempio, così: ci sono dei ragazzi che giocano online, probabilmente moltissimi staranno giocando a Fortnite. Fortnite mette in gioco moltissime emozioni, ci potrebbero essere per esempio dei rischi di discorsi d’odio. È molto facile. Online è molto facile.

Un velocissimo consiglio, una pillola.

 

Enrico Gentina: Facile: siate curiosi! Siate curiosi di questo mondo qua, andate a esplorare … Esistono online tantissimi strumenti per capirci di più. Esiste un’associazione italiana produttori di videogiochi che ha prodotto centinaia di schede, noi stessi come Good Game Italia abbiamo prodotto dei podcast, abbiamo prodotto delle discussioni con i curiosi e con vari esperti, esistono tantissimi strumenti ed esiste la vera vocazione alla curiosità e al saperne di più, perché così ci si riesce a fare un proprio giudizio che sarà sicuramente diverso dal mio, dal tuo o dal suo.

 

Alessandra Contin: Una pillola, Serena?

 

Serena Mancini: Esercitate uno sguardo diverso dal vostro, quindi cercate nuove prospettive. Questo è un messaggio per gli adulti: non guardate soltanto dal di fuori quello che succede, ma mettetevi accanto e provate a guardare con gli occhi dei ragazzi.

 

Alessandra Contin: Michele, chiedo anche a te una pillola.

 

Michele Marmo: Siamo su questo invito, l’imperativo è Siate testimoni, nel senso che mi viene da dire, in questo momento dal punto di vista educativo il tema forte non è né la verticalità né la troppa orizzontalità, ma stare insieme. Quindi: giocate, giocate voi adulti, giocate insieme, e quindi sperimentando potete condividere. Non c’è niente di più in questo momento funzionale dal punto di vista educativo che la esperienza condivisa e discussa, rielaborata insieme.

 

Alessandra Contin: Mi permetto di dare un consiglio anch’io, per genitori e educatori: tenete sempre conto che i videogiochi hanno un sistema di classificazione che si chiama PEGI, ben presente sulla copertina e ben presente anche quando fate gli acquisti online. Guardate se quel gioco va bene per i vostri ragazzi.

Invece ai ragazzi gli dico: giocate, giocate tanto e cercate di mettere a frutto le competenze, perché se li guardate con un’ottica un po’ diversa, i videogiochi possono servirvi a molte cose, anche a socializzare, se siete introversi ad essere un po’ più estroversi, mettetevi in maniera molto aperta.

Volevo ringraziarvi, siete stati veramente molto carini.

Volevo dire un’ultima cosa: il Meeting di Rimini è un Meeting inclusivo, aperto e gratuito. Quindi per continuare con questo format, se potete donate qualcosa a questa istituzione, che va avanti anche con le vostre donazioni.

Vi ringrazio veramente tanto, non mi aspettavo di trovarvi così tanti qua.

Data

22 Agosto 2022

Ora

19:00

Edizione

2022

Luogo

Sala Open Fiber A2
Categoria
Incontri

Allegati