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Lavoro: la persona al centro tra esperienza e desiderio
Franco Guidi, Amministratore Delegato Lombardini22 in dialogo con i giovani manager Barbara Capodiferro, Michela Ceriani, Pietro Duca, Andrea Fumagalli, Luca Martellosio e Daniele Novara. Introduce Pietro Catania, Imprenditore e consulente.
L’incontro nasce da un dialogo tra alcuni giovani che, avviati nel mondo del lavoro come impiegati, manager, imprenditori, professionisti, consulenti, sindacalisti, ricercatori e insegnanti, hanno voluto confrontarsi con le domande che nascevano dalle sfide che si trovavano ad affrontare nella quotidianità del loro lavoro. Andrea Fumagalli è HR Manager nel settore del trasporto aereo, Barbara Capodiferro è Executive Director in una banca d’investimento, Daniele Novara è Customer Experience Director nel settore tech, Luca Martellosio è Imprenditore e Direttore Tecnico e di Produzione nell’edilizia, Michela Ceriani è Senior Consultant nell’ambito dello sviluppo organizzativo, Pietro Duca è Compensation Specialist nel settore bancario. Nell’incontro tra loro è nato l’interesse ad esplorare desideri ed esperienze, e rimettere in discussione il modo con cui guardiamo al lavoro e alle sue tante dimensioni, anche molto concrete, con a cuore una domanda: è possibile mettere al centro del lavoro una passione per l’uomo? L’incontro, oltre che una documentazione del percorso fatto, intende soprattutto rappresentare un invito a proseguire ed allargare il dialogo.
LAVORO: LA PERSONA AL CENTRO TRA ESPERIENZA E DESIDERIO
Pietro Catania: “Lavoro: la persona al centro tra esperienza e desiderio” un titolo invitante per un incontro di sabato sera, alle ore 19, in una località come Rimini, in un posto in cui forse altri, orientati da desideri importanti e lecitissimi, stanno immaginando come trascorrere gioiosamente la serata. Ed è dunque con gratitudine che vi ringraziamo per essere venuti a confrontarci con noi, a far parte di un dialogo, un dialogo che è iniziato a ottobre dell’anno scorso, ed è iniziato grazie ad una delle persone che sono qua tra i giovani manager che è Michela Ceriani, che si collega in remoto, che quando ha visto il titolo del Meeting mi ha telefonato e mi ha detto: “dobbiamo chiedere la possibilità e lo spazio di aprire un dialogo su questo tema che è “una passione per l’uomo” dentro il contesto del lavoro. Perché la nostra vita, se ci pensiamo, sono quattromila settimane, più o meno, passate le prime mille a formarci, poi le successive duemilacinquecento, più o meno, le passeremo lavorando. È una quota importante quella della nostra vita che dedichiamo al lavoro, e poi ce ne rimarranno cinquecento, forse mille per i più fortunati, se esisterà ancora una pensione. E dunque vogliamo confrontarci su questo. E dall’invito di Michela, che si collegherà con noi in remoto, perché nel frattempo Michela aspetta il suo quarto figlio, Michela Ceriani, consulente di sviluppo organizzativo, è nato un dialogo, perché parlando con Bernhard Scholz, il Presidente del Meeting, ci ha fatto incontrare altri giovani manager. E qua abbiamo Daniele Novara, che lavora nel settore dell’information tecnology, ed è un Customer Experience Manager. Abbiamo Luca Martellosio, che è un ingegnere civile, che, da dopo un’esperienza da dipendente, ha seguito l’invito di un suo capo, del quale si fidava, e hanno aperto assieme un’azienda, una piccola azienda che nel giro di sei anni è diventata una media azienda e che dà lavoro a tante persone. Abbiamo Barbara Capodiferro, che è una brillantissima Executiv Director in una Banca di investimento internazionale, nella quale si occupa di gestione del rischio da cambio, per cui aiuta le imprese ad affrontare le complessità delle valute dei mercati internazionali. Abbiamo poi Andrea Fumagalli, che è un HR Manager, è un HR Manager particolare perché lavora nel settore degli aviotrasporti, in particolare nell’Handling, cioè le persone che gestisce sono quelle che negli aeroporti si prendono cura di noi, compreso quelli che caricano e scaricano i bagagli, per cui potete immaginare la complessità con la quale si confronta Andrea. E in remoto, perché non è riuscito ad essere presente per motivi logistici, Pietro Duca, è un Compensation Manager in un importante gruppo bancario italiano e dunque anche lui si confronta con le sfide legate alla retribuzione e alla motivazione. Per cui con questi giovani manager è nato un dialogo anche intrecciato dall’invito di Bernhard ad approfondire questo tema per portarlo nel Meeting. E Bernhard ci ha fatto incontrare Franco Guidi. Franco Guidi, innanzitutto mi piace dirlo e lo ripeterò, che non è solo interessante, ma soprattutto ha saputo mostrarsi interessato. Tante volte, nella mia esperienza, quando incontro manager imprenditori, e Franco è un manager e un imprenditore, li vedo sempre molto tesi a raccontare, a dire, a volte fanno più fatica a fermarsi ad ascoltare, a esprimere una curiosità. Invece un aspetto che subito ci è balzato all’occhio di Franco è stata la sua curiosità, il suo desiderio, la sua disponibilità, prima che a rispondere alle domande di giovani manager con brillanti carriere, a fare lui a loro le sue domande. Ma chi è Franco Guidi? Franco Guidi per vent’anni è manager di un importante gruppo multinazionale del settore farmaceutico, ha una carriera tutta in salita che lo porterà al vertice di una società di questo gruppo come responsabile di prodotti fast moving consumer goods, che sono le lenti a contatto. L’azienda poi sarà soggetta di acquisizioni e di cambi organizzativi e finisce nel gruppo Novartis. Nel 2000 Franco decide di uscire e raccoglie una proposta nuova e diversa, fa un cambio di carriera coraggioso per lui che, dopo un diploma da ragioniere, era andato in Bocconi da studente brillante a studiare Economia Aziendale, si era sempre occupato di numeri e di finanza, decide di entrare in un contesto completamente diverso e va a lavorare in una società di progettazione. Qui lavora per sei anni ma poi qualcosa si rompe al cuore del meccanismo della collaborazione perché nascono delle divergenze valoriali e Franco nel 2007, assieme ad altri sei interlocutori, fa nascere un nuovo soggetto: “Lombardini22”. Lombardini22 è una Società che rapidamente nel campo dell’architettura, del design e della progettazione diventa la Società numero 1 in Italia per fatturato. È una Società con la quale oggi collaborano 390 professionisti. Ma, avendo tanto da dire, Franco per ha voluto, come dicevo, non solo essere interessante ma essere interessato, ed è dalle sue domande ai giovani manager che vogliamo partire. Franco.
Franco Guidi: Grazie Pietro della introduzione. Sono ovviamente molto contento di essere qui e molto curioso di cosa uscirà da questa sera. Le mie domande sono orientate prima di tutto sul tema del senso: dopo due anni di pandemia abbiamo tutti avuto un pensiero sul lavoro, sul perché lavoriamo, sul fatto che valga o meno la pena, quindi un tema sul senso del lavoro. Sapete, i fenomeni della great resignation e quiet exit, di cui si parla oggi, a me interessa sapere oggi da questi giovani manager come vedono il senso del lavoro che fanno, sul perché lo fanno, su quanto si impegnano, su come vedono il frutto di questo impegno, sia a breve termine, che più a medio e lungo termine. Secondo una proposta che ho lanciato per me sul lavoro, il lavoro è sempre stato per me uno sgabello a tre gambe, e le tre gambe sono sostanzialmente: sto imparando, mi sto divertendo e sto guadagnando il giusto. Nel “mi sto divertendo” c’è anche molto del senso sono a mio agio nell’azienda. Quindi nella mia esperienza, quando una di queste gambe veniva meno, io ero in situazione di cambiamento. Quindi mi piaceva sapere quali erano le tre gambe di questi giovani manager qualche decennio dopo. E la terza domanda invece è sulle persone significative. Nella mia esperienza io ricordo chiaramente alcune persone che sono riuscite a farmi capire alcune cose di me che non sapevo, a farmi capire quali erano le mie predisposizioni, a farmi capire quale poteva essere una strada e ho ben chiaro quanto siano state importanti nel mio percorso. La domanda che faccio ė: avete già incontrato persone significative nel vostro percorso, quali sono, che cosa avete visto in loro che vi piacerebbe riprodurre, vi piacerebbe essere persone significative per altri che oggi iniziano nel mondo del lavoro? Queste molto semplicemente le domande. Non so bene chi risponderà a cosa, per quello la curiosità è massima.
Luca Martellosio: Rompo io il ghiaccio. Mi ha molto colpito la domanda che ci hai fatto sul tema del senso, in realtà mi ricollego anche alla terza nel senso raccontando un po’ il mio percorso. Io da laureato, ho avuto la fortuna di lavorare in una grande azienda leader di un settore dell’edilizia che mi ha insegnato, dove ho imparato un mestiere che amo grazie alla competenza che ho avuto avanti, ma soprattutto grazie al coraggio che hanno avuto nel darmi una responsabilità grandissima rischiando su una gestione di commesse molto importanti. Poi per circostanze il mio vecchio responsabile, che in realtà preciso su Pietro, che aveva fondato lui la società nuova, mi ha chiamato ad andare a lavorare con lui. Quindi lì mi si è posto un pochino il tema di chi seguire, cioè sul tema anche dell’apprendimento, quindi la scelta mia nel cambio di lavoro è stata determinata sia dal fatto che avevo la possibilità di seguire un maestro, cioè la persona che professionalmente mi aveva più affascinato e fatto imparare in un metodo di grande responsabilità, cioè una persona che da subito, Stefano si chiama, che da subito mi ha dato una grandissima responsabilità, quindi mi affascinava la possibilità di seguire un maestro soprattutto nel creare una realtà che era agli albori, cioè lui l’ha fondata ma era poco più di una start up, quindi mi affascinava tantissimo la possibilità di potere plasmare una realtà nella modalità in cui io avevo già iniziato a vedere, nella mia breve esperienza, di come mi sarebbe piaciuto creare una realtà, sia a livello di come far business, cioè di come lavorare, ma soprattutto per la possibilità di collaborare a generare un ambiente in cui l’ambiente lavorativo diventi un ambiente sereno, bello, appassionante. Quindi, come diceva Pietro, adesso abbiamo sei anni di vita, siamo una giovane, piccola e media impresa, è una realtà che mi entusiasma, ho colleghi veramente grandiosi con cui lavorare e l’aspetto che proprio più mi affascina è la modalità con cui pian piano, forse anche costruendo una realtà, il rapporto coi colleghi è veramente quello sempre di più di sentirli come dei compagni di viaggio, non dei semplici collaboratori. In questo senso anche quando facevi l’affondo sulla pandemia, sicuramente è stata una circostanza che ci ha accomunato tutti a livello mondiale, probabilmente in un momento storico, per me da un certo punto di vista la pandemia stessa è stata l’occasione perché quelle domande di senso che sono emerse, a me è venuto tanto da dire, cioè le prime persone, visto che ci passo tante ore lavorative al giorno, con cui provare averle a cuore sono i miei colleghi. Anche da quel punto di vista, quelle domande che la pandemia ha fatto un po’ emergere sono diventate da avere nella coda dell’occhio, cioè non è che si è tornati in ufficio a dire cosa ne pensi, se andiamo sottoterra domani, però a me l’aspetto che mi sta più appassionando della realtà che stiamo costruendo è proprio questo, cioè di vedere il collega come un compagno di viaggio, cioè come qualcuno con cui costruire e me ne accorgo perché anche quando, ed è una cosa a cui io tengo particolarmente, faccio dei cheek semestrali, comunque dei momenti di confronto, parto sempre chiedendo all’altro: come stai, come va, a che punto sei? ma col reale interesse di capire realmente lui a che punto è, cosa vede che magari io non vedo. E anche nell’aspetto della correzione, che a volte è necessaria, mi colpisce, mi sta animando il desiderio veramente di valorizzare l’altro. Anche nell’aspetto correttivo mi infervoro per cercare di capire a) dove sto sbagliando io magari a chiedere una determinata cosa, e b) come valorizzarlo, cioè fare emergere un valore che inevitabilmente ha e che desidero che esca. Quindi rispetto al senso mi viene da dire questo: secondo me c’è anche un distinguo da fare, cioè lo scopo e l’obiettivo lavorativo è sacrosanto che venga chiesto al datore di lavoro, mi viene l’esempio se uno spacca le pietre tutto il giorno ha più senso che gli venga detto che contribuiscono a creare un mosaico, cioè sicuramente lo farà in maniera più entusiasta. A livello di senso mi sembra una parola un po’ più alta, cioè mi vien da dire non è qualcosa che io cercherei o chiederei al datore di lavoro, allo stesso tempi nel mio piccolo sento la responsabilità di contribuire a creare un ambiente dove veramente tutti possano sentirsi liberi di esprimersi per quello che sono, nel proporre quello in cui credono, e nel nostro piccolo è una cosa che stiamo provando a portare avanti. Faccio un piccolo esempio. Negli ultimi due anni abbiamo proposto come società di devolvere parte degli utili con una donazione chiedendo ai singoli dipendenti che tipo di associazione avessero voluto sostenere. Un gesto che mi ha colpito soprattutto nell’entusiasmo che hanno avuto loro e nella molteplicità delle cose che hanno voluto sostenere, però come a dire che trovo interessante una reale stima verso l’altro del dire siamo insieme per costruire insieme e quindi io ci tengo a te, cioè questo tenerci, quindi più che un senso cercare di creare un ambiente dove veramente l’altro possa sentirsi valorizzato.
Catania: Diciamo una comunità. Grazie Luca. Dunque sfide importanti che ti hanno generato un senso di responsabilità e da qua il desiderio di costruire una comunità, usiamo questa parola, cioè un luogo in cui l’altro si sente importante protagonista. Ciascuno è responsabile in qualche modo di scoprire il senso del proprio lavoro, ma tu come coimprenditore di una start up fai una proposta e vuoi creare nel contesto di lavoro, le condizioni perché questa proposta possa essere interessante e attraente e sia oggetto di una verifica nella quotidianità. Un esempio di questo è prendere un pezzo dell’utile, metterlo a disposizione perché il collaboratore possa trovare una risposta a un bisogno che nasce da lui e non è definito dall’azienda. Sentiamo altre voci.
Barbara Capodiferro: La mia situazione è un po’ diversa rispetto a quello che lui definiva adesso, nel senso che, come dicevi tu prima, io aiuto le aziende e gli investitori istituzionali a coprire il rischio di cambio, quindi ho una certa base di clienti da coprire con cui devo raggiungere un obiettivo di budget a fine anno, e quindi di per sé un lavoro molto più individuale che quello che Luca descriveva. Sicuramente in questi anni tra Brexit che ha imposto di decentralizzare un po’ gli uffici quindi io e molti miei colleghi ci siamo spostati dal trading floor di Londra ai vari uffici locali e poi con la pandemia in cui ci siamo trovati a lavorare molto da casa, quasi in uno smart working assoluto per più di un anno e mezzo è emerso ancora di più questo senso di solitudine. In più nei nove anni che ho lavorato mi sono trovata a cambiare moltissimi capi, moltissime figure di riferimento, ne ho avuti quattro in nove anni e quindi per me è sempre stato un tema molto importante. Una delle tre gambe dello sgabello di cui Franco parlava prima, è sempre stato quello di imparare, di avere delle figure da cui imparare, quindi ho avuto capi che ho stimato di più, capi che ho stimato di meno, in cui ho cercato di apprendere il buono che vedevo e di farlo mio, ma ho avuto sempre molto il bisogno di trovare una sorta di mentore, una figura che potesse essere costante. Lo dicevamo prima, nella realtà internazionale da cui vengo ci sono tanti cambiamenti ed è difficile instaurare un rapporto umano e quindi ho sempre cercato di avere proprio una figura che fosse di riferimento in questo, perché l’imparare è uno dei punti importanti che mi porto. Insieme ovviamente all’essere pagata il giusto, in maniera congrua rispetto a quanto lavoro, lavoro molte ore, e ai risultati che raggiungo, ma forse ancora di più dell’essere pagata, ho sempre avuto molto il bisogno di essere valorizzata e riconosciuta nel lavoro che faccio. I momenti in cui ho fatto più fatica, in cui mi sono sentita più insoddisfatta nella mia giovane carriera sono stati quelli in cui io ho sentito di dare tanto all’azienda e di non riceverne un riconoscimento in cambio. Questo, per fare un esempio pratico, è stato molto lampante nel periodo in cui sono andata in maternità. Io ho avuto un bambino molto giovane, all’inizio della mia carriera, e non è molto standard nell’investment banking, e nel momento di ricezione del bonus ho visto preponderare i mesi in cui ero stata via dal lavoro rispetto a quelli in cui avevo lavorato, e quindi l’avevo sentita moltissimo come un segno di scarto, quindi appunto, imparare ad essere pagati ma soprattutto ad essere riconosciuti sul lavoro.
Catania: Dunque Barbara, una dimensione di lavoro diversa che richiede un certo coinvolgimento personale ma allo stesso tempo l’importanza da una parte di una relazione, avere un mentore dal quale tu ti possa sentire accompagnata nella crescita e dentro il contesto organizzativo sentirti vista e riconosciuta assieme alle condizioni di sistema di congrua retribuzione, di congruo design di quello che è il tuo ruolo. Un riconoscimento e l’esperienza sgradevole di aver vissuto positivamente una maternità, ma poi tornando in azienda non vedere questo riconoscimento in una maniera che fosse motivante, dunque il desiderio che questo non debba ripetersi, anzi che il contesto possa valorizzare e vedere chi sei e quello che porti.
Tra l’altro mi rendo conto, Michela, che ho presentato tutti, ho detto che tu hai fatto nascere questo incontro. Michela è una senior consultant che si occupa di sviluppo organizzativo, cioè accompagna le aziende a utilizzare al meglio le proprie risorse e aiuta le persone nelle organizzazioni a lavorare assieme in maniera efficace e partecipativa. Michela vuoi prender tu la parola?
Michela Ceriani: Innanzitutto mi spiace immensamente non essere lì in presenza con voi perché era un mio grande desiderio in questo momento e lo è ancora anche se devo partecipare in questa maniera. Mi attacco molto a quello che ha raccontato Barbara perché il desiderio di questo incontro è nato tanto dall’esperienza che faccio nel mio lavoro che è quella di tentare di portare una passione per l’uomo dentro le organizzazioni. Allora mi sono domandata tanto dove l’ho vista principalmente questa passione per l’uomo al lavoro e mi sono venuti in mente soprattutto esempi di cose che ho ricevuto, che ho visto prima di tutto su di me. Infatti io, come diceva Pietro, che è anche mio responsabile, oltre che mio collega da tanti anni, da dieci anni è il mio responsabile, io sono una mamma di tre bambini e aspetto il quarto e nel tempo, più la mia famiglia aumentava più lavorare è diventata una scelta e un desiderio. Se mi confronto con la società di oggi tante persone dicono: ma per lavorare e tirarti il collo forse conviene prendere tutti i sussidi che è possibile prendere e sarebbe uguale quello che ti porteresti a casa probabilmente. Per cui lavorare è un desiderio per me, è una scelta, e mi domando spesso che cosa la motiva, e provo a mettere un po’ insieme il senso del mio lavoro e anche le gambe del mio sgabello. Il motivo del mio lavoro è sicuramente un desiderio di esprimermi, è un desiderio di essere presente, di essere generativa, oltre a quello che già la vita mi ha concesso con la mia grande famiglia. Con questo non intendo dire che il mio lavoro ha senso soltanto quando è molto creativo o molto molto importante, ma intendo proprio dire che il lavoro per me è il luogo in cui la mia persona si esprime e costruisce e collabora e porta un valore, e più mi metto all’opera e più scopro il valore del mio esserci. Questo nel mio mestiere addirittura ha un nome perché nell’organisational development si dice che bisogna utilizzare il proprio self, la proprie persona come uno strumento, e questo vuol dire che, per come lo capisco io, che se ci sono io o se c’è un’altra persona anche a fare la stessa medesima cosa, identica proprio, il risultato sarà diverso, perché l’energia cognitiva, l’energia organizzativa, la sensibilità, ma anche le difficoltà che mi porto addosso, la capacità di osservazione o i momenti di coraggio che mi sono capitati, portano un valore. Questa è una scoperta che avviene appunto perché io nella mia organizzazione ricevo alcuni segnali che mi confermano questa cosa. Ad esempio, faccio alcuni esempi che possono sembrare molto piccoli però, quando lavoriamo insieme tante volte mi viene detto, non so quante volte, quasi fastidiosamente: Michi, ma tu cosa ne pensi, cosa faresti?, e questo mi strappa dalla mia posizione di spettatrice, in cui mi trovo molto a mio agio perché adoro osservare le persone e le dinamiche, e faccio più fatica a mettermi in gioco, ma questa dinamica è una semplice cosa che mi fa sempre ridire: è importante che io sia qui adesso e che io dica quello che vedo, perché magari può cambiare la proposta o il progetto che stiamo facendo. Oppure, come già diceva anche Luca, ci sono persone nella mia organizzazione che ci tengono a che io cresca, a che io prenda responsabilità, che il mio ruolo diventi sempre più personale o che le mie competenze, unite anche a tutte le varie lacune che mi porto appresso, esplodano nella mia professione. Un altro elemento che mi permette di lavorare e che per me è una gamba dello sgabello, nel senso che proprio tiene in piedi la possibilità di fare questo lavoro, è che ci siano le condizioni che mi consentano di farlo senza rinnegare la mia vita di madre, perché questo per me vorrebbe dire spezzare qualcosa nella mia persona. Se io non potessi avere il part time che ho, la flessibilità che ho, o i momenti di smart working che ho, sicuramente io non saprei resistere alla pressione del lavoro e al dolore di dover trascurare troppo la mia famiglia. Ma non parlo solo di condizioni come lo smart working, queste cose che sono necessarie, parlo proprio del fatto che la mia persona non venga considerata accessoria, anche se il mio contributo è ridotto adesso oggettivamente, è ridimensionato. E per farvi un esempio di questo mi è capitato ogni tanto di vedere momenti in cui il mio responsabile o i miei colleghi cercavano di spostare gli appuntamenti nelle fasce orarie in cui io ero presente, e questo è un altro esempio che mi sembra significativo perché per me è l’espressione di un desiderio che io ci sia, che io possa dare il mio contributo. Ecco questi forse sono esempi che io vedo su di me e che ritengo necessari affinché il mio lavoro possa essere veramente generativo e possa davvero portare un contributo, perché è prima di tutto sperimentare nella vita o nel lavoro una passione per l’uomo che mi consente di andare nelle organizzazioni e creare spazi in cui le persone possono sperimentare a loro volta, anche solo per riflesso di quello che io ricevo, questa possibilità che è davvero l’unica in cui ogni persona può, a mio parere, contribuire al meglio delle sue possibilità.
Catania: Dunque lavorare è una scelta e un desiderio, il desiderio di esprimersi, di essere presenti e questo, ci dice Michela, questo ha forma in una generatività che però richiede lo spazio di un’attenzione, l’invito all’altro a chiedere all’altro: tu che cosa ne pensi, a renderlo, aiutarlo a essere protagonista dentro il lavoro, e questo invita a una responsabilità, che cresce tanto più questa attenzione è viva e presente nel contesto di lavoro.
Daniele Novara: Provo io a raccontare invece adesso di me. Mi ha provocato soprattutto la domanda, quella riguardante le gambe dello sgabello e quella dei maestri. Per quanto riguarda questa prima a me è capitato per esperienze, per fatti di aver l’occasione di cambiare alcune aziende per realtà diverse comunque facendo un lavoro abbastanza simile, e quindi di conseguenza mi è sempre capitato spesso di chiedermi quali fossero di fatto le gambe che sostengono lo sgabello su cui poggio. Cito un esempio in modo tale che si capisca. Io l’ultima volta che ho deciso di cambiare azienda è stato perché un vecchio collega mi ha chiamato a andare a lavorare con lui, e io di lui, che oggi è il mio capo, ho sempre stimato una grande pragmaticità e una grande capacità di collegare quello che fa rispetto a come sta andando l’azienda. E quindi io più che ragionare su tante gambe, tante o poche, ho sempre ragionato su seguire qualcosa che mi prendesse fino in fondo, cioè qualcosa per cui valesse la pena spendersi. Però questo di fatto perché è stato reso possibile, io di fatto non posso non citare, nel prendere una decisione, la possibilità di poterla prendere, la fortuna di poterla prendere in rapporto di fatto con mia moglie e i miei amici, perché, per citare sempre un esempio, nell’ultimo caso mia moglie stessa mi ha detto: guarda, io vorrei costruire con te, quindi voglio costruire con una persona che approfondisce le sue passioni, quindi se questa è la tua passione andiamoci dietro. Questo per me è stato poi l’aspetto essenziale. Invece per quanto riguarda l’imparare io ho iniziato il mio percorso lavorativo in una piccola società di consulenza, in Italia, eravamo circa una cinquantina di dipendenti, e quindi ho avuto la possibilità, essendo un ambiente più piccolo, di approfondire tanti rapporti, che tuttora sono rapporti che per me sono fondamentali e al lavoro e non. E nello specifico io ho sempre colto tante caratteristiche da alcuni. Da uno ho sempre invidiato una grande capacità di lettura delle dinamiche, quindi di conseguenza nel tecnico di proporre dei progetti a partire dalla lettura delle dinamiche, da un altro ho sempre invidiato tantissimo la capacità della gestione di un progetto di consulenza, quindi l’inserimento che non è mai semplice. E mi rendo conto che pian piano il mio tentativo, magari ironico, è quello di cercare di fare mie questi oggetti, queste qualità, queste caratteristiche. Tant’è che oggi mi rendo conto che io provo e riprovo a utilizzarle in un ambiente non consulenziale, in un ambiente d’azienda. Quindi di conseguenza io non ho tanto in mente, reagendo alla tua domanda, un maestro specifico, ma ho in mente tante caratteristiche che provo a fare mie in modo tale che io mi possa giocare. La caratteristica di queste persone in fondo, il fattor comune, è che mi han sempre trattato seriamente, non è mai gente che girava attorno, è gente che andava al punto. E questa è un’altra di quelle caratteristiche che io oggi, sempre per il discorso di prima, provo di fatto a replicare, essendo però quello che sono io.
Catania: Dunque, Daniele, trovare qualcosa per cui valga la pena spendersi, questa è una sfida professionale e anche esistenziale, per cui in qualche modo se le gambe dello sgabello ci aiutano a capire professionalmente come orientarci, tu dici poi si fa una scelta che è una scelta di vita, e da questo punto di vista il dialogo con tua moglie, con gli amici, cioè delle relazioni fondative per te hanno rappresentato e rappresentano il punto che ti fa sentire solido davanti all’incertezza delle circostanze, per cui ti sei trovato disposto a scommettere sul tuo desiderio, a scommettere su come anche altri ti vedevano e ti riconoscevano, a prenderti il rischio di seguire uno spunto di interesse. E poi ci dici, forse se posso, se comprendo che non c’è un solo unico grande maestro da copiare, ma che dentro le circostanze ci possono essere tanti maestri con i quali creativamente immedesimarsi. Perché tu che hai iniziato nella consulenza e oggi fai il manager, ti trovi a reinterpretare stimoli e spunti di colleghi in una modalità che ti rende più gustoso il lavoro quotidiano.
Duca: Se posso mi collegherei direttamente a Daniele visto che anch’io vorrei stare sull’imparare e sulle figure di riferimento, è di sicuro la domanda che più mi ha stimolato. La mia esperienza è stata per la maggior parte, lavorativamente parlando, in una banca di investimento, per otto anni a Londra, e ho incontrato sicuramente molte persone di estrazioni più variegate con esperienze molto diverse fra loro, e se guardo il mio modo di lavorare oggi non posso non riconoscere diversi aspetti che posso ricondurre a precise persone che ho incontrato, dal mio stagista ingegnere di Mumbai, da cui ho imparato una grande praticità nel gestire tutti i compiti che ci assegnava il nostro manager agli albori della mia carriera, fino al mio manager stesso che ho sempre ammirato molto per la sua instancabilità nel perseguire gli obiettivi che si è sempre posto, in particolare quando trainava tutto il team di lavoro, uno per uno, ciascuno con i suoi compiti precisi e chiari, per portare a termine transazioni così complesse che sembrava impensabile chiudere fino al giorno prima della chiusura effettiva. Se devo dire tra tutte queste persone che ho incontrato due caratteristiche principali da cui ho più imparato, cioè delle persone da cui ho più imparato, mi sentirei di sottolineare due aspetti. Uno, una volontà e disponibilità a condividere qualcosa che viene affermato come un valore, siano competenze tecniche o un modus operandi in senso lato, quindi il percepire un’offerta di qualcosa con un valore per loro e che, se fatto mio, potesse portare più successo o più valore complessivamente come team. E l’altra caratteristica è un desiderio che io avessi successo, che io crescessi, al di là del perché ci fosse questo desiderio in fondo, però questa è una caratteristica che mi ha segnato molto, per cui, per fare un esempio, cercare di spingermi in zone in cui ero meno a mio agio anche contro il mio istinto perché sono molto conservativo, lascerei andare avanti chi è più esperto di me, e invece mandandomi avanti in prima persona sul campo di gioco per imparare, anche quando il mio responsabile poteva cavarsela da solo e meglio, è stata una caratteristica abbastanza importante di coloro da cui ho imparato maggiormente. Se poi devo dire però se c’è una persona in questi anni di carriera che individuo come maestro, comunque una persona che mi porta a dire vorrei essere come lui, trovo una difficoltà, non riesco a individuarne una con chiarezza. In particolare perché c’è una caratteristica, anche in quelli più affascinanti, che mi blocca un po’, mi è sembrato di vedere una mancanza di libertà ultima nell’agire nell’ambito lavorativo, per lo meno nella mia esperienza lavorativa in ambito bancario. Provo a spiegarmi, anche nelle persone con un approccio al lavoro molto affascinante, è come se ci fosse sempre un ultimo obiettivo non dichiarato di salvarsi la pelle un po’. Per cui faccio ciò che reputo sia il meglio per avere successo e portare valore a livello aziendale fintanto che questo non mi espone ad un rischio personale, di errore, di attaccabilità, di non aver fatto abbastanza, eccetera. E un esempio che mi è successo diverse volte è andare da un cliente e proporre tutto il ventaglio possibile di prodotti che si hanno da offrire, non avendo a mente cosa potrebbe davvero servire a quel cliente, ma con l’ultimo scopo di potersi proteggere nel momento in cui uno perdesse la transazione con il cliente preso da un concorrente, per poter dire ma io avevo fatto vedere anche quel prodotto, senza tener conto sia della necessità del cliente ma anche del contesto e delle persone con cui lavori, del tempo, delle risorse del team dedicato a questo lavoro insieme. E questo aspetto è venuto fuori anche per esempio, quando ho deciso di cambiare lavoro, quando appunto alcune gambe dello sgabello, che secondo me sono più di tre, nel mio caso, sono venute meno, e quando ho avuto una conversazione con il mio manager mi è sembrato che non cogliesse i motivi profondi della mia scelta e cercasse di far leva su alcune gambe dello sgabello per lui più importanti, per esempio sui soldi, rimani ancora qualche anno così metti da parte un po’ di soldi per la tua famiglia, e sulla velocità di carriera, guarda che tornando in Italia vedrai che ti stufirai perché è un ambiente più lento e meno dinamico, ma non si è riusciti poi ad entrare nel merito di un modo di lavorare non corrispondente. Per cui certamente ho imparato molto da diverse persone che ho in mente e ho a cuore, ma mi manca ancora il trovare una persona affascinante al contempo libera a tal punto da portarmi ad affermare vorrei essere come lui o lei, rimane ancora un punto aperto.
Catania: Grazie Pietro, parlavi delle persone che hai incontrato, io percepivo un senso di gratitudine nei confronti di queste persone, e la gratitudine ci mette in moto perché la responsabilità spesso nasce da una gratitudine, da una gratitudine per un incontro fatto, per qualcuno che i ha insegnato qualche cosa sul luogo del lavoro e ci ha aperto uno spazio, una prospettiva, e tu segnalavi alcuni aspetti di questa prospettiva. Da una parte qualcuno che ti condivide un lavoro, un valore in un contesto in cui spesso si dice che il lavoro e la professionalità bisogna rubarla all’altro, e se qualcuno te la dona fa una differenza. E dall’altra parte qualcuno che ti comunica un desiderio di avere successo, e ti stimola, e ti rimette in gioco. Allo stesso tempo, dicevi, anche il contesto ha un suo peso, una sua rilevanza perché a volte il contesto può non favorire una libertà nel prendersi un rischio, e dunque dicevi faccio fatica a volte a vedere il maestro a tutto tondo perché se uno non si prende fino in fondo il rischio della libertà, ci sono aspetti e dimensioni di sé che non vengono pienamente espresse. Questo poi si gioca anche rispetto ai contesti in cui si va, anche quando si fanno dei cambi di carriera, quando si pensa a sé e al proprio futuro. Grazie Pietro. Andrea io ti chiederei questo, perché manca la tua voce, faccio questa nota, perché dicevamo che il nostro dottor Guidi è interessato ma anche molto interessante, per cui ci faceva piacere se rispondendo magari inizi anche a introdurre la prima delle domande, perché avevate pensato a tre domande, e poi sentiamo in cascata le altre due, così diamo spazio anche…
Andrea Fumagalli: Prima della domanda mi piacerebbe, perché sul tema del senso o dello scopo per cui faccio una cosa e dove vorrei incalzarti con una domanda perché ho rispetto a quello che faccio tutti i giorni diverse questioni aperte e poi la cosa bella che sta accadendo è che nel lavoro anche di questi mesi, anche adesso ascoltandomi forse la fortuna di essere anche l’ultimo dei sei, mi sta aiutando anche a trovare già delle risposte in un certo senso, quindi un lavoro interessantissimo. Due sfumature su quello che è stato detto prima. Sul tema dello sgabello tante cose sono state dette, io sono uno che si è sempre mosso con l’idea di trovare un posto dove posso imparare, come abbiamo detto, e non mi ripeto rispetto a alcune cose uscite, ma la cosa in più che aggiungerei, che sto sperimentando nell’ultimo anno, negli ultimi anni, forse anche perché è la parola di restituire il senso di responsabilità. In che senso, innanzitutto verso la mia famiglia, perché non ho più 24 anni, ho cominciato a mettere al mondo dei figli, e quindi comincio ad andare al lavoro pensando che anche la famiglia, nel mio caso, gli affetti cari entrano dentro il tema dello scopo e del senso. Due restituire rispetto all’azienda che mi paga, per chi lavoro. Cioè mai come quest’anno, io sono una persona abbastanza inquieta su tante cose, ho sentito la necessità non solo di imparare ma di incominciare ad avere la possibilità di poter restituire. Faccio un esempio, nell’azienda per cui lavoro abbiamo fatto una bellissima indagine di clima, che spesso noi facciamo con grande piacere per avere un po’ di feedback dalle persone e trovarmi a impegnarmi molto per andare dal mio capo a dire: vorrei rispondere a quello che è emerso in questo modo, dammi la possibilità di dire la mia, questo per me oggi è molto importante. Lavoro da 8/9 anni, comincio ad avere questa necessità, che è affiancata all’imparare, non viene meno. Quindi introduco questo elemento. Il secondo elemento invece sulle persone importanti per me, sicuramente ho avuto degli ottimi capi anche nell’esperienza precedente in un’azienda di logistica. Ho in mente cinque persone che mi hanno insegnato tante cose, ma è sempre più importante per me non essere da solo e quindi fin dall’inizio, questo forse anche educato così, ho cercato di costruirmi dei rapporti con professionisti che alcuni sono anche diventati amici, per avere un punto di fuga esterno, forse questo lo dicevi Barbara anche, cioè dove poter andare a chiedere consigli tecnici, ma quello che mi colpiscono di più sono quelli, e questi sono i veri maestri secondo me, magari di grande contenuto, ma ho in mente alcuni, uno in particolare, il cui approccio è come mi educa a guardare il lavoro, cioè con un approccio positivo rispetto al problema. E quindi quando poi parliamo delle cose su cui io, quando ci vediamo a cena io racconto a, b, c, d, con un’ipotesi che lì si può imparare qualcosa di più, c’è qualcosa da scoprire di più. E questo poi mi orienta la mattina quando vado al lavoro, perché poi scopro che ho una marea di colleghi che affrontano il lavoro in questo modo. Erano due sfumature in più che volevo aggiungere ma che mi sono un po’…
Catania: Quello che dici, un posto di lavoro in cui imparare da una parte, in cui restituire alla tua famiglia, e dunque un orizzonte più ampio di costruzione. Torna qua il tema qual è il mosaico in cui uno si muove, la famiglia per chi ha questa fortuna è una dimensione importante, ma anche restituire all’azienda, e nel restituire questo è un protagonismo per cui tu hai lo spazio per poter in qualche modo essere invitato a dire la tua, poterla esprimere e vivere un senso di appartenenza perché la tua voce è ascoltata ed è sentita. In questo nel lavoro non essere da solo ma essere in compagnia di persone che non solo ti aiutano tecnicamente ma che ti danno quello sguardo che sollecita una curiosità. Perché c’è sempre qualcosa di più.
Fumagalli: E qui viene la domanda, così si parte. La domanda è questa. Cioè io prima lavoravo nella logistica, ora nel trasporto aereo, amo definirmi spesso un HR di trincea, mi trovo spesso a trattare tematiche particolari e il tema dello scopo io lo sento molto, e la sfumatura più vicina a me è: io vorrò sempre avere chiaro il motivo per cui faccio una cosa e quindi anche il valore che posso portare, se questo non ce l’ho chiaro comincio ad andare in confusione. Ora mi prodigo e penso mi impegno perché più possibile le persone attraverso procedure, attraverso anche strumenti simpatici, possono avere chiaro il motivo del perché, cioè questi son gli obiettivi aziendali, la voce di chi guida l’azienda, eccetera, eccetera. Però, per il mestiere che faccio io parlo tutti i giorni con persone che mi dicono: i problemi sono altri innanzitutto. Parliamo per esempio dei turni, parliamo per esempio dei percorsi formativi, parliamo per esempio dello stipendio, se vuoi anche, di fronte a questo io dicevo la necessità è diversa, io penso che invece il tema è di avere uno scopo chiaro ma invece le tematiche sono altre. Questo per me non è molto corretto perché mi ha fatto capire che per far intendere a un collaboratore, un collega, che è importante quello che fai e contribuisce, devo entrare in questa concretezza, cioè devo guardarli i turni, devo guardare lo sviluppo formativo, devo riconoscere il merito perché è attraverso le condizioni in cui tu lavori che io ti faccio capire che è importante quello che tu fai, questo mi ha corretto molto perché a volte rischio di essere un po’ teorico e di andare a fare grandi… Quindi la domanda è questa: come aiuti i tuoi collaboratori ad essere sempre più consapevoli del valore che possono portare, dunque dell’importanza del loro contributo.
Catania: Pietro, tu avevi una domanda.
Pietro Duca: Sì, assolutamente, legato a un aspetto che ha toccato Andrea che è l’individualismo, il sentirsi soli. Spesso quando la ricerca di un senso in quello che faccio non trova risposta o riscontro, l’approccio più comune, anche in me stesso, è di concepirsi da soli, questo concretamente si traduce in una ricerca di soluzioni migliori altrove, quindi un’altra azienda, un altro capo, un’altra mansione, altre condizioni, come partendo dall’assunto che il luogo dove faccio esperienza di una mancanza di senso sia mio nemico, altro da me. Non funziona, e quindi lo combatto o cerco altro. In questo contesto volevo chiederti: nella tua carriera ti è mai capitato di muoverti con un approccio individualista o di interfacciarti con persone irrigidite su una posizione simile, e c’è qualcosa che nella tua esperienza permette di scardinare questa posizione.
Catania: Grazie. Abbiamo anche…
Capodiferro: Mi ricollego a Pietro che ognuno nella propria carriera parte sempre dal proprio desiderio e bisogno, e questo è ovviamente qualcosa di sano, come diceva lui, quando si sfocia poi nel concepirsi da soli, i soli artefici del proprio percorso di carriera e quindi non individualismo, dipende per me nella mia esperienza anche dalle persone con cui entriamo in relazione. Come ho detto prima, io lavoro nello stesso posto da nove anni, ho visto cambiare quattro capi e ci sono stati diversi momenti in cui mi sono sentita insoddisfatta, desideravo un approccio al lavoro diverso che sentivo più incline alle mie caratteristiche, desideravo voler lavorare meno ore oppure avere più responsabilità oppure ricevere un bonus che fosse più congruo a quanto avevo lavorato, a quanto avevo dato. E ci sono stati diversi momenti con i diversi capi con cui sono entrata in relazione, in cui ho sentito che forse l’unica possibilità fosse quella di cambiare. E questo è cambiato e cambia nel momento in cui invece hai davanti una persona che ti guarda appunto come persona non come sola risorsa umana che è assunta per raggiungere un obiettivo sicuramente importante. Quindi per esempio io molto spesso riduco la questione di quanto lavoro, di come lavoro e delle responsabilità che ho, a quanto me ne arriverà poi nel bonus a febbraio, e mi ha molto colpito, come spesso si fa nell’ investment banking, e lo faccio anche io per prima, molto colpito recentemente una conversazione con il mio nuovo capo, che invece ha riportato la questione su un altro aspetto e mi ha rimandato al guardare la mia vita nella mia totalità, quindi ad avere un bilancio tra la work left balance, tra quanto lavoro, ma che poi fuori dal lavoro c’è molto altro. Quindi sì che raggiunga i miei obiettivi di budget per il team ma che io stessa sia in grado di essere una persona e di vivere la mia vita. Quindi ti chiedo: crescendo nel mio percorso di carriera, che cosa posso fare io con le persone che lavorano con me o per me affinché si lavori a questo livello, a guardarle come persone.
Catania: Per cui tre domande: “Come aiuti i tuoi collaboratori a essere più consapevoli del loro contributo.” “Quando nella tua carriera ti è capitato di avere una posizione individualista come hai risposto e come lo scardini, quando ti trovi nella tua realtà aziendale, avere dei collaboratori che ti accorgi che rimangono incastrati in una posizione individualista.” E terza domanda: “Crescendo come si fa a vivere e a condividere con i propri colleghi un livello sempre più umano, gustoso e appassionato del lavoro che non si pieghi solamente al dato fragile ma che abbia un orizzonte più ampio.”
Franco Guidi: Io prima di tutto vi ringrazio dei contributi che ho ascoltato, che molte cose sono già qui, cioè le avete già, molte cose le avete già dette. Il tema di essere visto, il tema di essere considerato come essere umano più che come portatore di competenze. Mi ricordo durante un’intervista a un colloquio per scegliere una ragazza, una architetta mi ha detto: è la prima volta che in un colloquio qualcuno mi guarda come una persona e non come una somma di esperienze. E dico: bene, sono contento che tu abbia capito, perché noi in Lombardini22, per esempio, cerchiamo persone. In molti casi le persone non sanno ancora cosa diventeranno. E questo riguarda un po’ tutti. Facciamo un esempio botanico. Uno dice che gli alberi da giovani sono tutti verdi, è solo nella vecchiaia che fanno vedere i veri colori. Adesso senza arrivare alla vecchiaia, però diciamo che è chiaro che all’inizio le persone non sanno bene in che cosa sono forti, soprattutto sul mondo del lavoro. Quindi l’ascolto dice essere visti e quindi guardarli, la fiducia, essere messi su un progetto più grande di noi, e noi diciamo ma io non ce la farò, e invece ce la fai, ma ce la fai perché sai che di fianco hai una persona che non ti sta mettendo in difficoltà, è con te, ti tiene per mano. Genitorialmente teniamo per mano, poi lasciamo andare. Uno dei temi della generatività è che poi c’è il lasciar andare, la fiducia implicita, il capire. Sul tema tu dicevi: io ho avuto dei capi che mi hanno sempre detto in modo molto chiaro. Sì, va bene, attenzione perché per qualcuno un eccesso di chiarezza può essere distruttivo, per persone magari più centrate come te, un feedback negativo è interessante e importante, per altri un feedback negativo è distruttivo. Quindi stiamo attenti, questo è un elemento a cui io cerco di stare attento, perché nella mia esperienza a volte un commento buttato lì, ha ferito una persona e poi questo genera una difficoltà, un senso anche di colpa, comunque nella relazione si spezza qualcosa. E quanto più, diciamo, nel conto corrente emotivo che abbiamo con le persone, quanto più noi riusciamo a fare versamenti, poi riusciamo anche a fare dei prelievi. Quindi quando tu Barbara dici: io lavoro tanto, tengo tanto e sei nel modello dell’azienda, produco, consumo, lavoro, mi paghi e l’altro è pago e pretendo; ecco questi sono meccanismi un po’ esterni che ci portano a vedere anche il nostro valore nei soldi che guadagniamo, nel successo che abbiamo, sono strade potenzialmente più pericolose perché a volte c’era la tua collega, che ha quattro figli, è chiaro che il valore non dipende, certo però a volte siamo noi stessi, a me è capitato di essere questo meccanismo, sono entrato al settimo livello, se non divento di ottavo fra due anni, poi se non divento procuratore fra quattro, poi dirigente fra sei, non vuol dire che non sono sul mio percorso di carriera, come fossero i quartini dei bambini che crescono di peso. Ecco la realtà non è così lineare, soprattutto adesso. Quindi io parto un po’ dal fondo a dire come possiamo aiutarci. Secondo me, molto ascoltando, chiedendo anche in modo laterale, non direttamente, come siamo percepiti, come veniamo visti, capiamo se stiamo creando un sistema di relazioni, quella comunità di cui parlavi, se questa sta effettivamente avvenendo, se le persone ci cercano, se le persone si confidano con noi perché sanno che non siamo giudicanti. Per esempio il tema dell’errore è un tema su cui stiamo lavorando tanto. L’errore e il giudizio sull’errore porta le persone a non muoversi. Prima diceva qualcuno gli propongo tutto perché devo salvar la pelle. Il tema della paura non è mai affrontato né in Bocconi né da altre parti, ma uno degli elementi fondamentali è la paura di uscire da questi quartini, la paura di perdere il posto, magari per voi è relativa perché siete giovani in carriera, però, la paura di non crescere con quello che avete in mente. Ecco, l’errore e la focalizzazione sull’errore porta a una diminuzione della capacità di rischio, alla diminuzione dei vostri capi nel darvi fiducia, perché hai sbagliato a dar fiducia non se la meritava, paghi le conseguenze, ti licenzio. Ecco, il vedere l’errore invece come elemento segnaletico di un percorso, c’è stato un errore, impariamo insieme dall’errore. Molti capi dicono: ah se hai fatto quell’ errore sono stato io, è colpa mia. No, sta’ fermo, non è che è colpa tua, colpa sua, c’è stato un errore cerchiamo di capire che cosa possiamo fare. Allora, tutti questi elementi che escono dai vostri ragionamenti sono già chiari. Ci sono alcuni elementi fondamentali della vita in comune, prima parlavate della famiglia, lo sguardo che hanno le nostre famiglie su di noi è importante, il nostro uso del tempo, la nostra dedizione al lavoro. A volte il lavoro è anche una scusa per non farsi carico di alcuni temi di famiglia, io parlo per il mondo maschile. Noi abbiamo adesso una nonna, la mamma di mia moglie, ha 93 anni e dice: ma, mi lasciate un po’ sola, e le figlie, i figli, noi diciamo: ma nonna noi dobbiamo lavorare. E quindi, sì è vero che dobbiamo lavorare però è vero che abbiamo anche dei doveri rispetto a quelle persone che ci hanno generato e ci hanno cresciuto. Quindi il capire quanto questo eccesso di lavoro porta via ad altre relazioni a cui dobbiamo darci. Ho sentito dire da Velasco, l’allenatore della pallavolo, dice anche nei momenti di crisi stai vicino ai tuoi cari, nei momenti di successo considerali, perché poi nei momenti di crisi saranno loro che ti daranno una mano e se non li hai alimentati nella relazione, poi non li hai più e li perdi. Uno dei miei ragionamenti Barbara su questi impegni, a un certo punto mi sono reso conto che anche se avessi lavorato 24 ore al giorno, più di tanto non facevo, come nello sport, hai dei limiti, nello sport è chiaro, hai dei tempi, puoi migliorare un po’ se ti alleni poi arrivi un po’ al tuo livello. Ecco il capire dove c’è quell’equilibrio tra quello che io do e quello che è il risultato che pongo, è sapere che oltre quel risultato io creo dell’entropia, creo dei danni, perché mi incasino, perché genero ulteriori lamenti e i lamenti si generano all’interno dell’organizzazione, ecco questa è una cosa secondo me da evitare. Evitare di confrontarsi troppo sul negativo e quindi evitare anche di dare troppo, per poi trovarsi troppo in credito. Nel conto corrente emotivo, per me, con l’azienda, con i capi, con la famiglia ci vuole un equilibrio. Io ho versato tanto, posso prelevare. A tutti noi piace non essere in debito, però siccome se nessuno è in debito il sistema non funziona, quindi dobbiamo anche accettare in qualche caso di essere in debito, dobbiamo accettare che qualcuno ci dà di più di quello che diamo noi e questo ci aiuta nel momento in cui ci sentiamo fregati, perché non ci viene dato abbastanza, sappiamo che invece qualche volta anche noi ci siamo trovati nella situazione. Questa consapevolezza come capo è importante. Sulla motivazione, su come far sentire molto importanti, mi ricordo una volta avevo sentito uno speech di un allenatore delle Olimpiadi. Aveva fatto dei conti per la gara, una gara a punti, e lui aveva un campione, però su molte altre discipline avrebbe perso. E quindi ha detto se io mi concentro tutto su quel campione, vinco una gara ma non ho possibilità. Allora lui ha lavorato su tutti i numeri due e i numeri tre. Dice: se un numero tre deve diventare un numero due, se un numero due deve potenzialmente vincere, se un numero quattro deve diventare un numero tre e facendo così, cioè concentrandosi sul gruppo, ma sul miglioramento dei singoli, indipendentemente da dove partivano, è riuscito a fare un numero di punti che poi gli ha consentito di vincere perché il collettivo… Questa cosa mi ha colpito molto perché molte volte noi siamo molto focalizzati su quello che il rainmaker quello il mago della pioggia, quello che porta il business, che potenzialmente è quello più individualista di tutti, perché si carica sulle spalle l’obbligo del risultato, porta a casa i risultati, e quello in azienda è intoccabile. In realtà queste persone oltre a essere poco generative tendono anche a essere un po’ estrattive, cioè portano a casa molti risultati loro, ma in realtà creano un po’ di disastro nella organizzazione intorno. Allora come affronto io gli individualisti. Io prima cerco di spiegarglielo, che io non guardo solo il risultato, a volte loro ti ho sgranato per dire ma come, perché diceva un mio amico li assumiamo per i risultati e li licenziamo per i comportamenti. Quindi stai attento a come ti comporti perché se ti generi terra bruciata, generi dell’indotto di costi all’azienda che va a togliere risultato. Come i camioncini: oggi nelle consegne effettivamente usano tanto spazio pubblico in modo indecente, senza pagarne le conseguenze. E la seconda cosa invece su cui mi sono trovato, se non ce la fanno, ultimamente ho parlato con una persona che portava molti risultati e ne porta ancora, è molto individualista, gli ho detto che la relazione fra me e lui non funzionava più, perché lui continuava a chiedere e io mi sentivo inadeguato perché non riuscivo a rispondere e quindi se va avanti io sono preoccupato perché il tuo individualismo porta me a non avere neanche risposte, a volte cerco di venirti dietro e quindi di darti quello che chiedi, però capisco che non basta mai e quindi io adesso mi fermo e vedi tu. E quello ha generato un ragionamento positivo e le cose sono cambiate, pero ho dovuto uscire dalla mia area di confort e mettermi un po’ nudo sul balcone e dire più di così noi non ce la facciamo. Questo è un altro elemento che secondo me è molto importante per i capi, è dimostrare i propri punti di forza, ma dimostrare anche le proprie fragilità. Quando noi diciamo, abbiamo bisogno degli altri è importante che sia sincero. Avere bisogno degli altri è una cosa che viene detta, la cosa più importante sono le persone, il team, ma nella realtà avere bisogno degli altri vuol dire, io sono scarso su questa cosa, aiutami. Sto sbagliando così, non so come uscirne aiutami, cioè dare all’altro le chiavi anche del proprio successo, avere il coraggio di ammettere che non sappiamo tutto e queste fragilità secondo me sono le maniglie a cui gli altri si attaccano, perché sono maniglie sincere che poi generano una comunità lavorativa vera, perché sostanzialmente nessuno ha risposte. Un altro degli esempi che faccio quando vedo nelle persone cosi più individualiste o anche nei ragazzi in carriera come voi, il pensiero che siccome io sono il capo, loro devono arrivare lì, e dico, non è così, non è così. Siamo tutti di fronte a un mare incerto, io porto un po’ di esperienza, voi portate un po’ di coraggio, qualcuno di voi porta un po’ di incoscienza e insieme affrontiamo questo mare. Ma noi non possiamo pensare di avere tutte le risposte e di erogarle agli altri. L’ingaggio è una cosa che avviene nella persona quando capisce di essere considerato, non è una cosa che possiamo imporre noi, noi dobbiamo creare la situazione per cui questo si generi, noi dobbiamo creare lo stagno per cui poi gli uccelli migratori arrivano. Il contrario non esiste, il contrario è manipolatorio ed è evidente a tutti. Dobbiamo anche accettare il fatto che le persone abbiano tempi diversi, quindi l’elemento della pazienza manageriale, che è un ossimoro oggi, perché il manager non ha tempo e deve dimostrare velocemente, ecco su questo bisogna un po’ resistere, perché un altro degli esempi che facciamo spesso in Lombardini è che si può crescere come i fagioli, ma noi preferiamo crescere come le querce. Direi che su questo penso di aver risposto alle tre. Non so se ho mancato, mi manca qualcosa.
Catania: A me sembra stimolantissimo quello che tu dici, è anche un po’ la storia del tuo percorso, perché tu, Franco, hai lasciato il mondo dell’azienda multinazionale perché hai voluto aprire una realtà come l’hai descritta tu: una comunità lavorativa vera, cioè una comunità che è consapevole che il contesto nel quale noi operiamo, pensiamo al presente di oggi, un contesto fortemente incerto e solamente se si ha il coraggio e la libertà di affrontarlo, costruendo con le condizioni di fiducia delle quali ci parlavi all’inizio, si può iniziare a riscoprire un gusto vero per la quotidiana fatica del lavoro. E questo ha delle condizioni. Una delle condizioni che tu accennavi è che per poter trovare un equilibrio nel lavoro occorre una consapevolezza dei propri limiti, e avere consapevolezza dei propri limiti apre anche lo spazio a un rapporto diverso. Cioè la possibilità come capo di potersi anche rendere vulnerabile anche dentro la relazione, una relazione che non è una relazione di cura, ma una relazione che quando incontra l’irriducibilità di un individualismo, ad un certo punto devi accettare di arrendersi, perché o affida il rapporto al sistema, cioè al non rapporto oppure deve dire all’altro io non so rispondere alle tue domande. Allora avere questa umiltà vuol dire mantenere viva una comunità, cioè una trama di rapporti. E una trama di rapporti si sviluppa dentro un tempo. Un tempo come il nostro che giunge al termine, al termine di questo incontro. Scusate, ho davanti a me un orologio inesorabile che mi dice che abbiamo sforato di quasi sette minuti, e per cui vogliamo ringraziarvi, ma soprattutto vogliamo dirvi questo. Questo incontro è nato da un dialogo e vuole proseguire come un dialogo, per cui chi vuole in un mondo come quello dei social, i nostri nomi li avete, contattateci, ci farà piacere sentire che cosa avete portato via da questo incontro, se volete condividerlo, e se avete l’interesse a proseguire assieme un dialogo sul lavoro. Questo dialogo è stato reso possibile grazie al Meeting. Come sapete il meeting è un evento tutto unico e è l’esito sorprendente sempre nuovo di una straordinaria collaborazione umana. Sono parole che avete già sentito dire ma che vi ripeto anche con un certo gusto per lo spazio che abbiamo avuto oggi, perché una civiltà non cresce senza cultura, dialogo e bellezza ne sono la linfa vitale. Il Meeting è da sempre un luogo di cultura, ciascuno di voi può contribuire a far continuare questa grande storia, questo è anche un invito che vogliamo rinnovare stasera. Lungo tutta la fiera trovate delle postazioni con scritto “DonaOra”, caratterizzate dal cuore rosso, le donazioni dovranno avvenire unicamente ai desk dedicati, e a questi desk vi aspetteranno i volontari che indossano una maglietta rossa “donaora”. Da quest’anno la Fondazione Meeting, e questa è un’importante novità, è un ente del terzo settore, chi sosterrà il Meeting potrà usufruire dei benefici fiscali al momento della dichiarazione dei redditi. Buon Meeting, e ancora grazie, grazie a Franco Guidi, grazie ad Andrea, a Barbara, a Luca, a Daniela, a Michela, a Pietro. Arrivederci.