Chi siamo
Progettare, abitare, vivere
In collaborazione con Cdo
Mario Abbadessa, Senior Managing Director & Country Head di Hines Italia; Luca Pesenti, Professore Associato di Sociologia Generale presso Università Cattolica del Sacro Cuore; Franco Spicciariello, Director Public Policy, Italy & Central and Eastern Europe di Amazon Web Services; Patricia Viel, Architetto e Amministratore Delegato ACPV ARCHITECTS Antonio Citterio Patricia Viel. Introduce Guido Bardelli, Presidente Compagnia delle Opere.
Nelle ultime edizioni del Meeting è stato affrontato, in diversi incontri, il tema dello sviluppo delle città e dei territori, con una particolare attenzione alla rigenerazione urbana e alla città inclusiva. Senza dubbio, questi stessi argomenti sono ancora più attuali a due anni dalla pandemia, che ha profondamente cambiato la qualità del nostro modo di vivere. Ad esempio, lo smart work non solo ha rivoluzionato il modo di lavorare, ma ha anche messo in luce nuove esigenze abitative, soprattutto per le famiglie. Occorre quindi capire quali sfide dovranno affrontare le nostre città nei prossimi anni e come la domanda di qualità dell’abitare, che la drammatica esperienza del covid ha evidenziato, possa trovare una risposta compiuta in una nuova concezione degli spazi in cui vivere e lavorare.
Con il sostegno di Hines, Ars Aedificandi, Università Cattolica, Euronics, Open Fiber.
PROGETTARE, ABITARE, VIVERE
Guido Bardelli: Buongiorno, buongiorno al pubblico del Meeting. Ben trovati. Buon giorno anche a coloro che ci stanno seguendo in diretta TV. Benvenuti a questo Meeting su “la Passione per l’uomo” all’incontro dal titolo “Progettare, abitare, vivere”.
Non è un tema nuovo quello che stiamo affrontando negli ultimi Meeting, quello dell’abitazione, quello della città, quello della qualità della vita. È un tema appassionante, affascinante, è un tema trasversale, che va a colpire tutti gli aspetti, molti degli aspetti della nostra vita, sia la vita lavorativa, la vita famigliare, la vita sociale, la coesione sociale. È un tema quindi che ci interessa particolarmente e ci interessa particolarmente capire il cambiamento che ci aspetta. Come dicevo prima, parlando con gli amici relatori che adesso vi presenterò brevemente, ci interessa il tema del cambiamento, ci interessa il tema del cambiamento come una opportunità per crescere, per crescere professionalmente, per crescere umanamente.
Il cambiamento può fare paura, può rinchiuderci in noi stessi, ma può essere visto come un’opportunità e sicuramente il cambiamento anche dell’abitare, dopo l’esperienza terribile della pandemia, è sicuramente un cambiamento che ci si pone davanti ai nostri occhi.
E come capire e vivere il cambiamento come un’opportunità. Non sono – ne parlavo sempre prima – non sono delle lezioni teoriche, ma è l’incontro con soggetti, con persone, con testimoni che ci aiutino a fare un passo verso il cambiamento testimoniando, innanzi tutto loro, che questo cambiamento è possibile e che le difficoltà che il nostro paese, che il mondo, la drammaticità del momento, può essere un’opportunità perché la novità, la professionalità, l’entusiasmo e la positività vinca rispetto alla tendenza a chiudersi in noi stessi, il grande dramma dell’individualismo che nel nostro paese, come nel mondo è il grande rischio dell’uomo e della donna moderni.
Progettare, abitare, vivere. Ne parliamo con quattro testimoni. Anche qua è una caratteristica del Meeting e degli incontri sull’abitazione, sulla casa che abbiamo fatto in questi anni. Ne parliamo con delle persone che hanno un’esperienza professionale interessante da raccontarci. E il primo punto, il primo aspetto è proprio questo: vogliamo ascoltare delle esperienze professionali, delle esperienze di cultura dell’abitare per capire che cosa succede, che cosa succederà e che cosa ci aspetta. Ne parliamo quindi con Mario Abbadessa, che è un amico del Meeting, è già venuto, penso che sia il terzo incontro, forse, che fai con noi, Senior Managing Director & Country Head di Hines Italia. Ne parliamo poi con Luca Pesenti, professore associato di sociologia generale presso l’Università Cattolica di Milano, del Sacro Cuore. Con Franco Spicciariello Director Public Policy, Italy & Central and Eastern Europe di Amazon Web Services. E con Patricia Viel, Architetto e Amministratore Delegato ACPV ARCHITECTS di Antonio Citterio Patricia Viel.
Quindi, come avete visto dalla mia presentazione, quattro esperienze diverse che ci introdurranno al mondo dell’abitare con profili diversi, ma proprio questa è la caratteristica, ripeto, di questo incontro e di questi incontri che stiamo cercando di fare al Meeting. Vedere da diversi punti di vista l’esperienza dell’abitare per coglierne le opportunità, per coglierne il fascino e per cogliere anche gli aspetti, sicuramente anche negativi, di difficoltà che in questo momento, soprattutto le grandi città, come vedremo nel secondo giro di domande, hanno.
Io lascerei subito la parola ai relatori che ho introdotto – e che quindi continueremo a concedere la parola in ordine alfabetico – proprio su questo primo tema. Abbiamo passato degli anni durissimi. Questi anni, quello che è successo: la pandemia, il COVID, adesso la gravissima crisi economica, la crisi umanitaria, il dramma della guerra, sicuramente – o meglio – non possono non influenzare il nostro modo di guardare alla casa e allo sviluppo dell’abitazione, che rimane comunque il bene fondamentale per le persone. L’abitazione e anche gli uffici e anche il nostro modo di lavorare è stato radicalmente cambiato dall’esperienza della pandemia. Che cosa, come vedete questi cambiamenti e quali sono le esigenze che voi, dal vostro punto di vista, quindi dalla vostra esperienza lavorativa, vedete come necessari per assicurare un ambiente interessante e umanamente vivibile dove vivere e lavorare. Mario Abbadessa. Grazie di essere venuto e grazie di essere con noi.
Mario Abbadessa: Grazie dell’invito. Io e noi di Hines siamo abbastanza convinti che il primo cambiamento più forte sia stato da un approccio verticale a un approccio trasversale. Quindi nei primi quindici anni di questo secolo i grandi progetti erano focalizzati per silos, quindi noi avevamo delle case per gli studenti, degli edifici per le famiglie, degli edifici per gli anziani, delle case – magari a volte nell’angolino – per le residenze sociali, dei quartieri a destinazione uffici, eccetera, eccetera. Io credo che questi fenomeni come il COVID e purtroppo anche la situazione attuale, sia di guerra sia di contrazione economica, non è che proprio ha generato questi cambiamenti, ma li ha accelerati, ma erano dei cambiamenti che lo si percepiva sin da prima. Quindi oggi, mentre prima la parola “mix” era identificata come un’accezione negativa, io credo e noi crediamo, che oggi la parola mix invece sia un’accezione molto vincente e molto positiva. Ed è per questo che i nostri progetti oggi al centro hanno un mix intergenerazionale. Quindi, per esempio vedevo prima lo sponsor del nostro progetto di Milano Sesto, che è il recupero delle ex acciaierie Falck, il più grande progetto di rigenerazione urbana che stiamo facendo appunto anche con lo studio Citterio, lì c’è un mix intergenerazionale, quindi noi abbiamo una casa dello studente, delle case per gli anziani, le case in affitto a canoni calmierati, sono insieme, nello stesso building, con le case a canone cosiddetto libero, c’è uno spazio uffici, c’è uno spazio sport, c’è uno spazio di logistica, c’è uno spazio Hotel. Quindi questo mix intergenerazionale e inter-sociale, quindi trasversale fra le diverse audience, diciamo, della popolazione, sicuramente per noi è stato il vero elemento che ha cambiato lo sviluppo per i prossimi anni. E proprio per quanto riguarda l’abitazione siamo passati da un’abitazione rigida – io faccio sempre questo esempio, prima appunto si comprava un’abitazione che era per tutta la vita e spesso veniva addirittura contemplata perché al suo interno poi un domani potesse essere divisa in più appartamenti – oggi l’appartamento, l’abitazione è fluida, è flessibile, perché le esigenze delle persone cambiano nel corso della vita delle persone stesse. E quindi questo tipo di flessibilità, in cui io vado ad abitare un condominio – io sono convinto che i prossimi 10 – 15 anni in Italia e nelle città soprattutto, saranno dei condomini sempre più in affitto piuttosto che in vendita – io utilizzo delle mura, perché le utilizzo e utilizzo soprattutto una serie di servizi che vanno proprio incontro a quelle esigenze sociali, quindi che sono quelle della mobilità elettrica, sono quelle del baby-sitting, se davvero vogliamo parlare appunto di uguaglianza perché è facile dire di fare smart working da casa, se non c’è però un supporto e un’assistenza per la famiglia è praticamente impossibile, e quindi tutto questo tipo di servizi sono i servizi, neanche del futuro, del presente, che gli attuali progetti di rigenerazione urbana devono contemplare. Io credo che le esigenze, per rispondere in maniera puntuale, e questo è stato il vero cambiamento, è un cambiamento io lo vedo molto positivo nonostante il momento è molto molto difficile, è molto più difficile adesso che uno due anni fa quando è scoppiata la pandemia, perché è chiaro che i prossimi 6 mesi – 8 mesi cui andiamo incontro saranno dei mesi di una fortissima contrazione economica e finanziaria, molto più forte di quello che noi percepiamo, percepiamo adesso e quindi l’essere sostenibili non è uno slogan o un vocabolo di marketing oggi molto efficace, ma è business, significa rendere il proprio business sostenibile nel lungo termine, che è quello che poi qualsiasi imprenditore, qualsiasi investitore ha l’obiettivo di fare, non certo nel breve, altrimenti avrebbe una valenza fine a se stessa.
Bardelli: Grazie Mario. Dato che abbiamo ancora un po’ di minuti faccio una cosa un po’ imprevista, Rispetto a quello che dicevi di settembre, cioè noi avremo un momento drammatico, sicuramente c’è questo aumento dei prezzi incredibile che ha un impatto sulla costruzione, eccetera. Come reagisce? Come può reagire l’imprenditore, rispetto alla via sicuramente più facile, quella di continuare ad aumentare i prezzi, con tutte le conseguenze che vedremo nel secondo giro di domande sulla vita in città che diventa sempre più difficile. Che cosa ci aspetta da questo punto di vista e come si può mantenere la qualità dell’abitare e quindi del costruire, rispetto a questa apparente pazzia dell’aumento dei prezzi?
Abbadessa: Mah, provo a dare quello che noi e io pensiamo. Sicuramente non ci devono essere, in qualsiasi categoria merceologica e addirittura ancor di più sull’abitazione e sul prodotto immobiliare nessun compromesso sulla qualità, soprattutto se siamo operatori italiani. Io sono, lavoro per un operatore americano, sono partner, ma operiamo in Italia e da noi l’eccellenza è il massimo. La nostra sede – noi siamo una società che ha sede a Houston – tutti i marmi di tutti gli edifici degli Stati Uniti realizzati da Hines vengono prodotti a Massa Carrara, per dare un esempio. Quindi l’eccellenza e la qualità massima non deve assolutamente subire contraccolpi e poi soprattutto avere una visione di lungo termine. Quindi è chiaro che per il mio settore che è quello dello sviluppo immobiliare, il trader, lo sviluppatore che diversi decenni anche in Italia ha fatto grandi fortune, quel lavoro lì proprio non esiste più, quella speculazione di comprare il terreno, convertirlo, fare le palazzine e uscire è proprio un business finanziario che non esiste più. Oggi i grandi investitori si muovono in una sostenibilità di lungo termine e la distribuzione della cedola, quindi della redditività è in un’ottica di 5 – 10 – 15 anni. Sarebbe impossibile fare un progetto come quello che noi stiamo facendo per esempio a Milano Sesto se uno avesse un obiettivo di 3 anni – 4 anni. Quello è un obiettivo di lungo termine di 30 anni. È l’unico modo per poter, secondo me, sorpassare, attraversare questi diversi cicli.
Bardelli: Grazie. Luca. Allora anche a te la stessa domanda. come cambia? Certo, tu ci aiuterai ad affrontarlo rispetto al mondo del lavoro innanzi tutto. Che cosa succede e che cosa sta succedendo nel mondo del lavoro rispetto all’abitare e al luogo dove si lavora.
Luca Pesenti: Grazie. Il mondo del lavoro certamente esce dalla pandemia con un vocabolo in più che abbiamo imparato tutti ad avere sulla bocca che è quello di “smart working”, perché oggettivamente, durante soprattutto i mesi più duri della pandemia, come dire, la tecnologia ci ha aiutato a continuare a fare tutta una serie di cose che altrimenti sarebbe stato impensabile. Quindi la tecnologia certamente ci ha aiutato in questo. Però, c’è un però che io, come dire, metto subito avanti. Noi abbiamo chiamato tutto ciò con questo termine, “smart working”, quando in realtà in buona parte dei casi abbiamo fatto lavoro da remoto o in alcuni mesi lavoro forzato da remoto addirittura. Quindi io mi sono messo a occuparmi di questo tema in qualche modo per salvare lo smart working dalle proprie immagini distorte che sono girate in questi due anni, con tutta una serie di, diciamo così, collegati legati al recupero dei borghi storici, south working, ecc. Tutti elementi che hanno contribuito a creare una narrativa che però di base aveva dei numeri un po’ diversi. L’ISTAT ci ha detto proprio di recente che in realtà gli ultimi dati parlano di 3 milioni di lavoratori che lavorano da remoto, cioè il 13%-14% degli occupati, di cui il 17% sono donne e il 13% degli uomini. Questo è il primo dato. Il secondo dato che ci ha raccontato ISTAT è che quasi la metà di costoro hanno avuto un’esperienza negativa di questo lavoro da remoto. Perché? Perché diciamo così, lo smart working non è una profezia che si autoavvera, potremmo dire. Cioè per avere un lavoro effettivamente agile e quindi per avere dei luoghi di lavoro effettivamente agili, occorrono delle precondizioni di tipo organizzativo e anche organizzativo degli spazi del lavorare, che effettivamente in buona parte dei casi le Aziende non avevano e che hanno poi cominciato a porsi come problema. Di fondo, quello che occorre maggiormente è una trasformazione di tipo culturale. Ed è per questo che io, insieme all’amico Scansani, abbiamo scritto un libro, “Smart working reloaded” proprio per salvare l’idea del lavoro agile dalla sua erronea interpretazione almeno nella narrazione di questi anni. Che cosa vuol dire convertire culturalmente le aziende e quindi i luoghi in cui si lavora? Beh, innanzi tutto significa immaginare che questo luogo sia un luogo in cui possiamo trovare una libertà non dal lavoro, ma nel lavoro. Prima questione. In questi mesi si è molto detto che in qualche modo il lavoro da remoto toglieva, poteva togliere alle persone, agli uomini tutta una serie di fatiche, che avrebbero riconsegnato agli uomini un benessere, una felicità maggiori. In realtà non sempre è accaduto, perché appunto sotto traccia è come sempre, c’è sempre stata questa giustificazione di un lavoro da remoto senza le sue premesse culturali. Quali sono queste premesse culturali? Innanzi tutto è una premessa, diciamo così, che guarda al lavoro non più come un meccanismo organizzato gerarchicamente, dall’alto verso il basso, ma come un ambito in cui c’è partecipazione da parte del lavoratore alla definizione delle modalità con cui lavora, non a caso dal primo di settembre occorrerà un accordo individuale per parlare effettivamente di lavoro agile e ci dovrà essere un passaggio a un lavoro per fasi, processi e obiettivi e non più dunque un lavoro controllato direttamente dal padrone – come direbbe qualcuno – che deve controllare fisicamente chi lavora all’interno dell’azienda. Certo, il secondo aspetto culturale è che in realtà questi mesi ci hanno rammentato che il lavoro non è soltanto una prestazione, ma è innanzi tutto una relazione. Ciò che ci ha fatto perdere la pandemia sono stati due anni di relazioni, prevalentemente. E non c’è lavoro senza questa relazione. E quindi, diciamo, se pensiamo ai luoghi di lavoro in cui effettivamente si potrà fare lavoro agile, dovranno essere luoghi di lavoro ripensati avendo proprio come cuore la necessità, quando il lavoratore starà in azienda, di massimizzare gli scambi, le relazioni, il lavoro di gruppo, perché altrimenti un’Azienda rischia di perdere sé stessa, considerando i lavoratori come appendici che sono sparsi ovunque, ma che poi non sono da nessuna parte in realtà. Le donne e i giovani, dal mio punto di vista, sono quelli che hanno avuto più da perdere in questi due anni, ma dovranno essere quelli che dovranno essere curati di più, appunto come dimensione relazionale in Azienda nella “new normal” che dobbiamo ancora costruire di un lavoro ibrido, appunto, che si dovrà svolgere in parte in Azienda, in parte da remoto, sempre tenendo conto che una minoranza della popolazione dei lavoratori e delle lavoratrici potrà godere di questi lavori. Il lavoro manterrà comunque una propria geografia. Pur non essendo più così centrale il posto e la sede, ma manterrà sempre una geografia, cioè dovrà sempre mantenere un punto di contatto tra i lavoratori, che non faccia perdere ai lavoratori la propria appartenenza a quel luogo di lavoro. Questo, come dire, richiamerà fortemente la necessità da parte dell’Azienda, di curare quello che si dice l’upskilling e il reskilling dei lavoratori e delle lavoratrici, in quale direzione? A mio modo di vedere in particolare nella direzione delle soft skills. Se il lavoro non è solo produzione, quindi se l’individuo, la persona non è soltanto una cellula produttiva anonima, ma è un ganglio di una rete composita di relazioni, saranno soprattutto le soft skills quelle che dovranno essere maggiormente curate dalle Aziende del futuro e che dovranno essere curate in particolare nel momento in cui i lavoratori e le lavoratrici saranno in presenza. Poi ci sono evidentemente dei contraccolpi di tutto questo rispetto al tema urbano, ma di questo potremo discutere nella seconda parte.
Bardelli: Grazie, Luca Pesenti. L’ordine alfabetico in questo caso è andato benissimo perché a questo punto io chiedo a Franco Spicciariello di reagire anche alle osservazioni di Luca Pesenti e di raccontarci una società come Amazon – che se io penso al cambiamento penso a società come Amazon, quindi sicuramente è una testimonianza che il cambiamento non fa paura, ma anzi si anticipa – come vede lui questo passaggio, questa rivoluzione nel lavoro rispetto al luogo e all’organizzazione del lavoro in una società come la vostra. Grazie.
Franco Spicciariello: Grazie a voi e grazie al prof. Pesenti, perché in realtà sono molto molto d’accordo con quanto ho sentito, sono molte cose che stiamo già implementando da molti mesi in Azienda. L’Italia purtroppo come ben ricordiamo si è trovata per prima al fronte dei paesi occidentali a dover affrontare il Covid. Ed è stato un po’ il paese dove abbiamo sperimentato il nuovo modo di vivere e di lavorare. Ricordo i primi giorni in cui, avendo sede a Milano, noi ci siamo trovati immediatamente chiusi in casa e ad affrontare tutti quei meeting a livello internazionale dove ci siamo trovati a dover spiegare a tutto il mondo cosa stesse succedendo. Essendo una multinazionale presente dappertutto spiegare: guardate che succederà questo, i governi reagiranno in questo modo, i nostri clienti reagiranno in questo modo. Le Aziende avranno bisogno di questo, questo e quest’altro dal punto di vista tecnologico e organizzativo. Passare da essere un’Azienda che va tutti i giorni a visitare i suoi clienti a non poterlo più fare, cambia completamente il modo di essere, di vivere, di vendere, di lavorare e di collaborare. Questo all’inizio è stato uno shock, ma voglio dire relativo perché Amazon è un’Azienda in cui lo smart working – non quello che è stato il work from home, il lavoro da casa obbligatorio e ci siamo trovati chiusi – lo smart working lo ha sempre di per sé implementato. Era abbastanza normale per noi non doversi recare in ufficio obbligatoriamente tutti i giorni, ma essere comunque connessi e avere possibilità attraverso mezzi tecnologici. Abbiamo imparato – penso anche mia nonna che ha 97 anni e ha scoperto cosa sono Zoom, Teams, Amazon Chain – quindi dai 97 anni ai bambini di 5 anni conoscono i sistemi di video-conferenza che fino a 3 anni fa penso fossero riservati solo ai professionisti. È stato un cambiamento innanzi tutto culturale. Perché il primo vero problema è stato: come affronto adesso la relazione con i miei colleghi, con i miei clienti? Molte persone non sono abituate a parlare in video ed è stato questo il primo problema. È stato un problema di organizzazione interna, perché tutti quei meeting con i colleghi, quella che chiamiamo la politica della macchinetta del caffè, dove spesso in incontri di 5 minuti si ottiene molto più che in riunioni di un’ora fatte in videoconferenza, tutto quello è mancato e questo ha fatto perdere delle cose. Dall’altra parte, però, abbiamo imparato a ottimizzare i tempi, abbiamo imparato molto più tutti quanti, noi e anche le persone con cui lavoriamo all’esterno, a lavorare per obiettivi. Mentre prima il manager vedeva il collaboratore in ufficio, dopo si è abituato, laddove non lo facesse prima, forse avrebbe dovuto già farlo prima, a appoggiarsi sul vedere quelli che sono i risultati del lavoro portato avanti in quei giorni in cui non c’è nessun tipo di contatto fisico o visivo. Questo è stato il primo. Poi fortunatamente le cose dopo 18 mesi hanno iniziato ad andare comunque meglio, da questo punto di vista posso portare la mia esperienza e di molti miei colleghi: abbiamo molto apprezzato quella che è stata la posizione del nostro ceo Andy Jassy, il quale ha detto: non abbiamo tutte le risposte. Molto spesso in questi mesi molte volte si è guardato alle aziende tecnologiche per capire quale sarà il futuro dal punto di vista anche dell’organizzazione del lavoro, la verità è che non le abbiamo. Il mondo è cambiato, ma come è cambiato fino ad oggi lo sappiamo, come cambierà domani per la prima volta non siamo in grado di prevederlo del tutto. Inizialmente si era pensato di avere un approccio “rientreremo in ufficio tutti quanti il tal giorno in questo modo”. Poi si è capito che le cose, c’è stata Delta, c’è stata Omicron, c’è stato un po’ di tutto in questi anni, abbiamo imparato anche l’alfabeto greco chi non ha fatto il classico, si è arrivati verso un approccio molto voglio chiamarlo più “laico”, dove nel nostro caso invece di dare indicazioni precise, si starà 3 giorni in ufficio, si è lasciata molta libertà ai team, ai capi dei team di organizzare il lavoro del proprio team, quindi di decidere quando e come essere presenti in ufficio, quando organizzare i meeting e quindi di ottimizzare anche questi tempi. Invece dal punto di vista, fatemi dire, logistico all’interno degli uffici quello che sappiamo e su cui stiamo lavorando ormai da molti mesi è che gli uffici cambieranno. Eravamo anche noi abituati a questi grandi uffici in open space, molto pieni ovviamente, chiaramente anche molti uffici singoli. Si va verso un sistema dove le persone saranno chiaramente meno presenti fisicamente in ufficio, ma dove si dovrà tornare perché, per quanto siamo abituati a lavorare in video, la relazione fisica è insostituibile. E abbiamo visto come alla lunga si possa perdere in capacità di innovare, capacità di inventare perché quello scambio di idee che avviene all’interno di una stanza, che poi spesso ha un seguito con alcune persone al di fuori della stanza stessa, in video non può avvenire. E quindi si andrà verso un sistema, per esempio, di prenotazione delle scrivanie all’interno degli uffici, come se fosse un gran sistema di – conosciamo questi working space – però in questo caso dedicati all’Azienda, dove quindi i team si organizzano per andare a lavorare. Quindi organizzazione dello spazio, organizzazione del lavoro diversa, che garantisca anche chiaramente una determinata qualità dal punto di vista della salute, ovviamente, e dall’altra parte invece questo continuo lavorare a casa, dove comunque i lavoratori vengono seguiti. Cioè avere la possibilità di avere tutti i mezzi tecnologici. Perché ci sono altri aspetti che qui abbiamo dato molto per scontato, specialmente nei primi mesi. Sono a casa, lavoro al computer, uso internet, i sistemi di video conferenza, e continuo come se nulla fosse. Non è così, perché quando lavoriamo in Azienda abbiamo dei sistemi di sicurezza informatica che fino a ieri – e in gran parte dei casi fino a oggi – non solo le case ma anche moltissime Aziende hanno scoperto di non avere. La sicurezza è diventato un problema fondamentale, un tema da affrontare che molte Aziende stanno cominciando ad affrontare, purtroppo un po’ in ritardo, in questo l’Italia è un po’ indietro. Devo dire che l’avvio della Agenzia della Cybersecurity è sicuramente un ottimo passo avanti, un forte segnale sia all’Amministrazione, sia al mondo del privato da questo punto di vista. Ma è fondamentale poi anche che ci sia consapevolezza sulla sicurezza da parte dei cittadini. Non esiste una sicurezza gestita solamente a remoto dalle grandi Aziende o dai responsabili IT della singola Azienda. La sicurezza siamo noi. In Amazon Web Services abbiamo un approccio che si chiama quello di “share responsibility” insieme ai nostri clienti. Cioè noi assicuriamo la sicurezza, mi piace usare il termine, delle mura, il massimo livello di sicurezza tecnologica possibile, ma poi all’interno delle mura è il Cliente, è l’Azienda, il privato, la pubblica amministrazione che deve garantire determinati comportamenti, una determinata qualità della gestione dei propri mezzi. Vi ricordate tutti durante il periodo dell’emergenza COVID quando iniziammo a vedere alcuni telegiornali dove c’era “Attenzione a dove andranno i nostri dati” e poi si vedeva il computer con la Password attaccata sopra al monitor. Ecco, quello è un esempio di share responsibility dove c’è una parte che la responsabilità non l’ha saputa proprio gestire dal punto di vista della sicurezza. Quindi fondamentale un cambio culturale sulla gestione della sicurezza, altrimenti il nuovo modo di lavorare, a casa come in Azienda, non può avvenire, diventa troppo pericoloso e il rischio è che in prospettiva le Aziende si chiudano in se stesse e riportino tutto in ufficio per necessità proprio anche dal punto di vista della sicurezza. Questi sono alcuni degli aspetti, ma molti credo che li dovremo ancora scoprire nei prossimi mesi.
Vado a chiudere. Due punti: sempre la sicurezza derivante anche chiaramente dalla attuale situazione internazionale. E l’altra. Andremo verso mesi molto difficili, costi in notevole crescita anche dal punto di vista energetico. Vi do solo un dato: l’utilizzo dei sistemi cloud consente un’ottimizzazione dei consumi di circa l’80% rispetto alle infrastrutture cosiddette on premise, perché? perché chiaramente il tutto viene ottimizzato. Il cloud garantisce elasticità. Scusate se uso termini tecnici. Avete presente quando c’è un giorno, bisogna fare tutti un documento un determinato giorno, si va su un sito, pubblico o privato, quel giorno il sito viene giù, perché non regge tutte quelle richieste che arrivano tutte insieme. Il cloud consente attraverso la propria elasticità di evitare questo tipo di problema, questo è per fare un esempio, ma dall’altro ottimizza tutto il consumo anche energetico e in un giorno in cui dobbiamo andare a guardare i costi è un altro aspetto assolutamente da considerare. E poi vado a chiudere sulla parte invece della casa. Sempre riduzione dei consumi. Ci sono tanti aspetti relativi per esempio all’internet delle cose. Ne abbiamo tanto sentito parlare. Ma l’internet delle cose è tutto: da ALEXA, alla lampadina, al frigorifero, e un altro aspetto, voi immaginate la casa è completamente connessa ad internet, se avete una casa molto avanzata. Questo consente di avere servizi di altissimo livello, chiaramente, grossi vantaggi nell’utilizzo di alcuni aspetti della casa, ma dall’altro ci sono rischi innanzi tutto di sicurezza ma dall’altro vantaggio di riduzione anche qui dei costi della casa. Immaginate appunto, sempre nella gestione della illuminazione o del riscaldamento. 17 secondi, io mi fermo.
Bardelli: Grazie, Grazie a Franco Spicciariello. Patricia Viel, torniamo invece diciamo ad aspetti della costruzione, dell’immobiliare, dello sviluppo. Raccontaci come vedi tu la casa, dopo la sfida della pandemia e di tutto quello che abbiamo sentito anche nei primi interventi, tenendo conto anche della tua esperienza anche internazionale che quindi ci può aiutare a introdurci alla rivoluzione della progettazione, perché penso che anche su quello dovremo parlare di cambiamento e di rivoluzione.
Patricia Viel: Completamente. Prima di tutto proprio la parola abitare, che a tutti immediatamente evoca il concetto di casa, in realtà dopo questa vicenda, lo era già prima, soprattutto non in Italia, nei paesi dell’Estremo Oriente lo era già prima, ma per noi ha cominciato a corrispondere a qualcosa di diverso. Noi veniamo dal ‘900 dove c’era “abitare, studiare, lavorare” le tre grandi categorie delle attività umane, che avevano dei tempi, non soltanto nella giornata, ma anche nella vita, che generavano delle origini e destinazioni dei nostri spostamenti, addirittura generavano delle forme visive della città. Le scuole son le scuole, i posti di lavoro son posti di lavoro, le case son le case, All’inizio dell’800 la pianificazione urbana parlava addirittura di zoning, quindi tutti vivevano in un certo posto, tutti lavoravano in un altro posto, tutti andavano a scuola in un altro posto e la città era un organismo abbastanza meccanico, pensato per lo svolgimento di queste attività misurate nel tempo e nello spazio, utilizzate e vissute attraverso un mezzo di trasporto, l’automobile. Quindi la quarta categoria è il movimento. Quello che è successo, di fatto, con la pandemia è che queste categorie si sono completamente dissolte. Non c’è più un luogo dove si lavora e basta, non c’è più un luogo dove si vive e basta e così via. Cosa significa per un architetto che deve progettare una casa, un luogo di lavoro, una scuola? Significa che dobbiamo cominciare a ragionare non tanto, intanto è proprio un problema di organismi, non si sta più parlando di una città di pietra, di cose costruite, ma stiamo pensando ad una città o ad un luogo dove delle persone fanno delle cose, quindi a maggior ragione una passione per l’uomo, il tema di oggi, noi progettisti dobbiamo cominciare a concentrarci sul punto di vista di ciascuno di noi, non di categorie astratte, lo studente – lo diceva prima Mario – prima c’era lo studentato, la casa, eccetera, queste non sono più categorie astratte che puoi definire in quanto tanti studenti lavorano, ci sono studenti che sono padri di famiglia o madri di famiglia, ci sono famiglie che sono magari mononucleari, altre invece più complesse, quindi anche le stesse categorie a cui si pensa quando si progetta non possono più essere così semplicemente profilate come una volta lo si faceva. Un po’ come lo fanno i grandi gestori delle piattaforme tipo Amazon, è davvero importante cominciare ad avvicinarsi al singolo utente, chi è, cosa fa, come vive, quando si sposta, perché? e progettare in quel senso. Allora già i principi su cui si fonda il lavoro che stiamo facendo con Hines a Sesto San Giovanni ha un po’ di questo, perché si fonda – ne parleremo poi dopo – proprio su un mix di attività nel tempo e nello spazio. Quindi la desincronizzazione del tempo, non tutti vanno più a scuola alla stessa ora, non tutti vanno più a far la spesa alla stessa ora, non si entra più in azienda timbrando un cartellino alle 8 e mezza, ma la gestione dipende da come ti organizzi la vita, che non è soltanto il tuo rapporto con l’organizzazione, ma è anche il rapporto con la tua famiglia che è un’organizzazione, in scala diversa, ma è un’organizzazione anche quella. Questo significa che da un certo punto di vista questa vicenda ci ha liberato da un rapporto molto formale con le cose. Quindi non soltanto coi luoghi, ma anche con le cose, pensiamo alle automobili. Quanto poco il possesso di un’automobile sia oggi interessante per un giovane e non solo quello, ovviamente, cioè abbiamo veramente un po’ spezzato questo rapporto simbiotico tra chi siamo noi e che cosa possediamo, dove viviamo, dove lavoriamo. Siamo dei soggetti, con dei bisogni, con delle necessità, con delle idee, sulla nostra vita, su come la vogliamo vivere, su che cosa è la qualità della nostra vita, e attiviamo gli strumenti che ci circondano, quindi la casa, l’automobile, la scuola, dove andiamo a leggere, dove andiamo a prendere il caffè, con chi lavoriamo, quando, secondo un progetto che è nostro. Quindi questa delega che viene sempre dal secolo scorso, sono un lavoratore che delego la mia vita ad un’organizzazione che la gestisce, è finita. Saprà di lavoro da remoto, smart working, quello che vuoi, ma è proprio cambiata l’idea di lavoro, che non è neanche più un diritto, bisogna ricominciare a pensare che cosa è il lavoro nella vita degli uomini, oggi. Perché dovrebbe essere un senso di aspirazione, per esempio, un progetto, cosa vuoi diventare, chi sei, come puoi aiutare gli altri, quale è la collaborazione, il tuo principio di collaborazione. Quello che abbiamo quindi davvero imparato è che dove viviamo è tutto, non è solo la casa, è il quartiere, è il condominio, è il rapporto che abbiamo coi negozianti intorno a casa, è come lavoriamo, quando, in che modo progettiamo di andare a lavorare e il principio che deve in qualche modo informare il progetto e l’architetto è proprio quello di stare vicino alle persone, che hanno dei bisogni singolari, individuali, non son più bisogni collettivi. Questo è un altro problema, perché anche le grandi politiche di governance del nostro paese, dei nostri paesi, che si sono sempre fondate sui cosiddetti bisogni collettivi e sulle dotazioni, ne parliamo dopo quando parliamo di città, hanno veramente poco senso oggi, perché non ci sono più bisogni collettivi, ci sono bisogni di persone, gruppi, che hanno dei desideri, dei bisogni in quel momento, non per sempre, sicuramente secondo me la casa in affitto di cui parlava Mario è la risposta. Una delle cose che noi dobbiamo assolutamente picconare nel nostro paese è questa storia antica che deriva dal dopoguerra della casa in proprietà, che fa molto male anche alle nostre città. Quindi cosa vuol dire tutto questo? Ragionare su una capacità di progettare, di disegnare i luoghi, indipendentemente da quello cui servono, devono avere una natura attrattiva, un senso di bellezza, parole tue, “i miei edifici devono essere belli, innovativi e sostenibili” proprio perché sono luoghi che devono essere capaci di attrarre. Nessuno ti obbliga più a fare nulla per andare in quel posto. Così come la casa non deve più essere “la” casa di tutta la vita. Deve essere la casa che ti serve in quel momento e se la progetti in questo modo la progetti flessibile, la progetti che la puoi manutenere con facilità, deve avere, deve essere permeabile, esposta al verde, spingerti ad avere rapporto coi tuoi vicini, quindi molto diversa dalla città europea storica. Quindi per noi il grande problema, oggi, è come ragionare, non tanto sulle case che bisogna progettare – ce la facciamo un po’ a inventarci un futuro – ma come agire sulla città storica. Questo secondo me è il grande problema del nostro paese adesso sul concetto dell’abitare così allargato.
Bardelli: Bene. Grazie. Un applauso per questo primo giro in cui secondo me sono già venute fuori delle cose molto interessanti sul tema appunto del cambiamento che ci attende, non come necessità di dare immediatamente tutte le risposte. La frase di qualcuno che dice “non abbiamo tutte le risposte” che poi ricordava Mario anche quello che è un inizio di un lavoro non qualcosa che pone angoscia, ma secondo me, è un metodo molto interessante per affrontare ciò che ci aspetta.
Nel secondo giro di domande, brevemente, volevo affrontare il tema – anche questo un tema che abbiamo affrontato negli incontri che abbiamo fatto negli anni scorsi al Meeting – il tema delle città. La scommessa delle città europee, delle città italiane che hanno queste caratteristiche di essere città di media grandezza, quindi non megalopoli, è una scommessa interessante. L’assunto da cui siamo partiti quando abbiamo parlato di città inclusiva negli anni scorsi è che la vita in città non è più come nell’800, una maledizione perché bisognava andare a vivere lì, perché bisognava lavorare, ma è un’opportunità, un’opportunità di relazione, un’opportunità di vita culturale, un’opportunità per la vita lavorativa. Ecco, anche in questo senso però, una certa visione di città e un certo sviluppo che le nostre città stavano avendo deve fare i conti con quello che è successo con la pandemia e allora vi chiedo, questo procedimento di valorizzazione della vita delle città italiane e quindi questo sforzo e questa tensione a farle diventare inclusive e non città che escludono, come ha subito l’impatto della pandemia? Stiamo assistendo a un ritorno al passato, ci si sta fermando su questo, invece, compito fondamentale che le Amministrazioni locali, gli imprenditori avevano di rendere appunto la città un luogo dove si sta meglio, dove la qualità della vita è migliore, dove si lavora meglio, ecco, rispetto all’abitare, rispetto alla qualità del lavoro come vedete lo sviluppo delle città nei prossimi mesi e quello che ci attende dopo la pandemia. Mario, continuiamo con l’ordine alfabetico. Grazie.
Abbadessa: Io personalmente – e noi come gruppo Hines che abbiamo sede in 20 paesi nel mondo e siamo il secondo, il terzo operatore al mondo – sono e siamo fermamente convinti che le città rimangono e saranno sempre più il centro delle energie mondiali e quindi credo, io sono d’accordo con tutto quello che è stato detto, con delle puntualizzazioni: il tema del lavoro agile, del south working, se non c’è un’infrastruttura logistica, quindi dei luoghi progettati per ospitare questo tipo di mentalità, sono dei discorsi un po’ naif, cioè un po’ così carini anche da fare, da discutere, di andare a lavorare dove c’è la natura, ecc. È esattamente, il mondo sta andando esattamente all’opposto. L’obiettivo è portare quei servizi e quella natura in città, non le persone dalle città fuori. L’Italia è nota per avere tante medie città. La città più importante in Italia – adesso nessuno me ne voglia – ma in questo momento sicuramente è Milano. Milano se noi prendiamo solo la città di Milano è 1 milione e due/tre persone. Bergamo a Londra è centro città, cioè Monza per una città come Parigi è la prima cerchia. Quindi, che cosa è la città? La città è quella che noi intendevamo prima, quindi proprio le mura, le circonvallazioni o è un concetto di Megacity più ampio, dove si riescono a creare i quartieri. Dove invece l’Italia era molto forte per come era stata, come erano state progettate appunto le città italiane, quindi io credo fortemente che noi dobbiamo lavorare molto sulle città in modo da renderle più appunto vivibili, ma non facendoci influenzare da alcune tematiche un po’ appunto naif di lavorare dalla casa al mare 5 giorni su 5, ecc. ecc. è una puntualizzazione solo sullo studio quello che noi abbiamo visto, perché noi per esempio proprio con l’architetto Viel stiamo progettando un edificio in via Tortona che era la ex sede di Deloitte che si è spostata. L’edificio come lo stanno progettando loro, noi come al solito abbiamo messo solo i soldi che è la parte più facile, la parte più difficile è la loro, lì tu vai incidentalmente a lavorare, ci sono i campi da pad, ci sono le palestre, ci sono le attività di Yoga, ci sono, nella piazza io ho chiesto che il cortile interno fossero delle sale riunione all’aperto, quindi noi oggi dobbiamo cercare, come una calamita, di incentivare le persone a venire in ufficio soprattutto in città come quelle italiane, come Milano, dove il commuting, quindi lo spostamento, se io prendo la media dei miei collaboratori a Milano è 20 minuti casa-lavoro, se prendo quella dei miei colleghi a Londra dove io vado tutte le settimane, è un’ora e 10, sono 80 minuti, 90 minuti nel nostro ufficio. Quindi va bene il lavoro agile e sicuramente tutti i cambiamenti che ci saranno e sono irrefrenabili come l’e-commerce. No uno diceva: no Il Centro commerciale sopravviverà sempre. No, l’e-commerce chiaramente lo batte. L’esperienza dello shopping dal vivo, noi in via della Spiga, una strada che era in grande declino, abbiamo affittato tutti gli spazi e stanno andando tutti benissimo. Quindi c’è una irrazionalità fra la narrativa e poi la pratica. Allora io credo che sono veri entrambi i concetti. La città deve essere sicuramente la calamita delle energie. Ma ci vuole un’infrastruttura che riesce ad ospitare tutti questi concetti. Quindi il lavoro agile, se io sono una mamma di 2 figli, di smart working non c’è niente, la parola smart è quanto mai inappropriata perché se io lavoro, ma devo badare a 2 figli è impossibile allora o sono persona benestante, quindi ho tutta una serie di servizi, ma anche il lavoro da casa, bellissimo, ma non è che con la pandemia improvvisamente tutti hanno la disponibilità economica per avere un’altra stanza, con uno studio e allora magari ai piani terra stiamo progettando una strada di co-working. L’ e commerce, fighissimo che io posso ordinarmi tutto, ma se non c’è il portiere o non c’è l’Amazon storage dove poter lasciare le cose, è una cosa che rimane così naif, io avrò una decina di pacchi che ho ordinato e vengono restituiti. Quindi le città sono l’unico luogo che riesce a ospitare questa serie di servizi e devono essere grandi, grandi ma vivibili, quindi organizzate per quartieri, la città dei 15 minuti, o al di là delle definizioni io credo che quello sia il trend dove stiamo andando.
Bardelli: Grazie. Luca, so che nel tuo libro ho visto c’è una pagina, ci sono più pagine anche sulla città, perché città e lavoro non sono due cose separate. Cosa dici sulla città che ci attende?
Pesenti: Va bè, ci sarebbe da star qua un giorno solo su questo tema. Non c’è dubbio quello che diceva prima Patricia Viel. Max Weber aveva letto l’avvio della modernità proprio con la separazione netta tra il luogo dove si vive e il luogo dove si lavora. Sono d’accordo. Ci sarà più liquidità. In realtà però, come dicevo prima, questa liquidità sarà solo per una fetta della popolazione. C’è un’altra fetta della popolazione che invece e in qualche modo continuerà a vivere nella metropoli come la conosciamo noi. Anch’io inevitabilmente devo parlare di Milano, ma non perché sono di Milano, ma perché Milano è in Italia la città che in questi ultimi 10 anni ha avuto lo sviluppo immobiliare più robusto e ha attratto capitali molto ingenti. Quindi in qualche modo Milano è una spia di quanto un certo modello, a mio modo di vedere, è chiuso con la pandemia perché è chiuso un certo modello di globalizzazione. La pandemia, più la guerra in Ucraina, sostanzialmente ci stanno mettendo in “terra incognita”, cioè un nuovo mondo. Cosa è successo a Milano dal 2019 al 2021. Milano ha perso l’1,8% della popolazione. Ha perso 24.000 cittadini, di cui solo 4800 sono spiegabili con un eccesso di mortalità da COVID. Quindi ha perso popolazione dopo molti anni invece in recupero. Chi ha perso? Ha perso l’1,3% tra i 36 e i 65 anni e addirittura il 3,3% tra gli under 18 anni. Cosa vuol dire? Vuol dire che Milano ha perso le famiglie. Non è un caso che a Milano il 47,2%, cioè la maggioranza relativa dei nuclei, sono individui singoli, cioè sono persone sole. E questa prospettiva nelle proiezioni demografiche del Comune di Milano verrà potenziata da qui al 2040 dove le famiglie con 3 o più componenti, cioè con uno o più figli, scenderanno dal 26,4% al 24,8%. Allora, questa proiezione di Milano è una proiezione molto preoccupante, perché va insieme a una seconda proiezione che è la tipica proiezione di una città europea che, come diciamo noi sociologi, si è “gentrificata”, cioè ha subito un processo di espulsione dei ceti popolari prima, e oggi anche dei ceti medi. Espulsi dalla città. Da qua si spiega questa diminuzione della popolazione di Milano. Certamente abbiamo parlato dei valori immobiliari. Milano è l’unica città in cui negli ultimi 10 anni i valori immobiliari sono cresciuti. È una città in cui il prezzo medio di vendita è salito dai 3500 del 2016 ai 5000 attuali e dove l’affitto è cresciuto dai 15,7 €/mq agli attuali 20. Per questo è diventata sempre più ambita, sempre più esclusiva, si è costruito molto nel campo del lusso e superlusso, ma ha espulso popolazione. Il modello a cui hanno guardato per lo sviluppo di Milano è Londra, questo modello, e vado molto dietro alle cose che dicevi tu prima, ha un problema grave, cioè non garantisce quel mix di cui tu hai parlato e io sono molto d’accordo. Sociologicamente Milano, come il resto d’Italia, ha sempre avuto come cifra un mix intergenerazionale e interclassista. Milano in particolare è nota per una, diciamo, situazione urbanistica, pensiamo San Siro dove abbiamo zone lusso e zone popolari, ma che erano interconnesse una con l’altra. Questo modello, secondo me, è un modello che non può andare avanti così, deve cambiare. In quale direzione? Qualcuno sostiene che la direzione debba essere quella di Vienna, dove però c’è un problema, che il 60% dell’abitato viennese è di proprietà del Comune, quindi un modello socialdemocratico storico. Allora visto che qua siamo in un ambito di semilavorati, io lancio diciamo così una battuta finale cioè noi, Milano è nelle condizioni di poter creare un terzo modo di pensare alle metropoli, che non sia né il modo londinese delle grandi città globalizzate, né la città socialdemocratica viennese. In questo senso il terzo settore che Milano vede presente potrà garantire quello che già garantisce: presidio nelle aree popolari, ma anche presidio a favore del ceto medio.
Bardelli: Grazie. Franco, a te, la città che vedi dove si lavora e dove che sviluppo vedi dal tuo punto di vista, dal vostro punto di vista.
Spicciariello: Intanto, se mi consentite una battuta, mi auguro che Roma inizi a inseguire e raggiungere Milano, perché insomma, io ogni volta che mi trovo a Milano per lavoro e poi sento i vostri discorsi, mi viene un po’ di depressione. Sembra che un po’ di cambiamento sia stato avviato, ma siamo molto lontani. Su questo chiudo. Anche se mi dicono che i romani tendono a parlar male della propria città. Però andrà meglio. Le città. Noi siamo una società di tecnologia, quindi non intendo entrare nel tema dell’organizzazione urbanistica vera e propria anche se chiaramente da cittadino e lavoratore di una multinazionale vedo molto personalmente le cose come le ha descritte Mario Abbadessa in termini organizzativi. Che cosa è una città per noi? Una città è un enorme agglomerato e produttore di dati. Soltanto che oggi quei dati non vengono nè raccolti nè utilizzati in gran parte. Uno spreco assurdo. Uno spreco perché l’Italia da questo punto di vista è un po’ indietro, Milano è un po’ avanti, ma l’Italia in generale è un po’ indietro. Può essere un vantaggio arrivati ad oggi perché quando sei indietro tecnologicamente puoi fare quello che viene definito il cosiddetto leap frog, cioè il salto della rana, quindi saltare immediatamente alla tecnologia successiva utilizzando le esperienze degli altri. Un’Azienda come la nostra, come Amazon Web Services, abbiamo aiutato città, regioni, province, tutto il mondo a sviluppare applicazioni per i cittadini, per le amministrazioni, per le imprese, capaci di migliorare i servizi alle stesse, perché alla fine tutti questi dati l’unica cosa cui devono servire è a migliorare i servizi per le persone. Servizi nell’ottica della vivibilità innanzi tutto. Faccio un esempio che è quello dei trasporti. Cose di cui sentiamo parlare dagli anni ‘90. Il concetto di Smart cities nasce negli anni ‘90. Oggi dobbiamo parlare di città intelligenti in senso più ampio, perché abbiamo la tecnologia, la tecnologia cloud in particolare, che consente attraverso ad esempio l’utilizzo dei dati con le tecnologie di machine learning di Artificial Intelligence, di riuscire a predire come la città si svilupperà, quali saranno le necessità dei cittadini, delle imprese, dal trasporto al consumo energetico, Non si sta facendo, ma è tecnologicamente possibile, non solo. consentirebbe alle città e alle persone e alle Aziende di risparmiare moltissimi soldi in realtà, in un’ottica di ri-sviluppo e da questo punto di vista l’occasione del PNRR è unica e forse l’ultima che abbiamo in una generazione. Non può esser persa. Vedere miliardi di Euro investiti in tecnologia, digitalizzazione, nella realizzazione di infrastruttura tecnologica, perché alla fine serve questa. Noi abbiamo fatto la nostra parte. Amazon Web Services ha investito e investirà fino al 2029, oltre 2 miliardi di euro in infrastruttura tecnologica. Abbiamo aperto la nostra Region che è triclustered data center, quindi qualcosa di molto più grande di un singolo Data Center. Immaginate il 29 aprile del 2020, io ero in mezzo alla pandemia a occuparmi di garantire che potesse essere avviata la nostra Region, spiegando tra l’altro al Governo, alla Regione Lombardia come questo fosse un pezzo di Internet e quando parlo di un pezzo di internet voi pensate che nel periodo di avvio della pandemia 800 milioni di persone hanno cominciato ad usare internet in tutto il mondo. Immaginate l’impatto sulle tecnologie digitali, sull’infrastruttura. C’è stato chi ha dovuto fare una prioritizzazione dei servizi, con dei rischi anche dal punto di vista della sanità, delle comunicazioni, è stato un momento davvero difficile. Noi dal nostro punto di vista abbiamo investito per evitare questo e per garantire che qualsiasi crescita e necessità potesse essere rispettata. Sono dati poi che devono aiutare dal punto di vista del lavoro. Attraverso l’utilizzo di questi dati tu puoi capire che tipo di skills, che tipo di competenze, i tuoi cittadini hanno bisogno. Quindi tu Stato, tu città puoi investire nella città in maniera differenziata ovviamente, perché quello che serve a Milano non serve a Roma, non serve a Reggio Calabria, ma oggi la verità è che non lo sappiamo, perché nessuno lo sta analizzando. Sostenibilità, noi abbiamo parlato prima, attraverso utilizzo di tecnologie digitali che ti consentono di risparmiare dal punto di vista del consumo energetico innanzi tutto. Inclusività, perché abbiamo moltissime esperienze di applicazioni che vengono fatte dall’India agli Stati Uniti, quindi veramente parlo di mondi completamente diversi, che vanno dal supporto delle Associazioni sul territorio, per esempio per popolazioni di cittadini che vivono in aree dove i servizi non sono gli stessi, qui si può intervenire per esempio con la telemedicina che in Italia, purtroppo è ancora lontana da dove dovrebbe essere. Immaginate quartieri oggi un po’ abbandonati a sé stessi o piccole città, dove oggi si potrebbe intervenire in ottica tanto più di prevenzione utilizzando la tecnologia e non lo si sta facendo. Quindi, abbiamo davanti a noi una autostrada da costruire, i soldi ci sono, la tecnologia c’è, serve soltanto la volontà di farlo. Sembra che ci sia. Vediamo veramente i prossimi mesi.
Bardelli: Grazie. Patricia.
Viel: Intanto effettivamente adesso si comincia a parlare di “Functional urban area” che non è più la città coi suoi confini, ma sono delle regioni urbane che scambiano cittadini con poli urbani al loro contorno. Noi con il progetto di Sesto stiamo esattamente facendo questo. Stiamo creando un centro nuovo, che sposta il baricentro, la pressione di una città come Milano, fra Milano e Sesto, Monza, ecc. Quindi andiamo ad agire proprio sull’attivazione di un’area urbana funzionale creando qualità e luoghi capaci di generare stanzialità, perché sono un mix funzionale: case, uffici, piazze, ristoranti, scuole, studenti. Quindi la città che dobbiamo immaginarsi sarà un po’ fatta così, sarà una città di città. Però dobbiamo immaginarcela, visto che comunque la capacità di trasformarsi dell’ambiente urbano è molto lenta, c’è un’inerzia notevolissima; la città che viviamo oggi è visivamente la stessa gli anni ‘90, ma negli anni ‘90 non c’era internet; capite bene la città è la stessa, la nostra vita no. Quindi se dobbiamo immaginarci anche una città per i tuoi figli, perché questo è l’orizzonte temporale, io credo che dobbiamo vederlo un po’ – passami il termine sbagliato – come un’applicazione, una app, uno strumento che ti concede, che ti permette di attivare dei servizi, di accedere a dei servizi, come cittadino, semplicemente perché tu vivi lì, senza neanche l’interscambio monetario, se vogliamo, cioè una sorta di accesso libero a quello che la città pubblica ti dà, quindi la città, il perimetro della functional urban area è un luogo dove vengono erogati dei servizi ai propri cittadini e lo strumento città, chiamiamolo app, chiamiamolo tool, chiamiamolo device, sarà quello strumento che ti concede, ti consente di accedervi. Perché faccio questa sorta di metafora del rapporto della città? Perché, dicevo prima dei bisogni individuali, sempre di più i nuovi umani saranno self employed, cioè imprenditori di sé stessi, proprio perché il rapporto con le organizzazioni cambierà moltissimo e sempre di più nel tempo, così come il rapporto con l’università, con la scuola e con la famiglia. Quindi tu devi rendere la città un luogo dove questi singoli, questi soggetti un po’ atomizzati, si ritrovano. Quindi dove avvengono cose, dove le piazze sono utilizzate per i concerti, le fabbriche dismesse sono dei laboratori di apprendimento che durano magari tre mesi organizzati da Compagnia delle Opere per una qualche tipo di ragione, dove le organizzazioni si dispiegano in attività che non sono permanenti, costantemente capaci di cambiare. Quindi una città di pietra, se vogliamo, che indica con la sua figura, che deve essere molto più attraente di come è oggi, banalmente togliendo le macchine, trovando il modo, quello che noi chiamiamo gli spazi di parcamento non devono essere sulle strade, ma sotto, tutti, allargando i marciapiedi, creando zone verdi fra gli edifici abitabili, utilizzabili, dove si fa raccolta di dati, dove ci si scambiano informazioni, dove schiacci un pulsante e ti arriva una macchinina che ti porta dove devi andare, autoguidata, elettrica, dove non c’è più il rumore che conosciamo oggi nelle nostre città. La città del futuro immaginatevela un po’ così. Come è oggi: un po’ moderna, un po’ vecchia, un po’ nuova, un po’ antica, un po’ incasinata, un po’ ordinata, ma con un tipo di utente completamente diverso, che la utilizza come uno strumento per accedere a quello di cui ha bisogno. È una visione un po’ estrema quella che vi sto raccontando, ma che si basa su una figura che a me piace chiamare il nuovo nomade, non tanto perché sto pensando ai tuoi figli come i nuovi nomadi del futuro, ma perché saranno sicuramente persone che viaggiano leggere, che non si riempiono la vita di cose; che se vanno in vacanza vanno in vacanza con uno zainetto, che non comprano il motorino, la bicicletta, e poi il motorino, e poi la macchina, poi un televisore, poi un altro televisore, che vorranno godere delle cose e non averle e per fare tutto questo, esattamente come si diceva prima, vuol dire che i luoghi, come gli uffici, la città, deve diventare uno strumento abilitante: fare la vita che vuoi senza necessariamente diventare un soggetto stanziale, pieno di cose che si porta dietro con fatica nella vita. Tu parlavi di Milano che perde i suoi abitanti. Milano in realtà vede un fenomeno dal mio punto di vista ancora più significativo. Ha cambiato la sua figura di residente: se ne sono andate via in 600 mila e ne sono entrati 600 mila nuovi, non milanesi. Questa è un po’ la caratteristica di Milano, una città di passaggio. Allora quando si fanno dei ragionamenti e si progetta che cosa deve essere la Milano del futuro, se questa è la sua natura oggi, dobbiamo pensare a loro e dobbiamo pensare agli studenti, per esempio. Quindi il nostro target come milanesi sono sicuramente gli studenti, i ricercatori, coloro che arrivano in una città perché succedono delle cose, perché ci sono delle Aziende che fanno ricerca, che investono, perché ci sono delle Università che si collegano a livello globale con altre, quindi tu arrivi lì si, ma accedi a Stanford, accedi a Cambridge, accedi ad altri sistemi di formazione, perché essendo una città di passaggio è accessibile, affordable, quindi, case a basso costo è fondamentale, vitale trovare il modo per rendere Milano una città accogliente, case che sono capaci di aprirsi verso il quartiere, verso la strada. In questa diapositiva vi faccio vedere Mini living. La Mini è un’automobile del gruppo BMW. Automobili e Aziende che fanno arredi, mobili, si stanno molto interrogando sulla città e sull’abitare perché è il loro orticello. Loro si sono immaginati e lo stanno tra l’altro anche un po’ cercando di mettere in pratica, con degli allestimenti, con delle messe in scena di questa cosa, si sono inventati questo mini living che è un luogo molto poroso, molto aperto, molto legato alla città, non so se forse, non vedo bene tutti voi, comunque, io ho in mente Blade Runner, che è un film degli anni ‘80, quindi bisogna avere una certa età per ricordarselo bene, che però prefigurava il 2010, dove la città era vissuta più nelle strade che dentro, cioè gli edifici erano sostanzialmente fatiscenti o mezzi distrutti, era chiaramente una distopia, però era interessante quel punto di vista, perché credo che proprio la città con la sua complessità, la sua ricchezza di opportunità, debba diventare così, cioè un luogo che si vive soprattutto fuori. Quindi, per noi architetti la città pubblica è la chiave della qualità della vita e creare città pubblica anche dentro gli edifici. Qui vedete per esempio un’immagine del progetto che stiamo facendo a Sesto San Giovanni con Mario. Questo grande edificio in primo piano è fatto in realtà da tanti edifici, l’abbiamo chiamato il Bac, Building As a City, perché ha la capacità di attrarre talmente tante persone che gli devi innestare quella scala delle città pubblica, dei luoghi di scambio che nella nostra tradizione è attribuita alla città fuori, quella sulle strade. Quindi portare città pubblica condivisa, spazi condivisi ovunque, dentro e fuori, parlavo della città storica, i cortili, dobbiamo riappropriarci dei cortili, come tu ci hai fatto disegnare i cortili delle tue case: pubblici, attraversabili, pieni di servizi. E soprattutto accessibile, quindi per i bambini, per gli anziani che devono camminare in un certo modo, sicura, molto illuminata, a tutte le ore del giorno e della notte, facile da capire, con delle emergenze, l’immagine della città deve avere dei luoghi che tu riconosci e non ti senti mai perso. Quindi, si, multicentrica, ma magari con un centro dove c’è, non so, una cattedrale, il teatro, un luogo di grandissima attrazione come abbiam fatto qui. Qui c’è la stazione, bus, piazza, albergo, sembra Monopoli. Cioè lo capisce chiunque come funziona quel quartiere lì. Quindi immaginiamoci un luogo vissuto in modo molto diverso da oggi, molto più fluido, molto più indeterminato per certi aspetti, un luogo di passaggio, un po’ come la città del Medio Evo, ma non molto dissimile visivamente da quella che conosciamo.
Abbadessa: Ora posso dire una cosa? Dato che hai detto che sono amico del Meeting lancio una provocazione per l’anno prossimo per questo dibattito perché io sono d’accordo non al cento ma al mille per mille, solo che tu hai fatto il moderatore. Adesso noi ti facciamo una domanda a te come avvocato perché amministrativista, perché è vero quello che Lei dice in merito alle automobili, peccato che io a Milano, e tu lo sai bene, ho dovuto fare uno studentato per 600 studenti e in Italia c’è una legge che per ogni appartamento o unità abitativa io devo fare un posto auto. Figuratevi che io ho avuto 300 studenti americani che di auto non ce l’avevano, non se la sono portata, però io l’ho dovuto realizzare e non sono riuscito a convertirli in nessun modo. Quindi forse proprio noi dall’Italia per progettare città del futuro dobbiamo assolutamente portare a bordo non solo le idee, che qui ci sono e mi sembrano tutte molto positive, ma anche la nostra burocrazia la quale deve assolutamente adeguarsi alle esigenze, appunto, delle persone e dell’utilizzo di questi beni. Basti pensare che a Milano noi abbiamo realizzato il primo centro interamente elettrico in viale Rubattino multipiano logistico e nel Comune di Milano oggi la logistica è vietata, abbiamo fatto uno stralcio del PGT. Quindi ci sono un po’ di contrasti che secondo me vanno messi a posto quindi ti chiediamo a te un supporto.
Bardelli: Da Avvocato ti risponderei alla romana: Non sta’ a spaccà il capello. Effettivamente il problema dei parcheggi nella residenza universitaria è un problema drammatico e di applicazione ideologica di una normativa rispetto alla realtà che cambia e secondo me la cosa interessante, molto interessante che è venuta fuori oggi è che innanzi tutto appunto la realtà sta cambiando e il modo per stare, non dietro ai cambiamenti, ma per non vedere questi cambiamenti come un nemico è quello che ci avete testimoniato secondo la diversità di esperienze: stare nella realtà, e questo naturalmente vale per la pubblica amministrazione, che oggi forse è il convitato di pietra e per la volta prossima, l’anno prossimo, dobbiamo metterla al tavolo sulla città, ma per tutti noi, cioè stare nella realtà, stare profondamente nella realtà, perché questo ci consente di conoscere ciò che sta succedendo, di conoscere i fatti e quindi di non fare applicazioni teoriche sulla città, sulla casa, sugli uffici, sul modo di lavorare, perché questa è la grande speranza, perché il futuro possa essere una cosa che si possa affrontare positivamente. La seconda questione secondo me che è venuta fuori bene oggi è che ci sono diversi aspetti, quando parliamo di città e quando parliamo di abitazione. C’è la città del futuro, affascinante, ma c’è anche la città del presente che rischia di escludere una parte della popolazione. Allora questo tema o lo si affronta in modo etico ed astratto o ideologico e spesso la pubblica amministrazione lo fa, cioè imponendo delle normative rigide. È stata l’esperienza del passato che non ha funzionato, parliamo di social housing, eccetera. oppure capendo che la città inclusiva, voi oggi avete usato una parola molto interessante, sia sul lavoro sia sull’abitazione, che mi sembra la soluzione quando c’è un problema. Cioè non imporre, ma rendere attrattiva una possibilità e un’esperienza. Allora capire che una città è più attrattiva se è una città inclusiva è un punto secondo me dirimente da capire e da comprendere in modo non ideologico. Non abbiamo tutte le risposte. Dobbiamo capirlo affrontando, ma non possiamo lasciare indietro questo aspetto. Cioè una città inclusiva è una città più attrattiva. È vero, dobbiamo verificare, dobbiamo fare un’esperienza, nel nostro lavoro, stando nella realtà, se questo è vero oppure no. Perché se no diventa un assunto ideologico, un assunto etico che non funziona. Questa possibilità di stare nella realtà e quindi di affrontare la realtà dall’interno, conoscendola e vivendola profondamente, è ciò che può rendere attrattivo quello che costruiamo, i nostri ambienti di lavoro e le nostre città.
Fuori da un’esperienza di attrazione, con tutta le difficoltà e la drammaticità che questa esperienza di attrazione ha, non faremo quel passo verso un cambiamento positivo delle nostre città, del nostro modo di vivere, del nostro modo di lavorare. Ci saranno anche lì degli aspetti forse ideologici, forse impositivi, ma che proprio per questo non funzioneranno con l’uomo e la donna di oggi, che hanno bisogno di essere attratti per fare delle esperienze positive e non di essere obbligati. La società è talmente più così complessa, così globalizzata, che è solo una seria esperienza di attrazione che può convincerci a fare delle scelte e – concludo – queste scelte quindi sono nelle mani di soggetti. Oggi noi abbiamo visto quattro soggetti, ce ne sono tanti altri che questi soggetti imparino a dialogare, a stare assieme, perché tutta questa capacità di attrazione nasce dal dialogo, dal conoscere le esperienze altrui, dal mettersi assieme, che è la scommessa che come Compagnia delle Opere facciamo quotidianamente. Mettersi assieme tra imprenditori, tra soggetti che hanno esperienze lavorative diverse, dialogare, rende capaci non di risolvere tutti i problemi, ma di affrontarli con una modalità positiva.
Questo è il lavoro che abbiamo fatto oggi e che quindi a me ha impressionato molto, e questo è il lavoro che fa il Meeting. Oggi è il primo giorno, ma chi è qui per la prima volta o chi è già stato, vede e può riconoscere nel Meeting questa possibilità, un luogo di dialogo per stare di più nella realtà, per uscire dal Meeting essendo di più nella realtà in cui si è, quella più semplice come quella più complessa. E concludo veramente dicendo: per fare questo lavoro il Meeting ha bisogno dell’aiuto di tutti noi, ha bisogno dei grandi amici e dei piccoli amici, voi girando troverete dei corner con scritto Dona Ora, è un punto di aiuto. Qui vi invito tutti a prendere seriamente in considerazione e vi do una notizia: da quest’anno l’Associazione Meeting è un Ente del Terzo Settore e quindi dare un aiuto economico al Meeting ha i benefici fiscali che la normativa vigente riconosce per gli aiuti e il sostegno agli Enti del Terzo settore.
Vi ringrazio per l’attenzione e per la presenza e buon Meeting a tutti voi. Grazie