Rimini, 20 agosto 2021 – L’assalto di Capitol Hill del 6 gennaio 2021 è stato solo l’ultimo dei fatti che hanno portato a chiedersi se negli USA la democrazia fosse giunta definitivamente a un bivio. E dall’urgenza di leggere assieme questi sintomi è nato l’incontro “Stati Uniti. Democrazia al bivio?”, introdotto e moderato da Martina Saltamacchia, distinguished asso-ciate professor di Storia Medievale all’Università del Nebraska, Omaha.
Paolo Carozza, direttore dell’Helen Kellogg Institute for International Studies all’Università di Notre Dame, parte indicando un rischio: «C’è la tentazione, seppur errata, di ridurre que-sta situazione all’ascesa di Donald Trump. Abbiamo assistito all’ascesa di una politica de-magogica senza precedenti, ma bisogna andare oltre e analizzare i cambiamenti culturali, perché la cultura viene prima della politica». Si vedono minati gli ideali e i principi che crea-no l’orizzonte comune cui aspirare, l’ideale americano. Varie forze hanno concorso allo sgre-tolarsi della comunità: un indebolimento della coesione familiare, uno sconvolgimento eco-nomico dovuto alla globalizzazione e alla rivoluzione tecnologica, l’individualismo atomizza-to esacerbato dalla tecnologia che spinge verso una cultura dell’odio, la perdita di una di-mensione religiosa e la mancanza di empatia e di pietas e – non ultimo – il consolidamento di una élite che fa sentire esclusi una larga fetta della popolazione. «L’era della democrazia americana è finita?» si chiede dunque Carozza. Si tratta probabilmente di naturale sconvol-gimento della democrazia, come in America lo sono stati la guerra civile o il ’68. Se si os-servano però le radici culturali più profonde si vede che non basta una riorganizzazione dei partiti e dei movimenti. «È l’occasione per tornare a domande di base e riflettere: che cosa vuol dire oggi essere americani nel XXI secolo? Il coraggio di dire”io” deve includere anche la dimensione per poter dire “noi”, per riconoscere cosa ci unisce agli altri».
Seguono le parole di Joshua Mitchell, professore di Teoria della Politica, Georgetown Uni-versity. Il modello americano – osserva – è un modello e per sua natura fragile, suscettibile di forti tensioni e profonde crisi. È con questa lente che vanno letti la crisi del 2007, gli an-damenti di Wall Street e infine l’ascesa di Trump e i profondi sconvolgimenti che oggi carat-terizzano sia l’ala repubblicana sia quella democratica, che in questo momento si trovano spaccate in due. «L’Europa così come gli Stati Uniti vivono un profondo senso di colpa legato al passato. La crisi, tuttavia, ha toccato anche la dimensione religiosa e cristiana e senza un modo cristiano di affrontare il senso di colpa non ne verremo fuori. La grazia, il perdono, la redenzione; senza non si possono affrontare la crisi e il senso di colpa». La politica identita-ria, contrapponendosi alla dimensione divina dell’espiazione, cerca il capro espiatorio e in-coraggia slanci distruttivi volti a neutralizzare la controparte per le sue presunte colpe. E conclude: «Siamo di fronte ad un problema di competenza. La fiducia negli esperiti per an-dare verso il futuro è insidiata dall’interno e, per contro, nessuno si sente chiamato – com-petente – a costruire il futuro. Sono questioni pre-politiche, spirituali: dobbiamo riscoprire il tesoro che è nelle mani delle persone che abbiamo perso».
Maurizio Molinari, direttore de La Repubblica, osserva come l’America sia una nazione fron-tiera, un laboratorio. La vittoria di Trump, come vittoria di un populismo, documenta una profonda sfiducia nei confronti del sistema istituzionale. La crisi economica, la corruzione della classe politica e la paura dei migranti sono tutti elementi che accompagnano la storia americana. È però il tema delle disuguaglianze a porsi alla base dell’elezione di Trump. «Trump non governa la protesta, ma porta la protesta dentro le istituzioni, fino alle esalta-zioni più estreme, quelle del 6 gennaio 2021». Tutto questo però, osserva, ha portato all’elezione di Biden, contrapponendo alla “coalizione della protesta” una nuova “coalizione dei diritti”. Una nuova generazione di elettori arriva alle urne e in questo contrasto arriva l’urgenza di dare spazio ai diritti LGBT, alle donne, alle minoranze e ai diritti di nuova gene-razione in campo ecologico e climatico. Molinari puntualizza: «Questo ci dimostra che il po-pulismo può essere battuto alle urne». Tuttavia, desta perplessità il fatto che il presidente Biden, eletto grazie ai diritti e una forza anti-populista, con il ritiro dall’Afghanistan abbia compiuto un’azione che sembra essere in perfetto allineamento con la politica nazionalista di Trump. C’è da chiedersi, quindi, se il populismo abbia contagiato i diritti e se si debba cominciare a fare i conti con una politica ibrida. E conclude: «Questo dibattito potrebbe es-sere la genesi di una nuova idea di democrazia. E questo grande laboratorio dice a noi euro-pei che cosa ci dobbiamo attendere».
È così proprio il tema delle disuguaglianze, soprattutto raziali, a segnare l’ultima parte dell’incontro. «Il movimento Black Lives Matter», osserva Mitchell, «accusa la storia di esse-re ciclicamente razzista. Ma il problema di questa narrativa è problema innanzitutto politico: sembra che nessuno sia in grado di aiutare le persone nella società, solo lo Stato». E questo è un tratto che contraddistingue la coalizione dei diritti, che spesso porta ad intendere il plu-ralismo come se l’eccezione fosse la regola, senza spazio per il dissenso, con il rischio di andare verso un crimine di pensiero.
La categoria dei “dimenticati”, i cosiddetti “forgotten”, continua Molinari, ha l’intento di sfi-duciare la democrazia rappresentativa, ma trovare soluzione a problemi complessi compor-ta tempo, fatica e studio. La pandemia ha riproposto in modo drammatico l’importanza dal-le istituzioni e dello Stato. Di fronte a questa rilegittimazione della democrazia, però, i po-pulisti hanno creato un fronte ancora più estremo attorno alle bandiere dei no-vax. Questo ci dice che il conflitto tra diritti e protesta viene cavalcato dalle forze diverse e contrarie alle nostre democrazie.
Tornano così utili le parole con cui il presidente Obama aveva affrontato la questione delle diseguaglianze con la comunità afroamericana: «Se la generazione Mosè è in grado di vin-cere affermando nuovi diritti e creando la novità, serve anche la generazione Giosuè, prota-gonista nella costruzione della terra promessa».
(E.S.)