di Alessandro Pavanati
Controllo o fiducia? Smart working o home working? Cioè lavoro da casa semplicemente, o lavoro intelligente? E poi: siamo pronti per un vero lavoro intelligente, agile e flessibile?
Alle sfide professionali poste dal Covid-19 hanno provato a rispondere ieri mattina Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’Istat, Alessandro Profumo, amministratore delegato di Leonardo, Marco Ceresa, amministratore delegato di Randstad Italia, Marco Hannappel, presidente e ad di Philip Morris Italia, Marco Travaglia, presidente e ad di Nestlé Italia, moderati da Michele Brambilla, direttore del Quotidiano Nazionale.
“Da febbraio 2020 – ha esordito il prof. Blangiardo – il livello dell’occupazione è sceso di circa 600 mila unità e le persone in cerca di lavoro sono diminuite di 160 mila, a fronte di un aumento degli inattivi di oltre 700 mila unità”. Segno che, nel periodo di cosiddetto lockdown, è cresciuto anche il numero di persone, soprattutto giovani, sempre più rassegnate, che non cercano nemmeno lavoro, “perché tanto non ne vale la pena”.
Allo stesso tempo in un anno, dall’aprile 2019 all’aprile 2020, il lavoro da casa è quadruplicato: sono 4,5 milioni gli occupati che durante il lockdown hanno lavorato dalla propria abitazione.
Si parla spesso delle opportunità offerte dal lavoro da remoto, soprattutto per quanto riguarda la conciliazione vita-lavoro per i genitori, tuttavia vanno affrontati una serie di nodi, come precisato in particolare da Alessandro Profumo. “Perché ora possiamo parlare soprattutto di home working, piuttosto che di smart working? Perché il lavoro, prima di diventare smart, deve vedere il cambiamento di una serie di processi. Noi ce ne siamo resi conto perché, ad un certo punto, abbiamo avuto fino al 45% dei dipendenti che lavoravano da casa. Capire se il lavoro ha caratteristiche di intelligenza implicita anche quando svolto da casa è piuttosto complicato”. Può essere semplice per mansioni amministrative, ma non esserlo ad esempio per ingegneri altamente qualificati, il cui lavoro è altamente interdipendente momento per momento. Rivedere i processi aziendali, secondo Profumo, è quindi il requisito per arrivare ad un vero smart working. Passaggio che, come rilevato da Blangiardo in apertura, deve andare di pari passo con un’infrastrutturazione tecnologica adeguata, purtroppo in Italia ancora non sufficiente.
Le nuove dinamiche del lavoro chiamano in causa il tema della fiducia, punto affrontato da Marco Ceresa di Randstad. “Siamo partiti quattro anni fa col promuovere lo smart working – ha raccontato - soprattutto per esigenze legate alla logistica e all’ambiente, ma abbiamo comunque potuto constatare un aumento della produttività. L’errore principale, però, è pensare di irrigidire lo smart working dentro un sistema di regole e schemi. Per questo è fondamentale puntare sulla fiducia e sul monitoraggio dei risultati, piuttosto che sul controllo da remoto di collaboratori e dipendenti”. Stesso principio ripreso anche da Travaglia per quanto riguarda l’esperienza di Nestlé, che però sottolinea come “la virtù stia sempre nel mezzo”, senza quindi pensare di eliminare gli aspetti positivi dell’organizzazione del lavoro vecchio stampo. È importante mantenere comunque un livello di centralità anche fisica del luogo di lavoro, pensando soprattutto al sistema di relazioni coi colleghi e tutto il team, come specificato da Hannappel per quanto riguarda l’esperienza di Philip Morris Italia.
Un punto fondamentale rimarcato da Ceresa è che oggi non debbano essere valutate tanto le competenze, quanto le attitudini delle persone. Solo così si potrà pensare di valorizzare adeguatamente il capitale umano e gestire positivamente la transizione ad un nuovo modello di società ed organizzazione del lavoro.