di Oscar di Montigny
Viviamo in un sistema sferico nel quale ogni pensiero, ogni emozione, ogni azione impatta su tutti e su ciascuno dei 7 livelli delle nostre esistenze. Quelli che definisco 7P: Person, cioè ogni individuo. People, l’Insieme, l’umanità. Partnership, tutte le relazioni. Profit, il frutto che dobbiamo produrre. Prosperity, la ricchezza non solo materiale ma intellettuale ed emotiva. Planet, la nostra Madre Terra che abbiamo in prestito dai nostri figli. Peace, l’attitudine umana di mettersi “in relazione con” e non “in contrapposizione a”.
Come non sentirci più soli? E come possiamo riscoprire l’importanza di un cammino con-diviso?
Secondo i risultati dell’Osservatorio Censis-Tendercapital sulla “silver economy” tra gli effetti più eclatanti che la pandemia ci ha lasciato, si registra anche quello di aver creato una frattura intergenerazionale che contribuisce a generare un nuovo tipo di rancore sociale.
La ricerca evidenzia infatti che se da un lato vi sono gli over 65, oramai mediamente sempre più in buona salute, economicamente solidi, con vite appaganti e un’utilità sociale riconosciuta, dall’altro, invece vi sono i giovani che mostrano un desiderio nuovo di rivalsa generazionale nell’accesso alle risorse e ai servizi pubblici, legato a una concezione delle persone longeve come privilegiate e forti dissipatrici delle risorse pubbliche.
Tant’è che 5 giovani su 10 ritengono che in situazioni di emergenza si debbano penalizzare gli anziani nell’accesso alle cure e nella competizione sulle risorse pubbliche. Più nel dettaglio, il 49,3% dei Millennial (il 39,2% nel totale della popolazione) ritiene che nelle emergenze sia giusto curare prima i giovani rispetto agli anziani; inoltre il 35% dei giovani (il 26,9% nel totale della popolazione) è convinto che la spesa pubblica per gli anziani, dalle pensioni alla salute, sia troppa e che ciò arrechi danno ai giovani.
Ma non può essere solo una questione economica. A questo punto delle cose non possiamo più permetterci una lettura superficiale degli eventi e degli atteggiamenti. Parlare di un nuovo rancore sociale intergenerazionale significa alimentare una narrativa divisiva. Significa perseverare in una scelta linguistica che perdura da lungo tempo e che, purtroppo, nei mesi della pandemia ha sempre più assunto le sembianze di uno sterile campo di battaglia sul quale vengono sacrificati gli interessi di intere generazioni in nome di inutili, in quanto superati dall’urgenza dei tempi, e inadeguati stereotipi. È stato scelto infatti, ricorderete, un linguaggio guerresco per parlare delle misure sanitarie, così come si continua erratamente a definire distanza sociale quella che invece è pura distanza fisica.
Sono convinto, per esempio, che se imparassimo a usare una lingua comune che non riconosca la discriminazione di alcun genere, supporteremmo l'abolizione pratica delle disparità. Dobbiamo aspirare a una lingua che ci aiuti a diffondere gratitudine. Che ci permetta e ci supporti, ogni giorno, a essere meno soli, a dare e trarre forza dalle relazioni con gli altri.
Al Meeting 2019 ho visitato con grande interesse una mostra, “Bolle, pionieri e la ragazza di Hong Kong”, che si apriva con una distinzione linguistica della lingua inglese che noi italiani non abbiamo, tra loneliness e solitude. Se infatti in italiano si può essere soltanto “soli”, in inglese ci si può sentire alone, soli in senso fisico, isolati, o lonely, soli nel senso di privati di legami significativi con altre persone - una solitudine più astratta, più dolorosa. E ovviamente non sempre le due cose si sovrappongono: esistono le folle solitarie e i guardiani del faro che passano le nottate a scrivere lettere agli amici lontani.
Se ci guardiamo intorno, il primo caso è quello che ci riguarda tutti più da vicino. Nelle parole, nell’incantesimo del linguaggio, si può individuare ciò che ci separa dagli altri e che diamo per scontato, e che magari finiamo per ignorare con una battuta. E ogni stereotipo digerito senza masticare ci allontana dagli altri, dal brivido dell’incontro con ciò che chiamiamo “lontano” o anche solo “diverso”. Ignorando l’altro ci ritroviamo come monadi isolate, capaci di gratificare solo noi stessi con il consumo o con azioni inevitabilmente piatte e superficiali. In altre parole, fragili.
Questa difficoltà a provare la gioia dell’incontro con l’altro è un problema enorme. Una società di uomini solitari non costituisce un insieme, la somma diventa minore del numero delle parti. Ed è anche una società più debole, meno resiliente agli sconvolgimenti demografici, climatici o alle disruption prodotte dall’evoluzione tecnologica.
I sociologi parlano di “capitale sociale”, che è qualcosa di ben diverso dal capitale sociale (di rischio) di un’azienda. Si tratta infatti di tutti i benefici che un gruppo sociale o un individuo riceve partecipando a una rete di relazioni interpersonali basate su principi di reciprocità e mutuo riconoscimento.
Il capitale sociale è una maglia invisibile la cui consistenza, tuttavia, è positivamente correlata con un’equa distribuzione del reddito, livelli d’istruzione elevati e una maggiore sicurezza delle città. Non sorprenderà quindi che negli ultimi anni ha cominciato a interessare i decisori politici più illuminati.
Occorrono dunque con un’urgenza sempre più pressante, nuove configurazioni relazionali. Nuove partnership. Domandiamoci quindi, individualmente: nella mia sfera di influenza come posso riappropriarmi davvero, quotidianamente, del gusto necessario dell’incontro con l’altro?
Desidero davvero lasciare che questa sia l’epoca dell’infinita connessione ma della perpetua interruzione?